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2 1 Essere è apparire

Il già citato saggio del 1946, Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, è in fondo una disamina del rapporto tra essere e pensiero attraverso la lettura dei tentativi che la filosofia ha fatto, dopo Hegel, di ripensare tale rapporto. L’interesse è qui focalizzato su quei filosofi che si sono ribellati contro l’identità di essere e pensiero o hanno perso la “speranza in essa” nonché su quelle «sedicenti scuole filosofiche più recenti»51, in realtà scuole di epigoni in quanto cercano di ristabilire quell’identità.

Primo obiettivo polemico, sebbene non centrale in questo saggio, è l’ontologia tradizionale, intesa come dottrina fondata sull’identità di pensiero ed essere. Essa, nata con Parmenide, ha trovato in Hegel il suo ultimo grande esponente: egli riuscì a spiegare tutti i fenomeni naturali e storici ordinandoli in una «totalità misteriosamente coerente – di cui non si è mai riusciti a stabilire con certezza se si trattasse di una casa oppure di un carcere per la realtà»52. La storia del pensiero occidentale, che trova in Hegel la sua espressione più sistematica, è dunque storia

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H.ARENDT, What is Existenz Philosophy ?, op. cit., p. 48.

dell’imprigionamento della realtà nelle forme ordinatrici del pensiero. Ma la tendenza che ha segnato, seppur con tratti differenti, la storia della filosofia fino ad Hegel, non scompare nell’età moderna ma anzi trova espressione nel pragmatismo e nella fenomenologia: nel tentativo di superamento del moderno spaesamento originato dall’incontro con «cose liberate dal loro contesto funzionale»53, Husserl avrebbe ristabilito, mediante una deviazione della struttura intenzionale della coscienza, «l’antica relazione tra essere e pensiero, che aveva garantito all’uomo una dimora in questo mondo»54. La possibilità per l’uomo di sentirsi di nuovo a casa e di salvare le cose, ormai prive di contesto, veniva guadagnata attraverso una ricostruzione del mondo andato a pezzi a partire dalla coscienza, una “seconda creazione” che comporta però la perdita dei caratteri di realtà e di contingenza del mondo cosicché esso «non apparirebbe più come qualcosa di dato all’uomo, ma come qualcosa creato da lui»55. Nella filosofia husserliana, dunque, l’uomo può riconquistare una familiarità con il mondo soltanto a patto di diventarne il creatore. Il problema dell’esistenza del mondo e del suo essere reale viene liquidato dall’affermazione della sua esistenza come oggetto della coscienza (ciò che conta non è il fatto che esista l’albero vero, ma che esso esista come oggetto della coscienza). In questo consiste, per Arendt, il suo limite56.

La demolizione dell’unità di essere e pensiero e di conseguenza della «coincidenza prestabilita di essenza ed esistenza» viene effettuata da Kant, «padre vero, benché nascosto, della filosofia moderna»57 il quale, tuttavia, non compie fino in fondo la sua opera rivoluzionaria. Egli infatti mantiene il concetto di essere come “dato” generando così la contrapposizione tra libertà umana e mondo della causalità naturale. Kant ha dato inizio alla separazione tra pensiero ed essere, ma ha anche posto le basi della «moderna schiavitù dell’uomo»: egli, «di per sé libero, è consegnato senza speranza al corso della natura che gli è estranea, vale a dire ad un destino che gli è contrario e che distrugge la sua libertà»58.

Come si diceva, la filosofia moderna inizia dal «riconoscimento che il che cosa non è mai in grado di spiegare il che, comincia con il terribile choc di una realtà vuota in sé»59 e dalla necessità di risolvere l’aporia kantiana tra libertà umana e necessità naturale. Essa ha continuato sul percorso tracciato da Kant, ma rinunciando questa volta a un concetto fondamentale per il pensatore di Königsberg: la libertà e la dignità umana. Solo pagando questo prezzo, riprendendo le idee di destino, amor fati etc., i filosofi sono riusciti a render sopportabile la datità dell’essere60.

53 Ivi, p. 49 54 Ibidem. 55 Ivi, p. 50 56 Cfr. ivi, pp. 49-52. 57 Ivi, trad.it. p. 54. 58 Ivi, trad.it. p. 57 59 Ivi, trad.it. p. 53. 60 Cfr. ivi, trad.it. p. 58.

Con l’opera di Kierkegaard, il superamento delle aporie kantiane avviene attraverso il tentativo di ripensare l’essere dell’uomo in termini di concretezza e singolarità. In contrasto con le grandi totalità hegeliane, si afferma con il filosofo danese la concezione del Singolo. Il suo rapporto con l’universale viene pensato come incontro possibile esclusivamente nei paradossi dell’esistenza singolare, attraverso la sua incarnazione esistenziale. Ciò presuppone però che l’uomo faccia esperienza di questa singolarità attraverso quel distacco dal mondo che si compie nell’angoscia di fronte alla morte, unico avvenimento in cui l’uomo è veramente solo.

Nonostante questa deriva solipsistica, il contributo che Kierkegaard fornisce è notevole: le sue intuizioni relative alla morte, al caso e alla colpa costituiscono, infatti, nuovi contenuti per la filosofia successiva61. Essi diventano i punti di partenza da cui prendono le mosse Jaspers e Heidegger. Mentre il primo sviluppa tali intuizioni nella forma delle “situazioni-limite”, Heidegger, con gesto da “falso rivoluzionario” ne tradisce il senso originario tentando di fare ritorno, nonostante Kant, all’ontologia. Non a caso, secondo Arendt, Heidegger fa partire la sua indagine dall’uomo, l’ente in cui esistenza ed essenza coincidono62.

Il suo tentativo di rifondare l’ontologia a partire dai contenuti della “rivolta” contro la filosofia non può che avere, secondo Arendt, esiti fallimentari o perlomeno contraddittori. La rinuncia alla concezione dell’essere come dato a favore di quella dell’essere come temporalità, insieme all’analisi dell’essere dell’uomo, l’esserci, determinato a partire dalla morte, comporta la riduzione dell’essere al nulla63. Tale operazione ha un vantaggio immenso: consente all’uomo di «immaginare che il rapporto con l’essere donatogli sia nient’altro che quello del creatore prima della creazione del mondo – creato, com’è noto, a partire dal nulla»64. L’uomo può così abbandonare l’idea dell’essere come dato e considerare i propri atti come divini. Tuttavia, quella che potrebbe sembrare un’esaltazione dell’umano ormai inteso come “Signore dell’essere” costituisce in realtà la negazione di aspetti quali la libertà e la dignità umana e la riduzione dell’uomo «ad una serie di modalità dell’essere ostensibili fenomenologicamente»65. Libertà e spontaneità vengono ridotte alla «riflessività dell’esserci», posta attraverso la sostituzione dell’uomo col Se-stesso. È per questo che la massima espressione della libertà umana consiste nella filosofia intesa come ricerca volta a comprendere la propria esistenza66.

Questo ripiegamento dell’uomo su se stesso produce però una situazione aporetica in cui l’uomo può essere veramente se stesso se si ritrae «in sé dal proprio essere-nel-mondo», condizione che 61 Cfr. ivi, trad.it. p. 64. 62 Cfr. ivi, trad.it. p. 67. 63 Cfr. ivi, trad.it. p. 66. 64 Ibidem. 65 Ivi, trad.it. p. 68. 66 Cfr. ibidem..

però lo costituisce originariamente. In questo consiste la contraddizione in cui cade la filosofia heideggeriana: l’esistenza autentica presuppone l’abbandono, attraverso il precorrimento della morte, di quella condizione di essere-nel-mondo che costituisce l’uomo67.

La possibilità che l’uomo possa riacquistare un rapporto con il mondo reale senza doverlo ridurre a pensiero o ad una propria creazione viene individuata da Arendt nella filosofia di Jaspers. Questi infatti ha rinunciato a pensare il rapporto con l’essere come possibilità di conoscerlo pienamente e di ingabbiarlo in totalità onnicomprensive. Per questo motivo ripensa lo stesso compito e il senso del far filosofia rigettando ogni pretesa di elaborare sistemi che considera “costruzioni mitologiche”, “edifici”, “gusci” che, nel momento in cui pretendono di spiegare in maniera definitiva la realtà, pongono le basi dell’allontanamento da essa. Essi infatti offrono il rifugio in cui l’uomo può evitare di affrontare le domande poste dall’esistenza. Viceversa la filosofia, per Jaspers, è proprio il tentativo comune, mai definitivo, di giungere ad una «chiarificazione dell’esistenza» che può darsi soltanto nell’esperienza delle «situazioni-limite». È in esse che si compie il naufragio del pensiero, lo scacco derivante dall’impossibilità di cogliere pienamente l’essere e che diventa la condizione per cui l’uomo può essere libero. L’esistenza, in questa ottica, può essere considerata come la forma della libertà umana, in cui l’uomo si rivolta contro il fatto di essere semplicemente un effetto.

La domanda sul senso dell’essere deve esser perciò sospesa. L’unica risposta che l’uomo può darvi è che l’essere è ciò che rende possibile l’esserci, «qualcosa che non riesco a immaginare non esistente»68. Esso è dunque Umgreifendes, «trascendenza inesauribile» e «comprensività totale di tutti gli enti»69.

Il naufragio del pensiero di fronte al che della realtà consente all’uomo di ritornare ad essa senza ridurla al solo pensabile e di cogliere la finitudine della propria esistenza, facendo esperienza del fatto che non può conoscere l’essere, che non può crearlo e «che è solo la sua effettiva libertà a stabilire ciò che egli pensa o meno»70. Lo scarto tra essere e pensiero è condizione di possibilità di rivalutazione della dignità di entrambi. Se l’uomo perde la possibilità di considerarsi “signore dell’essere” o “creatore del mondo” si riappropria, rispetto alla datità del mondo, della sua spontaneità e possibilità di agire e pensare liberamente; dall’altra parte il mondo, non più ingabbiato nelle maglie della razionalità onnicomprensiva, riacquista la sua contingenza e imprevedibilità. La trascendenza che il concetto di Umgreinfendes introduce segna uno scarto che libera l’essere dal “carcere” del puro pensabile, e il pensiero e l’azione dalle maglie della necessità.

67 Cfr. ivi, trad.it. pp. 69-72.

68 Ivi, trad.it. p. 76. Cfr. anche K. Jaspers, La psicologia delle visioni del mondo e Id., Filosofia 69

Cfr. ivi, trad.it. p. 77 (Vedi NdT)

Dunque il merito di Jaspers consiste nel fatto di aver saputo raccogliere le possibilità messe a disposizione dalla fine della tradizione: quelle di ripensare il rapporto tra pensiero ed essere consentendo all’uomo di riacquistare la propria libertà e di “far ritorno” alla realtà sulla base di atti di comprensione o “chiarificazione” che implicano sempre il rapporto con gli altri. La metafisica jaspersiana ludica, giocosa, infatti consiste in un filosofare in comune. L’esistenza stessa secondo Jaspers «si può sviluppare solo nella vita comune degli uomini, nel mondo comune dato»71.

Il percorso appena esaminato e con il quale Arendt attraversa alcuni luoghi della filosofia moderna nel saggio del 1946, e l’esito a cui esso conduce, consentono di individuare l’anticipazione, seppure in nuce, di temi centrali nella successiva opera arendtiana. Partendo dalla critica all’ontologia tradizionale, Arendt infatti conduce la sua battaglia a favore di un recupero del rapporto tra la datità imprescindibile del mondo e un soggetto pensante libero che si fa carico, accoglie la datità del reale e della pluralità, come condizioni della sua stessa libertà. Battaglia che come si è visto, la porta a contrapporsi al pensiero di Husserl e Heidegger, rei di aver vanificato la demolizione kantiana, e ad abbracciare la filosofia di Jaspers in cui la pensatrice trova gli elementi per il superamento dello spaesamento della modernità attraverso il riconoscimento della trascendenza dell’essere come condizione del rispetto del reale e allo stesso tempo della spontaneità umana.

La critica alla coincidenza di essere e pensiero viene ripresa in The Life of the Mind, opera nella quale la rottura definitiva di quell’identità avviene attraverso il riconoscimento della natura fenomenica del mondo. Dopo aver messo in discussione la riduzione del reale al razionale si tratta ora di capire in quali termini si dia o possa essere pensata la realtà a cui il pensiero si relaziona. Infatti, se nel saggio sulla filosofia dell’esistenza l’interrogazione si arresta di fronte al riconoscimento del naufragio del pensiero come condizione di possibilità di rispetto del reale, nell’opera del 1978, opera dedicata proprio alle attività mentali, la riflessione sulla realtà a cui esse si rapportano, mira a gettare le condizioni di possibilità di una realtà che resiste alla loro “presa” assoluta, pur rimanendo non del tutto estranea ad esse. Il primato dell’apparenza del mondo implica infatti il superamento di una distinzione o viceversa di un’identità tra soggetto e oggetto tali da pregiudicare ogni forma di relazione.

Il primo passo compiuto nel senso dell’abbattimento delle condizioni di tale estraneità consiste nell’affermare che «in questo mondo, in cui facciamo ingresso apparendo da nessun luogo e dal quale scompariamo verso nessun luogo, Essere e Apparire coincidono»72. È con questa affermazione, che pone le basi della concezione arendtiana della realtà e che ha importanti implicazioni sul piano gnoseologico, antropologico e politico, che Arendt prende le distanze dalla

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Ivi, trad.it. p. 78.

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dicotomia tradizionale tra “vero essere” e “mera apparenza”. Si tratta di una fallacia metafisica incredibilmente longeva che deve la sua durata alle caratteristiche dell’esperienza di pensiero, nella quale l’uomo deve inevitabilmente abbandonare il mondo delle apparenze per ricercare le realtà invisibili della mente73. Ciononostante, la illusorietà del primato dell’essere sull’apparire si rileva immediatamente se si pensa che l’idea stessa di un fondamento, di un essere vero che rende possibile l’apparenza, deriva dalla contemplazione dell’apparenza stessa. Osservando l’apparenza l’uomo si è posto l’interrogativo sul suo fondamento. L’esperienza primaria dell’uomo non può che essere quella di un mondo che appare. Ciò significa che «il nostro apparato mentale, benché possa ritrarsi dalle apparenze presenti resta regolato sull’Apparenza»74. Tuttavia, per quanto il primato dell’apparenza sia un fatto della vita quotidiana a cui neanche filosofi e scienziati possono mai sottrarsi definitivamente, la nostra tradizione filosofica e scientifica ha fatto sì che la ricerca del vero essere si compisse a spese delle apparenze. L’idea che ciò che appare sia reso possibile da un fondamento che resta nascosto si è tradotta nell’idea della superiorità del fondo, inteso come vera realtà, rispetto alla superficie, intesa come “mera” apparenza75.

La critica arendtiana a questa dicotomia equivale alla critica ad una concezione della realtà che implica il rifiuto, la svalutazione di quello spazio dell’apparire in cui l’identità e la verità si danno all’interno di un contesto relazionale, intersoggettivo e che si apre alla temporalità.

Apparenza, pluralità e intenzionalità sono i termini sui quali Arendt fonda lo spazio in cui «l’orizzonte di ciò che appare è anteriore alla separazione di soggetto e oggetto»76 e il senso di realtà è garantito dall’intersoggettività e dalla pluralità che lo caratterizza. La sua certezza si deve infatti alla natura plurale e relazionale che un mondo in cui tutte le cose sono destinate ad apparire implicano. Se l’intenzionalità fa sì che l’oggettività sia incorporata nella soggettività della coscienza, «la nostra certezza che ciò che si percepisce possiede un’esistenza indipendente dall’atto di percepire, dipende dal fatto che l’oggetto appaia come tale anche agli altri e sia dagli altri ammesso e riconosciuto»77. Ciò che impedisce la deriva delle teorie fenomenologiche nel solipsismo o nell’interiorizzazione di un mondo che la coscienza ha “costruito” è il legame che Arendt istituisce tra intenzionalità, apparenza e pubblicità: «per il fatto di apparire, tutti gli oggetti indicano un soggetto e, allo stesso modo in cui ogni atto soggettivo ha il proprio oggetto

73 Cfr. ivi, p. 103 e M. C

ANGIOTTI, Il pensiero come comprensione. La teoria “ermeneutica” di Hannah Arendt, «Per la filosofia», vol. VIII, n. 22, 1991, pp. 54-55.

74 Ivi, pp. 103-104.

75 Cfr. ivi, pp. 105, 140-141. 76 L.B

OELLA, Hannah Arendt “fenomenologa”. Smantellamento della metafisica e critica dell’ontologia, in “Aut-Aut”, nn. 239-240, 1990, p. 100.

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intenzionale, così ogni oggetto che appare ha il proprio soggetto intenzionale»78. Ed è proprio questa la condizione originaria in cui soggetto e oggetto si incontrano: quelle di una realtà fenomenica in cui tutte le cose hanno «in comune il fatto di apparire e sono destinate quindi a essere viste, udite, toccate, gustate o odorate, ad essere percepite da creature senzienti munite dagli appropriati organi di senso»79. Il fatto che il loro essere coincida con il loro apparire fa sì che tale essere presupponga un ambito di pubblicità in cui altri spettatori, possano percepirlo. Pertanto, aggiunge Arendt, «nulla di ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare: tutto ciò che è è fatto per essere percepito da qualcuno»80 e il presupposto su cui si basa tale affermazione consiste nel fatto che «non l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra»81. La coincidenza di essere e apparire dunque rappresenta il presupposto e al contempo presuppone uno spazio pubblico, plurale, in quanto ogni essere è allo steso tempo soggetto senziente e oggetto percepito. In quanto tale esso presuppone uno spettatore a cui apparire e un oggetto da percepire. Dunque «non esiste soggetto che non sia insieme oggetto e appaia come tale a qualcun altro, che è garante della sua realtà “oggettiva”»82. A ciò si aggiunge che «l’apparenza reca con sé l’indicazione primaria dell’essere reale» proprio in quanto presuppone una dimensione plurale consistente: nel contesto mondano di cui fanno parte altri uomini che percepiscono come me quella realtà; nel sensus communis, una sorta di senso che tiene uniti gli altri cinque garantendo che ciò che percepisco con ciascuno di essi costituisce il medesimo oggetto; nel fatto che esseri di specie diverse avvertono e concordano su quella identità83. Sebbene la dimensione fenomenica implichi quella della soggettività del mi-pare, del percepire a partire da prospettive diverse, quella triplice comunanza garantisce la sensazione di realtà84.

Se così stanno le cose la relazione conoscitiva che si stabilisce tra soggetto percipiente e oggetto percepito non è così immediata. La realtà si mostra e soltanto in tale dimensione può esistere ed essere conosciuta, tuttavia essa “sfugge” “resiste” e solo così può sottrarsi alla “presa” del soggetto e mantenere la propria irriducibilità. Ciò significa che la percezione «mette piuttosto il soggetto di fronte a un mondo costituito non solo da cose che si ergono come muri a fermare lo sguardo, ma da lacune, vuoti, scacchi, fantasmi»85. Le apparenze infatti non si limitano ad esporre, rivelare, ma

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RENDT, The Life of the Mind, op. cit., p. 128 – la sottolineatura arendtiana delle conseguenze del concetto di intenzionalità non mira, evidentemente, al ritrovamento delle condizioni di certezza della realtà nella sfera della coscienza, bensì a rintracciare nel fatto intenzionale un rapporto primario tra soggetto e oggetto e il segno della condizione plurale in cui esseri senzienti e “apparenti” si trovano. La condizione originaria dell’apparire che segna l’entrata degli esseri viventi nel teatro del mondo, implica inevitabilmente la biunivocità del rapporto.

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RENDT, The Life of the Mind, op. cit., p. 99

80 Ibidem. 81 Ibidem . 82 Ivi, pp. 99-100 83 Cfr. ivi, p. 133. 84 Cfr. ivi, pp. 133-134. 85 L.B

occultano, proteggono, custodiscono. «Esse espongono ma proteggono insieme dall’esposizione»86. Rivelano qualcosa nascondendo allo stesso tempo qualcos’altro. Celano un fondamento che in quanto tale non è visibile.

Il primato dell’apparenza, del dato che appare, lascia spazio ad una dimensione della “trascendenza” consistente nello scarto insopprimibile tra il visibile e l’invisibile, l’oscuro e la luce, ciò che si mostra e ciò che rimane celato87. Visibile e invisibile rimandano inevitabilmente l’uno all’altro. Essi non appartengono a due piani ontologici diversi ma segnano comunque uno scarto per cui se l’apparenza non può essere ridotta o subordinata a ciò che la rende possibile, il fondamento, in quanto invisibile e dunque non-apparente, si sottrae alla sfera dell’esperienza88. Per quanto gli uomini si sforzino di svelare, smascherare parvenze ingannevoli, essi non possono mai sottrarsi ad esse a causa della condizione cui appartengono: quella di esseri la cui esistenza è determinata dall’apparire89. E pur riuscendo a smascherare una parvenza illusoria essi non troveranno, sotto una superficie ingannevole, una «apparenza autentica, immutabile e sicura nel suo esserci. Lo smascheramento distrugge un inganno: non scopre nulla di autenticamente apparente»90. Ciò che rende possibile apparenze più o meno autentiche sfugge alla sfera della visibilità. L’oggetto che