Per comprendere in quale relazione stia il Dio di Spinoza con la morte di Dio è necessario rievocare una storia antica e gettare uno sguardo sul passato in cui gli dèi hanno cominciato a vacillare. Socrate uccide il mito: così giudica Nietzsche già nella Nascita della tragedia1. Analizzando gli scritti coevi ci si rende conto però che, paradossalmente, per Nietzsche il “socratismo” è più antico di Socrate ed Euripide2. Socrate non è tanto l’origine cronologica, quanto la manifestazione di una storia che la cronologia non sembra in grado di esaurire appieno: quando si cerca di indicarne l’origine, ci si accorge in realtà che essa è già là, già divenuta e direzionata. Cerchiamo dunque di visitare una “scena primaria” della filosofia, non per porre un’origine storiograficamente oggettiva, bensì per orientarci nella nostra provenienza.
I N F I L A D A L L’A R CO N T E
«Dimmi allora: che cosa sono, secondo te, il santo e l’empio?»3: la terribile domanda risuona
nel portico dell’arconte basileus. Socrate la rivolge al “profeta” esperto in cose divine che ha avuto la sfortuna d’incontrarlo mentre svolgeva le proprie faccende giudiziarie. Il dialogo in questione è l’Eutifrone, “ovvero della pietà”: così lo presenta “Dardi Bembo gentiluomo veneziano” nella prima versione “in lingua volgare” delle opere di Platone del 1601, seguendo la linea che associa il binomio
hosion/eusebia (in Platone sostanzialmente sinonimi) al latino pietas4 – inteso come l’ambito della religione, del divino, del santo e del sacro5.
La drammaticità della domanda rischia quasi di sfuggire, sapientemente dissimulata dalla scrittura platonica. Il tono del dialogo è infatti sorprendentemente leggero: Socrate fa un uso generoso dell’ironia e puntualmente Eutifrone mostra di non cogliere le sue sottigliezze, apparendo più un personaggio da commedia che non da dialogo filosofico. La “tragicità” sembra emergere solo ai margini del dialogo, nell’occasione che lo stimola: Socrate sta andando a ricevere l’atto d’accusa che lo porterà alla condanna a morte. Tale collocazione introduce però un elemento tragico nella domanda stessa: essa non è una semplice applicazione di quel metodo socratico di ricerca
1 Cfr. F.NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., §12.
2 Si vedano in proposito le osservazioni di Giorgio Colli sulla conferenza Socrate e la tragedia (cfr. G.COLLI, Scritti su
Nietzsche, cit., p. 40).
3 PLAT. Euthyphr., 5d.
4 Cfr. ad esempio Tommaso: «Unde eusebia est idem quod pietas» (TOMMASO D’AQUINO,Commento al “Corpus Paulinum”
V, a cura di B. Mondin, ESD, Bologna 2008, p. 316).
5 Ancora Tommaso: «Eusebia vero dicitur quasi bonus cultus. Unde est idem quod religio» (TOMMASO D’AQUINO,La somma
teologica XVIII, a cura di T.S. Centi, ESD, Bologna 1984, p. 33). Sulla complessità dell’orizzonte concettuale che ruota
attorno a questi termini (con particolare riferimento all’Eutifrone), cfr. H.-G. GADAMER, Sokrates’ Frömmigkeit des
dell’universale descritto da Aristotele6. In gioco è “la” domanda, la domanda per cui Socrate per l’appunto deve morire, morire per empietà (asebia): essa chiede del divino.
Nell’Eutifrone Platone rimette infatti in scena l’accusa a Socrate e per certi aspetti in questo modo la riscrive. Il suo intento non è infatti cronachistico: l’accusa di essere un poietes di nuove divinità effettivamente mossa da Meleto a Socrate è appena richiamata e invece di impegnarsi nella sua confutazione (ossia mostrare che Socrate è un uomo pio), il dialogo devia verso la domanda su cosa sia l’hosion. Ciò perché l’accusa di Meleto è per certi aspetti accidentale, l’occasione per concretizzare la condanna, ma Platone cerca di indagare la motivazione essenziale della colpa socratica: la sua è una questione filosofica, che ha a che fare con la necessità di ciò che accade. Il suo tentativo di comprensione si sviluppa dunque mostrando l’empio Socrate mentre solleva una domanda sulla pietas. In altri termini: Socrate è empio perché solleva la domanda sulla pietas. La morte di Socrate diventa il simbolo della filosofia stessa: il filosofo deve essere messo a morte, perché viola la pietà della polis, chiedendone il senso.
P I E T À E V E R I T À
Come detto, evochiamo l’Eutifrone come “scena primaria” della filosofia al fine di orientarci nella sua storia. Ciò significa che non si tratta in questo caso di indagare se questo o quel filosofo abbia letto questo particolare dialogo di Platone, bensì di considerarlo come apertura storica fondamentale. Essa si declina nella questione, in ogni senso epocale, della tormentata relazione tra filosofia e teologia, variamente elaborata nel pensiero medievale (cristiano e non): una relazione quanto mai complessa perché deve scontare la sua originaria colpa socratica che rende di principio i due “saperi” inconciliabili.
Tale parabola raggiunge uno dei punti di massima criticità con Spinoza, in particolare nel XV capitolo del Trattato teologico-politico. A prima vista la soluzione spinoziana appare piuttosto conciliante e diplomatica: «Stabiliamo come punto fermo che né la teologia è tenuta a fare da ancella alla ragione, né la ragione da ancella alla teologia, ma ciascuna possiede il suo regno, ossia, come si è detto, la ragione il regno della verità e della sapienza; la teologia quello della pietà e dell’obbedienza»7. Poco oltre però Spinoza aggiunge una postilla che sconvolge completamente il senso di quest’affermazione: «E qui per teologia intendo appunto la rivelazione, in quanto indica il fine che, come vedemmo, è proprio della Scrittura (cioè il criterio e il modo dell’obbedienza, ossia i dogmi della vera pietà e della vera fede). In altri termini, la teologia coincide con ciò che si dice, in senso proprio, parola di Dio, la quale non consiste in un certo numero di libri (vedi il capitolo XII)»8. Spinoza rimanda alle analisi condotte in precedenza, nelle quali si mostra, in sintesi, come per
6 Cfr. ARIST. Metaph. I 6, 987b.
7 B.SPINOZA, Opere, cit., p. 654 (Trattato teologico-politico, 15). 8 Ivi, pp. 654-655.
“rivelazione” e “parola di Dio” non si debba intendere la Scrittura nella sua materialità e significato letterale, bensì nel suo “fine”, vale a dire nel suo “senso”, che è quello di insegnare i dogmi fondamentali della giustizia e della carità.
La teologia non è dunque la teologia della tradizione, superstiziosamente ancorata all’“idolo” della parola divina – «morte lettere, che l’umana malizia poté corrompere»9 – ma la teologia
“ricostruita” dal lavoro interpretativo filologico e filosofico10. La “vera pietà” (o “vera religione”, come anche Spinoza la chiama) smentisce dunque quella separazione di teologia e ragione – ossia di pietà e verità – apparentemente sancita in modo “inconcusso” poche righe prima11. Spinoza pone dunque l’esser vera come condizione della pietas e in ciò ripete, a suo modo, il gesto di Socrate, la domanda del quale sembra risuonare nel titolo del capitolo XIV, dedicato a “che cosa sia fede” (quid sit
fides)12.
In modo meno diretto ma analogo procede l’Etica. La costruzione compiuta del concetto filosofico di Dio corrisponde alla distruzione del concetto teologico. A suo modo anche Spinoza scrive una teologia, una teologia perfettamente coerente che si conclude nel paradossale risultato di negare sé stessa. Le categorie della tradizione implodono dall’interno e il De Deo mostra in modo inequivocabile che non esiste una metaphysica specialis: se pensiamo Dio in modo rigoroso non possiamo che dire che esso coincide con la natura13. La violazione filosofica della pietas, attraverso la partecipazione alla nuova impresa delle scienze moderne (ivi compresa la filologia)14, raggiunge per
certi aspetti la perfezione e del “Dio dei devoti”, come realizza con timore Leibniz, non è più nulla15. Uno scolio, in particolare, sintetizza la torsione semantica già presente nel Trattato teologico-politico:
9 Ivi, p. 651.
10 Étienne Balibar descrive così il “paradosso” del Trattato teologico-politico: «Spinto all’estremo, il percorso del razionalismo
filosofico produce un risultato che sembra contraddire la sua formulazione iniziale: il suo obiettivo diviene quello di dissolvere la confusione che il termine “teologia” cela, e di liberare la fede stessa dalla teologia, denunciata come una “speculazione” filosofica estranea alla “vera Religione”» (É.BALIBAR, Spinoza et la politique, PUF, Paris 1985 [trad. it di A. Catone, Spinoza e la politica, Manifestolibri, Roma 1996, p. 18]). Sulle ricadute politiche di quest’operazione cfr. anche R. CAPORALI, La fabbrica dell’imperium: saggio su Spinoza, Liguori, Napoli 2000, pp. 95-138 (“Democrazia e militanza: il Trattato
teologico-politico”).
11 «C’est précisément parce qu’a été préalablement “deconstruit” le nexus théologico-politique traditionnel […] que
Spinoza peut redonner au religieux […] sa fonction de “principe générateur”» (M.REVAULT D’ALLONNES, L’imagination
du politique, in M.REVAULT D’ALLONNES, H.RIZK (a cura di), Spinoza: puissance et ontologie, cit., pp. 115-116).
12 B.SPINOZA, Opere, cit., p. 640 (Trattato teologico-politico, 14).
13 «Man darf daher Spinozas Thesen über Gott oder die göttliche Substanz nicht als theologische, sondern muß sie als
ontologische Aussagen lesen» (U.RENZ,Die Definition des menschlichen Geistes und die numerische Differenz von Subjekten (2p11- 2p13s), in M.HAMPE e R.SCHNEPF (a cura di), Baruch de Spinoza: Ethik, cit., p. 107.
14 «Die Entstehung neuzeitlicher Wissenschaft fördert zudem ein Vertrauen in ein systematisch-methodisches Vorgehen
bei der Erklärung empirischer Phänomene, aber auch bei der Interpretation von Schriften. Für Spinoza ist demnach die (neuzeitlich wissenschaftliche) Methode der Naturerklärung zugleich Vorbild der Methode der Schrifterklärung» (A. SPAHN, Wie viel „Wahrheit“ braucht die Hermeneutik? Zur historischen und systematischen Mittelstellung der rationalistischen
Hermeneutiken des 17. und 18. Jahrhunderts, in G.FRANK, S.MEIER-OESER (a cura di), Hermeneutik, Methodenlehre, Exegese, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2011, p. 431).
15 Cfr. G.W.LEIBNIZ, Philosophische Schriften III, Akademie, Berlin 2006, p. 582. Su questo passaggio è interessante
considerare le osservazioni di Matthew Stewart: «Nel suo sistema filosofico, [Spinoza] propone una concezione di Dio che si addice all’universo rivelato dalla scienza moderna – un universo regolato solo dal nesso causa/effetto delle leggi naturali, senza finalità né progetto» (M.STEWART, Il cortigiano e l’eretico, cit., p. 13). Leibniz avrebbe però scorto l’altro volto di tale “rivoluzione”: «Spinoza ha mostrato a Leibniz cosa significa essere un filosofo moderno. Ma Leibniz non vide quella realtà allo stesso modo in cui la vedeva Spinoza. […] Vide, invece, la morte di Dio» (Ivi, p. 269).
«Riferisco poi alla religione tutti i desideri e le azioni di cui siamo causa in quanto abbiamo l’idea di Dio, ossia in quanto conosciamo Dio. Chiamo, invece, pietà la cupidità di agire rettamente che nasce dal vivere sotto la guida della ragione»16. Conoscenza e ragione definiscono dunque l’attitudine devozionale.
V A N VE L T HU Y S E N E L’A T E I S M O D I SP I N O Z A
Non stiamo però facendo di Spinoza, in tal modo, un ateo suo malgrado? Egli ha infatti sempre respinto tale designazione – seppur con scarso successo, tanto da diventare, per i secoli a venire, “ateo di sistema”17. A questo proposito è interessante confrontarsi con il breve carteggio tra Spinoza e Lambert van Velthuysen18. Quest’ultimo s’impegna a dare un “giudizio motivato” sul
Trattato teologico-politico, dietro sollecitazione di Jacob Ostens (che inoltra poi la “recensione” a
Spinoza). Due aspetti dello scambio epistolare colpiscono l’attenzione in modo particolare: l’attitudine tutto sommato pacata del recensore e la reazione insolitamente irritata di Spinoza.
Van Velthuysen appare in effetti mosso da un’onesta volontà di comprendere le tesi del testo e di restituirle in maniera piuttosto fedele, pur non condividendole19. Il passaggio più irriverente è quello in cui il modo di argomentare di Spinoza è descritto come «malizioso, astuto e scaltro»20, ma tale critica appare piuttosto contenuta se confrontata con le innumerevoli condanne e confutazioni riservate al testo21. Per il resto, la lettera ripercorre i temi fondamentali dell’opera per poi arrivare alla
seguente conclusione:
16 B.SPINOZA, Opere, cit., p. 1005 (De servitute, prop. 37, schol. 1).
17 Tale definizione è adottata da Pierre Bayle, il cui articolo su Spinoza ha grande diffusione e rappresenta la fonte
principale sullo spinozismo per buona parte del XVIII secolo. Cfr. P.BAYLE, Dizionario storico-critico, a cura di G. Cantelli, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 355-459 (“Spinoza, Benedetto di”). Per un’introduzione al tema dell’“ateismo” di Spinoza cfr. P.-F.MOREAU, Spinoza et la question de l’athéisme, in L.VINCIGUERRA (a cura di), Quel avenir pour Spinoza? Enquête sur les
spinozismes à venir, cit.
18 Sulla figura di Van Velthuysen, medico e studioso di Cartesio e Hobbes che interviene nel dibattito olandese
sull’esegesi biblica proponendo un “razionalismo moderato”, cfr. W. VAN BUNGE, From Stevin to Spinoza: An Essay on
Philosophy in the Seventeenth-Century Dutch Republic, Brill, Leiden 2001, pp. 75-113.
19 «À vrai dire, Velthuysen va présenter un résumé plutôt correct de l’ensemble du Traité, tout en exprimant à la marge,
en introduction et en conclusion, son propre sentiment. On reconnaît en effet les grandes thèses du Traité. Sur Dieu : nécessité, identité avec l’univers, unité de la volonté et de l’entendement, refus d’une fonction de juge suprême, critique du miracle. Sur la vertu : elle est à elle-même sa propre récompense, elle est enseignée par les prophètes. Sur l’Écriture : elle n’enseigne pas la vérité mais les moyens de la vertu, elle doit s’interpréter selon son sens littéral. Sur le culte : il est réglé par les magistrats pour son expression publique; ceux-ci ont à faire régner justice et honnêteté dans l’État, à accepter des religions différentes pourvu qu’elles ne menacent pas la paix publique, tandis qu’un particulier a droit à son opinion propre; il n’y a pas d’élection du peuple juif; les docteurs du Nouveau Testament (ainsi Paul et Jacques) ont exprimé des arguments divers par « prudence apostolique » en fonction de leurs auditeurs mais dans l’unique visée du salut; l’exemple du Christ confirme que seul l’amour des vertus conduit à la félicité. Les résumés plus contestables concernent : Dieu « architecte et fondateur de l’univers », compris comme fatum; ou encore l’Écriture lorsqu’il est reproché à Spinoza d’introduire deux langages chez les prophètes (le dogme et le récit), et, dans une formulation un peu étrange, de refuser le rôle de la raison et de la philosophie dans son interprétation. À cela près, le résumé est plutôt fidèle et complet» (H.LAUX, Le “Traité théologico-politique” dans la correspondance de Spinoza, in «Revue de métaphysique et de
morale», n. 41/1, 2004, pp. 41-57, pp. 52-53).
20 B.SPINOZA, Opere, cit., p. 1424 (Van Velthuysen a Ostens, 24 gennaio 1671).
21 Come sintetizza efficacemente Jonathan I. Israel: «By 1750 innumerable authors, French, German, Italian,
Scandinavian, Iberian, Swiss, and English, as well as Dutch, had indignantly denounced Spinoza as the most pernicious and dangerous thinker of the era» (J.I. ISRAEL, Radical Enlightenment: Philosophy and the Making of Modernity 1650-1750,
Hai qui, signore dotatissimo, a te consegnato in compendio, l’essenziale della dottrina del Trattato teologico-politico. Questo libro, a mio giudizio, cancella e sovverte dalle fondamenta ogni culto e ogni religione, insegna di nascosto l’ateismo oppure finge un Dio che, per esser soggetto al fato, non incute agli uomini nessun timore reverenziale. Non lascia inoltre spazio alcuno alla direzione e alla provvidenza di Dio e cancella ogni attribuzione di pene e di premi. Da questo scritto risulta almeno con immediata evidenza che l’autore annienta l’autorità della Sacra Scrittura, di cui fa menzione soltanto a parole. Consegue infatti dalla sua posizione che anche il Corano è parola di Dio. […] Ritengo dunque di non allontanarmi grandemente dalla verità, né di offendere l’autore, se rendo noto che egli, con argomenti coperti e imbellettati, insegna un puro ateismo22.
È certamente possibile ipotizzare che queste parole suonassero terrificanti all’orecchio di un uomo del XVII secolo. Van Velthuysen potrebbe quindi aver ritenuto di non dover ricorrere a un’invettiva retorica per sottolineare la condannabilità della posizione spinoziana. Tuttavia questa sintesi, col suo tono neutralmente “obiettivo”, appare tutt’altro che tendenziosa al lettore odierno e al suo orecchio secolarizzato: Van Velthuysen non sembra in effetti essere lontano dalla verità né aver offeso lo spirito del testo pervertendolo23. Proprio alla luce di questa “simpatia” per il recensore, la risposta di Spinoza – rivolta a Ostens – suscita una qualche sorpresa:
Sono a stento persuaso di dover rispondere al libello di quell’uomo, che hai voluto trasmettermi. Lo faccio ora, soltanto perché l’ho promesso. Ma, in verità, per dar libero sfogo anche al mio animo, nei limiti in cui è possibile, me la caverò con poche parole e mostrerò in breve quanto perversamente mi abbia interpretato. Non so dire se l’abbia fatto per malizia o per ignoranza24.
La dichiarazione iniziale prelude dunque a una risposta tutt’altro che conciliante e se è vero che l’immagine “pacifica” di Spinoza trasmessa dalla tradizione non è priva di limiti – come mostrano soprattutto alcune lettere e vari scolii dell’Etica25 –, colpisce comunque il tono acceso di questo “sfogo” spinoziano. La lettera procede poi analizzando vari punti toccati da Van Velthuysen, cominciando da una nota introduttiva:
In primo luogo afferma che è poco importante sapere la mia origine o quale regola di vita io segua. Certo, se l’avesse saputo non si sarebbe convinto così facilmente che io insegni l’ateismo. Gli atei, di solito, sono alla ricerca di onori e di ricchezze: cose che io ho sempre disprezzato, come sanno tutti quelli che mi conoscono26.
Si tratta di un’annotazione piuttosto strana, in parte chiarita dal differente significato che il termine ateo ha in quell’epoca. Esso ha, infatti, una forte connotazione morale e Spinoza respinge quindi l’accusa di ateismo mostrando che egli è un uomo virtuoso e non corrotto, invece di
Oxford University Press, Oxford-New York 2001, p. 161). Per limitarci ad un esempio dall’espistolario di Spinoza, Albert Burgh – cattolico convertito – definisce il Trattato teologico-politico un testo “empio” scritto con “astuzia diabolica” (cfr. B.SPINOZA, Opere, cit., p. 1506 – Burgh a Spinoza, 3 settembre 1675).
22 B.SPINOZA, Opere, cit., pp. 1436-1437 (Van Velthuysen a Ostens, 24 gennaio 1671).
23 Proprio in ciò, nota Henri Laux, sta la pericolosità di quest’interpretazione: «Le résumé est en effet redoutable car s’il
est inattaquable dans sa lettre, cela signifie très exactement ceci : la lecture correcte des thèses spinozistes fait nécessairement conclure à leur athéisme» (H.LAUX,Le “Traité théologico-politique” dans la correspondance de Spinoza, cit., p.
53).
24 B.SPINOZA, Opere, cit., p. 1437 (Spinoza a Ostens, <marzo 1671>).
25 «È come se ci fossero due Etiche», nota Gilles Deleuze commentando il tono polemico e “aggressivo” degli scolii (cfr.
G.DELEUZE, Spinoza et le problème de l’expression, Les Éditions de Minuit, Paris 1968 [trad. it. di S. Ansaldi, Spinoza e il
problema dell’espressione, Quodlibet, Macerata 1999, p. 269]).
affermare “io credo in Dio” come faremmo noi oggi – una frase che per lui sarebbe stata priva di significato, essendo Dio l’evidenza prima e non l’oggetto di una credenza. Tale mutamento semantico è di grande interesse e avremo modo di tornarvi.
Per il momento è interessante invece notare come esso giustifichi la risposta di Spinoza solo in parte. L’osservazione di Van Velthuysen è infatti abbastanza occasionale e afferma semplicemente il fatto che egli non conosce l’autore del trattato. Ma ciò non è importante, per l’appunto, perché l’ateismo gli appare come una conseguenza logica delle tesi ivi esposte, a prescindere dalla condotta di vita di chi le espone. Invece di attaccare tale deduzione, Spinoza procede in prima istanza “schivando” la questione e richiamando proprio il suo modo di vivere, come se a destare scandalo non fosse precisamente la possibilità di essere virtuosi e civili senza aver bisogno della tutela di un Dio-giudice27.
Agli occhi di Van Velthuysen, quella rivendicata dall’“ateo” Spinoza sarebbe comunque apparsa come una virtù per accidens, in quanto priva di ogni “timor di Dio”. La “difesa” di Spinoza non fa in realtà che confermare ulteriormente quest’aspetto:
Continua poi dicendo che per evitare la colpa del superstizioso, io sembro essermi spogliato di ogni religione. Non so che cosa intenda per religione e per superstizione. […] Si è spogliato di ogni religione chi ha stabilito che il premio della virtù è la stessa virtù, e che la punizione della stoltezza e dell’impotenza è la stessa stoltezza? […] Ma credo di scorgere il fango da cui quest’uomo non riesce a liberarsi. Non trova nulla che lo diletti nella virtù stessa e nell’intelletto, e preferirebbe vivere per l’impulso dei suoi affetti, se non ci fosse quest’unico ostacolo: teme la punizione. […] Crede dunque che vivano senza freni e spogliati di ogni religione tutti quelli che non sono irretiti da tale paura28.
Quello che ci troviamo di fronte è, per certi aspetti, un conflitto terminologico, che ruota appunto intorno alla questione “che cosa (quid) s’intende per religione” – ti esti to hosion. Van Velthuysen afferma che Spinoza si è spogliato di ogni religione – “religione” nel senso tradizionale del termine, potremmo aggiungere – e ha, in un certo senso, ragione. La risposta di Spinoza infatti non rovescia tale assunto, ma afferma che Van Velthuysen non sa cos’è la religione, la vera religione. Egli è in errore sul significato del termine, come chiarisce la breve discussione sulla questione