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Il ruolo delle narrazioni

I. NARRAZIONE E STORIOGRAFIA NEL PANORAMA FILOSOFICO CONTEMPORANEO

I.3 I L NARRATIVISMO

I.3.1 La frase narrativa nella riflessione di Arthur C Danto

I.3.1.4 Il ruolo delle narrazioni

Stabiliti i caratteri essenziali di una narrazione, nel capitolo undicesimo del suo libro Danto tenta di stabilire il ruolo o la funzione svolti dalla narrazione storica. Tema del capitolo è «la narrazione è una forma di spiegazione»268. Del resto che il racconto di una storia vera sia ciò che ci si aspetta di sentire quando si chiede una spiegazione, è un dato di fatto. E lo è anche il fatto che coloro ai quali si chiede una spiegazione istintivamente raccontano una storia269.

È una tesi già vista in precedenza, ma ora si tratta di definire meglio i motivi per i quali la narrazione risulta essere la forma di spiegazione adeguata agli eventi storici.

Innanzi tutto, ciò che bisogna valutare quando si considera il problema della spiegazione storica è il fatto che «l’explanandum non descrive semplicemente un evento – qualcosa che accade – ma un cambiamento»270. In effetti quando descriviamo un evento facciamo riferimento implicitamente ad uno stato passato in cui si trovava il soggetto. Quando noi chiediamo la spiegazione di un evento

266 Cfr. ivi, p. 190 267

L’inevitabile elemento di arbitrarietà cui si fa riferimento ha a che fare, come si è detto, con esigenze di organizzazione e selezione dei dati, dunque con aspetti del tutto pertinenti, interni all’attività di ricerca storica. Esso dunque non ha nulla a che fare con la personalità dello storico di cui parlavano i teorici del Verstehen. Infatti quest’ulitma costituisce un aspetto che non rientra affatto nell’ordine degli interessi della filosofia analitica, più interessata a definire le condizioni minimali del sapere storico, la logica del discorso storico. Tutto ciò che, dal punto di vista logico, non rientra in tali condizioni non è da prendersi in considerazione (cfr. R. Aron, Leçons sur l’histoire, op.

cit., pp. 147-148).

268 A. C. Danto, Analytical Philosophy of History, op. cit., p. 322. La critica mossa alla distinzione tra narrazione

semplice e significativa costituisce in fondo l’affermazione che la narrazione in quanto tale è una forma di spiegazione. Si tratta di un’affermazione molto diffusa tra i filosofi narrativisti, i cui modelli si contrappongono a quello hempeliano non semplicemente rifiutando il metodo della spiegazione ma rintracciandolo nella narrazione. Secondo Dray, il fallimento di Danto nel criticare la suddetta distinzione sta nel fatto di non aver affatto dimostrato che la narrazione è necessariamente esplicativa. La stessa teoria delle frasi narrative non ha favorito il raggiungimento di quell’obiettivo. Innanzi tutto perché non è detto che le frasi narrative debbano far parte di una narrazione; inoltre il tipo di connessioni cui si riferiscono non sono necessariamente di tipo esplicativo. Infatti una frase narrativa può far riferimento a due eventi di cui il secondo è rilevante e connesso al primo nel senso che ne dimostra il significato (W. H. Dray, On the

Nature and Role of Narrative in History, op. cit., p. 118).

269 Cfr. A. C. Danto, Analytical Philosophy of History, op. cit, p. 317.

270 Ivi, p. 317. Questa affermazione è stata criticata da M. Scriven il quale ha notato che è vero che generalmente gli

storici si interessano ai cambiamenti storici, ma è altrettanto vero che qualche volta essi si chiedono il perché del fatto che alcune cose rimangono le stesse (cfr. M. Scriven, Review of Analytical Philosophy of History, in “The Journal of Philosophy”, 63, 1966, p. 504).

chiediamo una spiegazione del cambiamento e quindi il racconto della storia che lo descrive271. E poiché «occorre che le storie abbiano un inizio, una parte centrale e una fine»,una spiegazione consiste «nell’introdurre una parte intermedia tra i due limiti temporali di un cambiamento»272.

A questo punto bisogna fare un ulteriore passo nella definizione degli elementi che caratterizzano una storia. Nel capitolo VII l’asserzione S è stata considerata come qualcosa di diverso da una storia. La difficoltà nel considerarla tale consisteva nel fatto che gli eventi in essa menzionati secondo un ordine temporale sembravano privi di ogni connessione: nessuno degli eventi posteriori citati appariva riferito a un evento precedente; quindi nessun evento, che fosse menzionato nella parte centrale di S, si presentava come intermedio agli eventi che ne costituivano gli estremi temporali. «S allora consiste in una serie di principi e di fini, ma non di principi e di fini della stessa storia»273. In questa nuova definizione troviamo, oltre all’elemento della connessione che già era stato introdotto in precedenza, anche quello dell’estensione temporale di un cambiamento che la narrazione può accogliere. La narrazione segna l’inizio, la parte intermedia e la fine di un cambiamento che intende spiegare. La sua peculiarità allora è proprio quella di farsi carico della dimensione temporale in cui si struttura l’explanandum. «Una storia è il resoconto – dirò la spiegazione – di come si è verificato un cambiamento dall’inizio alla fine e tanto l’inizio quanto la fine fanno parte dell’explanandum»274. Lo stesso lessico temporale degli explananda permette di cogliere il fatto che è intervenuto un cambiamento e che ciò che descrive l’explanandum (ad esempio l’impopolarità di Luigi XIV) non c’era ancora in una fase precedente.

Altro elemento di cui bisogna tenere conto è il fatto che ciò che noi spieghiamo non è né il primo né il secondo evento cui si riferisce una descrizione narrativa ma la loro connessione. «Questa connessione non è causale: gli eventi sono invece connessi come gli estremi di un cambiamento esteso nel tempo – come l’inizio e la fine di una totalità temporale – e ciò di cui si ricerca la causa è il cambiamento che essi indicano»275. È relativamente a questo aspetto che Danto prende le distanze da Hempel e dai suoi seguaci. Questi infatti non si rendono conto del fatto che l’explanandum di una spiegazione storica è la descrizione di un cambiamento. Di conseguenza è come se gli hempeliani, non tenendo conto di questi aspetti, e mirando viceversa alla scoperta delle cause, non lasciassero spazio ad una parte dell’informazione, quella parte di racconto che coincide con l’inizio del cambiamento stesso. Gli hempeliani non si rendono conto che l’explanandum è già parte di un

271 Cfr. A. C. Danto, Analytical Philosophy of History, op. cit, pp. 317-318 272 Ivi, p. 318

273 Ibidem. 274

Ibidem.

racconto, in quanto cambiamento, la cui struttura temporale, come si è visto, coincide con quella di una narrazione276.

Le considerazioni che dovrebbero condurre al riconoscimento della struttura narrativa di ogni spiegazione hanno anche carattere metodologico e sono fondate sulla constatazione del fatto che, se è vero che l’unicità dell’evento o la singolarità del caso analizzato non impedisca affatto di parlare di leggi causali277, è anche vero che soltanto all’interno di una cornice di tipo narrativo è possibile

276

La narrazione, dunque, pur avendo funzione esplicativa, non costituisce semplicemente una struttura di connessione causale tra eventi. Essa si estende oltre tale tipo di connessione, al punto che ogni racconto può contenere in sé diverse connessioni di tipo causale che si riferiscono ai vari elementi del racconto. In questo senso si può parlare dei nessi di causalità presenti in una narrazione come di input causali (causal input). Ciò significa che quando Danto parla di narrazione come forma di spiegazione intende qualcosa diverso dalla catena causale (causal chain) di cui parla M. White, secondo il quale la connessione interna che distingue una storia da una semplice cronaca è appunto di tipo causale. (Cfr. W. H. Dray, On the Nature and Role of Narrative in History, op. cit., pp. 121-124; M. White,

Foundations of Historical Knowledge, op. cit., pp. 219-239).

277

Secondo Danto è fuori discussione il fatto che la parte centrale di una narrazione, quella contenente l’enunciazione dell’evento causale, dunque la spiegazione, debba essere scelta alla luce di un qualche concetto generale, di una legge (cfr. A. C. Danto, Analytical Philosophy of History, op. cit p. 323). Questa considerazione evoca ovviamente il problema più volte affrontato della tipicità vs. unicità dell’evento. Secondo Danto non solo l’unicità o singolarità del caso preso in considerazione non impedisce il ricorso a leggi generali, ma una certa tipicità dell’evento è l’unica cosa che ci permette di giungere perlomeno ad un abbozzo di spiegazione. Per quanto riguarda il primo aspetto Danto distingue la questione dell’esistenza di una legge generale che spieghi un episodio dalla nostra conoscenza di essa. In un saggio del 1988 infatti afferma: «l’esistenza di una legge, la quale può essere concettualmente implicata dalla stessa causazione, dev’essere distinta dalla nostra conoscenza di quale sia la legge» (“Spiegazione storica, comprensione storica e scienze umane”, op. cit., p. 14) e a favore dell’aspetto di unicità sostiene che, a meno che non si abbracci il più radicale verificazionismo, si deve poter dire che esistono episodi causali unici coperti da leggi. Non riconoscere questo significherebbe rifiutare qualsiasi idea di causalità storica e affermare che tutto ciò che accade accade per caso. Se così fosse, dice Danto, bisognerebbe sostenere che «non possono esserci narrazioni storiche, ma soltanto cronache storiche. L’impegno verso la razionalità governa la forma stessa in cui presentiamo i fatti della storia nella misura in cui li presentiamo narrativamente» (ivi, p. 16). Al di là di ogni discussione sulla razionalità della storia, sembra emergere qui la rivendicazione di un imprescindibile modo del soggetto di ricostruire il passato: è nella forma della razionalità che costruiamo narrazioni. Posta la destituzione della distinzione tra cronaca e storia, Danto riconosce in tal modo che una ricostruzione del passato non può che avvenire mediante l’uso di griglie, di prove concettuali e di leggi fornite dalla razionalità e dall’esperienza. È a questo livello che riemerge l’aspetto imprescindibile della tipizzazione degli eventi. Senza di essa non saremmo in grado di procedere alla spiegazione: infatti «se accadesse una cosa che non avesse assolutamente precedenti, totalmente diversa da ogni altro cambiamento che, per quanto ne sappiamo, abbia mai avuto luogo, io sarei – faccio notare – del tutto incapace, anche nel caso del comportamento umano, di procurare una spiegazione, di “vedere” quali siano le cause di questo cambiamento, sin che non si riesca a sussumere l’evento sotto una descrizione generale e a congiungerlo con esempi simili» (A. C. Danto, Analytical Philosophy of History, op. cit., p. 329). Senza togliere con ciò che nel momento in cui si procede alla descrizione storica di un evento esso viene considerato come unico, diverso da quelli ad esso simili.

Si può dire che l’aspetto della generalità e della tipicità da una parte e quello della singolarità o unicità dall’altra, trovino il luogo di una loro conciliazione nella narrazione, la quale, in quanto forma della razionalità e di spiegazione ricorre a principi e leggi generali che ci consentono di comprendere il comportamento umano e che d’altra parte consente un’integrazione della descrizione generale con quello della descrizione del caso particolare risultato di una ricerca storica che fa riscorso alle prove documentarie. Come sostiene lo stesso Danto «nel caso in cui siamo certi della legge, ma incerti riguardo a ciò che è precisamente accaduto, la narrazione consiste in un resoconto nel quale la conoscenza generale del tipo di evento che deve essere accaduto viene sostituito dalla conoscenza specifica dell’evento particolare, del tipo appropriato, che si è effettivamente verificato» (ivi, p. 323). Ci troviamo di fronte al compimento di un passo in avanti verso l’operazione ricoeuriana di rintracciare nell’intrigo il luogo in cui singolarità delle circostanze, dei mutamenti, dei personaggi etc. si inseriscono in una connessione che ha già un certo grado di tipicità.

È evidente la distanza che intercorre tra la teoria di Danto e quella di Dray il quale ha rifiutato fortemente l’idea che una connessione causale necessitasse del ricorso a leggi generali. Proprio in relazione a questo aspetto Dray criticherà Danto per il suo tentativo di conciliare il “suo hempelismo di base” con le concessioni fatte ai teorici del Verstehen attraverso l’argomentazione in favore dell’utilizzo di generalizzazioni psicologiche che, come si è appena visto, consentono di comprendere eventi che non possono essere considerati, in questo senso, unici (cfr. W. H. Dray, “Alcune riflessioni sul narrativismo e sui suoi problemi”, in La teoria della storiografia oggi, op. cit., pp. 188-189). Totalmente diverso è

rendere conto, sia pure attraverso il ricorso a leggi o principi generali, delle differenze che determinano l’«innumerevole varietà di azioni e di passioni qualitativamente diverse» che fanno parte del fascino che caratterizza lo spettacolo della storia278. E che pur costituendo esempi che rientrano nella stessa descrizione generale «sono spesso immensamente differenti: quando pensiamo alla rivoluzione francese non pensiamo automaticamente a una rivoluzione qualsiasi»279. Quando tentiamo di fornire la spiegazione del cambiamento in cui essa consiste, una volta scoperto cosa lo ha prodotto, possiamo certamente ricondurlo ad un principio generale. Tuttavia questo stesso principio ricopre una serie di innumerevoli e differenti casi.

Allora, perché si possa giungere alla spiegazione di un evento attraverso il ricorso ad una descrizione e ad un principio generale è necessario che tale descrizione sia inserita in una narrazione, la quale indica l’intero svolgimento del cambiamento.

Il ricorso al principio generale, riconosce Danto, è necessario; d’altra parte va stabilito un criterio che ci consenta di stabilire che la descrizione che inseriamo nella parte centrale del racconto per fornire la spiegazione, sia quella esatta. Tale criterio non può che venire dalla ricerca storica e dalle prove documentarie. È attraverso l’integrazione di prove documentarie e concettuali che è possibile stabilire se una narrazione sia esatta. Infatti «non vi è modo, se non mediante una simile ricerca, di determinare il caso specifico compreso sotto la legge generale e la descrizione generale, che sono a nostra conoscenza»280.

Allora, se è vero che una narrazione deve essere integrata da leggi generali, è altrettanto vero che queste leggi devono essere integrate da regole che permettano di stabilire quali accadimenti debbano essere considerati come esempi di quelle descrizioni generali che le leggi consentono di ottenere. A tale scopo è necessario, mediante la ricerca storica, trovare prove documentarie.

Le varie considerazioni fatte sulla necessità del ricorso a principi generali che però non garantiscono l’esattezza della spiegazione a causa della varietà dei casi che essi ricoprono, portano Danto, attraverso la trattazione di vari esempi a riconoscere quell’aspetto che riconosceva come mancante nel modello hempeliano: il riferimento all’inizio del cambiamento ritenuto come discriminante per stabilire se una data spiegazione sia esatta. Tale inizio «è rappresentato dalla pratica condotta prima che si verificasse l’evento causale col quale si intende fornirne una spiegazione»281. Il riferimento a quell’inizio infatti consente di stabilire se quello che è ritenuto l’evento causale abbia effettivamente prodotto un cambiamento. Soltanto se possiamo affermare che

quindi il modo di risolvere il problema della tipicità e dell’unicità degli eventi poiché in Danto esso si fonda sul riconoscimento della necessità di generalizzazioni che sono intese, in linea con l’hempelismo, come leggi generali, e in linea con la teoria del Verstehen, come generalizzazioni psicologiche.

278 Cfr. A. C. Danto, Analytical Philosophy of History, op. cit, p. 330. 279 Ivi, p. 332

280

Ivi, pp. 324-325.

l’evento che vogliamo spiegare non si era ancora verificato in un tempo precedente all’evento causale possiamo ritenere quest’ultimo come causa effettiva del cambiamento. In questo senso possiamo dire che inizio della narrazione sarà quella parte in cui il cambiamento non ha ancora avuto luogo, mentre la fase centrale è quella in cui si inserisce l’asserzione che enuncia il verificarsi dell’evento causale.

Compito fondamentale della narrazione è quindi «quello di disporre la scena per l’azione, che conduce alla fine, e la cui descrizione costituisce la spiegazione del cambiamento di cui l’inizio e la fine sono gli estremi»282.

Infine ultimo elemento che non era possibile rintracciare nell’asserzione S ha a che fare con ciò che fornisce «un certo grado di unità alla narrazione storica»283: infatti per quanto essa fornisca il resoconto di un cambiamento essa deve presupporre un soggetto che lo subisce e che allo stesso tempo permane. Questo è un ulteriore elemento che ci consente di dire che S non è una narrazione: infatti essa è un insieme di asserzioni che non riguardano la stessa cosa. Non c’è nessun soggetto e di conseguenza nessun cambiamento284.

In che senso una spiegazione storica assume la forma di una narrazione? Nel senso che l’insieme delle descrizioni che la costituiscono ha già la struttura di una storia che ha un inizio, una parte centrale e una fine285.

Con la trattazione delle frasi narrative intese come le proposizioni che più ricorrono nei resoconti degli storici, sebbene non siano le uniche, ci avviciniamo alla caratterizzazione della storia come costruzione di un intrigo. Tale caratterizzazione sembra infatti emergere dall’idea che la spiegazione di un evento storico non possa che avvenire all’interno di una frase la cui caratteristica è quella di mettere in relazione eventi separati temporalmente dei quali il secondo viene enunciato in funzione del primo. Questo tipo di descrizione potrebbe infatti essere considerata come una sorta di «intrigo in miniatura»286. Tale idea sembra essere supportata dal fatto che gli eventi che entrano a far parte di una narrazione vengono selezionati sulla base di un criterio di pertinenza, rilevanza. Tuttavia ciò non risulta ancora sufficiente al passaggio dalla frase narrativa all’intrigo e probabilmente, come ha ipotizzato Ricoeur, a causa del fatto che troppo forte è la resistenza di Danto nei confronti della possibilità di fornire resoconti storici esaustivi, completi.

282 Ivi, p. 336. 283 Ivi, p. 320. 284

Cfr. ivi, p. 320. Il carattere unitario o della connessione interna garantita dalla presenza di un soggetto centrale, non costituisce secondo Dray una caratteristica precipua della narrazione: vi possono essere infatti, secondo l’autore, che però non offre alcun esempio in proposito, diversi tipi di connessione interna che non necessitano affatto della presenza di un soggetto centrale (cfr. W. H. Dray, On the Nature and Role of Narrative in History, op. cit., p. 116).

285

A. C. Danto, Analytical Philosophy of History, op. cit., p. 321.