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G LI IDOLI DELLA PIETAS

U N M U T A M E N T O D E L L A C O S CI E N Z A E U R O P E A

Nell’orizzonte del rapporto teologia-filosofia è possibile comprendere l’idea della “morte di Dio” elaborata da Nietzsche, nel suo tentativo di comprendere la storia dell’Occidente alla luce del “problema della scienza”, inteso anche come problema della verità filosofica, individuando l’iscrizione del moderno sapere scientifico nella soglia dell’episteme platonica. Testimone del mutamento avvenuto nella coscienza europea è Schopenhauer:

L’avvenimento (Ereigniss), dopo il quale c’era da aspettarsi questo problema [il problema del valore dell’esistenza] con tale sicurezza che un astronomo dell’anima avrebbe potuto calcolarne giorno e ora, il tramonto (Niedergang) della fede nel Dio cristiano, la vittoria dell’ateismo scientifico, è un avvenimento totalmente europeo […]. Come filosofo, Schopenhauer fu il primo ateo dichiarato e irremovibile che noi Tedeschi abbiamo avuto: è qui lo sfondo della sua inimicizia con Hegel. La non divinità dell’esistenza (Ungöttlichkeit des Daseins) era per lui qualcosa di dato, di palpabile (Greifliches), d’indiscutibile; perdeva la sua assennatezza di filosofo (Philosophen-Besonnenheit) e si faceva prendere dalla collera tutte le volte che vedeva qualcuno esitare su questo punto e perdersi in giri di parole; è qui che si trova tutta la sua rettitudine (Rechtschaffenheit): l’ateismo assoluto, onesto, è appunto il presupposto (Voraussetzung) della sua problematica, in quanto è una vittoria finale e faticosamente conquistata della coscienza europea, in quanto è l’atto più ricco di conseguenze di una bimillenaria educazione (Zucht) alla verità, che nel suo momento conclusivo si proibisce la menzogna (Lüge) della fede in Dio… Si vede che cosa fu propriamente a vincere sul Dio cristiano: la stessa moralità cristiana, il concetto di veridicità preso con sempre maggior rigore, la sottigliezza dei padri confessori della coscienza cristiana, tradotta e sublimata nella coscienza scientifica, nella pulizia intellettuale a qualsiasi prezzo. Guardare la natura come se essa fosse una dimostrazione (Beweis) della bontà e della protezione (Obhut) di un dio; interpretare la storia ad onore di una ragione divina come costante testimonianza di un ordinamento etico del mondo (sittlichen Weltordnung) e di finali intenzioni etiche (sittlicher Schlussabsichten); spiegare le proprie esperienze di vita come le hanno spiegate già abbastanza a lungo gli uomini devoti, e cioè come se tutto fosse una Provvidenza (Fügung), tutto fosse un monito (Wink), tutto fosse concepito e preordinato (geschickt) per amore della salute dell’anima: questo ha ormai fatto il suo tempo, ha la coscienza (Gewissen) contro di sé, è per tutte le coscienze sensibili qualcosa di sconveniente, di disonesto (unehrlich), una menzogna, roba da donnicciole (Femininismus), debolezza, viltà – se lo dobbiamo a qualcosa, è appunto grazie a questo rigore (Strenge) che noi siamo buoni Europei ed eredi del più lungo e più valoroso autosuperamento (Selbstüberwindung) dell’Europa103.

Nel quadro della storia della coscienza europea descritta da Nietzsche, non sembra scorretto associare al nome di Schopenhauer quello di Spinoza, anch’egli sordo (e talvolta intemperante) di fronte alle spiegazioni provvidenzialistiche. Inoltre, se è l’educazione bimillenaria alla verità ad uccidere Dio, bisogna dire, risalendo sino alla nostra “scena primaria”, che colui che separa Dio dalla verità è proprio Socrate, la cui impresa consiste per l’appunto nel «mettere il Dio alla prova in cento modi, per vedere se ha detto la verità»104. Quando Heidegger, sviluppando la sua interpretazione della

103 F. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., §357 (traduzione modificata). Per un commento a quest’aforisma cfr. W.

STEGMAIER,Nietzsches Befreiung der Philosophie, cit., pp. 355-384.

104 F.NIETZSCHE, Der Wanderer und sein Schatten, in KGW [trad. it. di S. Giametta, Il viandante e la sua ombra, in OFN], §72,

Missionari divini. Karl Pestalozzi nota in proposito come Socrate sia per Nietzsche colui che «non crede più in modo

immediato a Dio» (K. PESTALOZZI, L’agone di Nietzsche con Socrate, cit., p. 207). Confrontata con la caratterizzazione nietzschiana di Socrate, appare meno convincente l’interpretazione dell’Eutifrone data da Gadamer: Socrate è empio proprio perché pone la verità prima del Dio.

sentenza “Dio è morto”, afferma giustamente che essa non ha a che fare con il personale “ateismo” del “signor Nietzsche”, compie nei confronti di Nietzsche un gesto filosofico non dissimile da quello compiuto da Platone nei confronti di Socrate, che non muore per la sua personale “empietà”: ciò che è in gioco non sono le vedute private, ma la comparsa e gli effetti di un nuovo “tipo” umano, l’homo philosophicus105.

L A M O R T E D E L DI O D E L L A T E O L O G I A

Il tentativo di genealogia che stiamo sviluppando ruota intorno alla seguente immagine: il filosofo è colui che con il suo domandare sacrilego viola la pietas, toglie alla teologia il suo primato. Tale linguaggio suona però piuttosto invecchiato e lontano al nostro orecchio, sono per l’appunto “questioni medievali”, consegnate agli archivi insieme alla locutio angelica e non più molto attuali. Abbiamo anime secolarizzate e possiamo vivere tranquillamente senza preoccuparci del fatto che la filosofia sia o meno ancella della teologia. Se ancora Leibniz avverte profondamente il bisogno di salvare il “Dio dei devoti”, Schopenhauer dismette invece senz’appello le speranze del razionalismo teista con il suo «Entweder glauben, oder philosophiren!»106 e più tardi Heidegger descrive la “filosofia cristiana” come «ferro ligneo»107 e «ancora più assurda dell'idea di un cerchio quadrato»108. Il “sentire comune” è senza dubbio cambiato: non si sente neppure il bisogno di confrontarsi con tale contraddizione, essa appare “superata”, non perché risolta o scomparsa, ma perché ha perso d’interesse, non è più oggetto di un investimento pulsionale.

Ma se Dio “svapora”, perché curarsene? Perché continuare a interrogarsi sulla “morte di Dio”? Il punto è che queste domande continuano a pensare la morte di Dio come un evento cronachistico, ad esempio come qualcosa che accade intorno alla fine del XIX secolo109. Ma pensare la morte di Dio non significa registrare la scomparsa o l’indebolimento di questa o quella religione, si tratta piuttosto di fare i conti con le sue ombre, con i suoi effetti “postumi”, con i suoi resti: gli idoli. Perché il “Dio” della “morte di Dio” non ha solo a che fare con la religione per come la intende il nostro sentire comune, ma anche e soprattutto con il Dio della pietas.

Noi tendiamo infatti a identificare il divino con l’ambito specifico della religione, lo abbiamo, per così dire, specializzato. Esso non è più una preoccupazione del quotidiano, ma è un’occupazione tra le altre. Ciò si riflette naturalmente nella divisione dei saperi e la relazione tra teologia e filosofia, come detto, non è più avvertita come problematica: i teologi si occupano di teologia, i filosofi di

105 Cfr. M.HEIDEGGER, La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», cit., p. 194. 106 A.SCHOPENHAUER, Parerga und Paralipomena II, cit., p. 418.

107 M.HEIDEGGER, Fenomenologia e teologia, in ID., Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 22.

108 M.HEIDEGGER, Nietzsche, cit., p. 644. Certamente tali formule non esauriscono il complesso rapporto di Heidegger

con la religione, sul quale cfr. F.-W. VON HERRMANN, L’ontologia fondamentale e la domanda su Dio, a cura di L. Bonvicini, in F.L.MARCOLONGO (a cura di), Fenomeno, trascendenza, verità: Scritti in onore di Gianfranco Bosio, Il Poligrafo, Padova 2012.

109 Già Maurice Blanchot notava come la morte di Dio non accada “una volta per tutte” ma sia, in un certo senso,

filosofia, gli storici di storia. Nell’età dello specialismo ogni sapere è infatti misura e giustificazione a sé stesso, senza che sia richiesto ad alcuna filosofia o teologia il compito di fondare o per lo meno comprendere in una sintesi i saperi.

Tale soglia di riconfigurazione della pietas al tempo stesso svela e ricopre, come ogni soglia. Uccide Dio specializzandolo, mostrando che non è necessario un intervento totalizzante della religione nelle pratiche di vita. Si tratta di un evento certamente epocale e che si esprime per esempio nella formula “libera Chiesa in libero Stato” e che per l’appunto sancisce la scissione tra questioni spirituali e temporali. Nondimeno, quello che muore è per l’appunto il Dio “settoriale” che la secolarizzazione stessa ha prodotto. Ma esso non è il Dio della pietas, bensì è solo una delle sue ombre, che continuano a produrre effetti anche nella nuova “epoca” e sono ancora più efficaci in quanto agiscono protette e nascoste dal vessillo dello “Stato laico” e del “sapere secolarizzato”.

Per comprendere questo movimento può essere utile riprendere estesamente il passo di Schopenhauer sul razionalismo:

Chi vuol essere razionalista, dev’essere un filosofo, e come tale emanciparsi da ogni autorità, andare avanti e non lasciarsi spaventare da nulla. Se, invece, si vuol essere un teologo, bisogna essere coerenti e non abbandonare il fondamento dell'autorità, nemmeno quando essa ci obbliga a credere ciò che non si può capire. Non si può servire due padroni: dunque o si serve la ragione o la Scrittura. Juste milieu significa qui mettersi a sedere fra due sedie. Si tratta o di credere o di filosofare!110

La posizione di Schopenhauer è per certi aspetti paradigmatica, oltre che chiaramente formulata con elegante ironia: congeda le ultime prudenze della religione razionale tentata dagli illuministi e apre all’onesto ateismo della cultura positivistica del XIX secolo. Ma si osservi come prosegue il passo:

Ciò che si sceglie, va scelto interamente. Tuttavia credere fino ad un certo punto e non più in là, e parimenti filosofare fino ad un certo punto e non più in là, – questo è quell'essere a metà che costituisce il carattere fondamentale del razionalismo111.

In realtà, uno sguardo al presente mostra che l’attitudine che si diffonde è precisamente quella che Schopenhauer condanna. Il “fino ad un certo punto e non più in là” diventa quello del confine disciplinare, dove la “coerenza” si ferma. Ciò appare ancor più chiaramente se proseguiamo nella lettura e notiamo come Schopenhauer in realtà non voglia affatto restringere la questione a filosofi e teologi:

Coloro che s'immaginano che le scienze possano progredire e diffondersi sempre più, senza che questo impedisca alla religione di sussistere e di fiorire senza tregua – sono preda di un grosso errore. [La fisica e la metafisica sono i nemici naturali della religione, e quindi questa è la loro nemica, che si sforza in ogni tempo di soffocarle, proprio come le suddette scienze cercano di minare la religione. Voler parlare di pace e di accordo fra loro è estremamente ridicolo: si tratta di un bellum ad internecionem]. Le religioni sono figlie dell'ignoranza, che non sopravvivono a lungo alla loro madre. […] Perciò è evidente che i popoli già cominciano a scuotersi di dosso il giogo della fede: se ne vedono i sintomi

110 A.SCHOPENHAUER, Parerga e paralipomena II, a cura di M. Carpitella, Adelphi, Milano 1998, pp. 514-515. 111 Ivi, p. 515.

dovunque, benché modificati diversamente in ciascun paese. La causa ne è il troppo sapere, che si è diffuso fra i popoli112.

Possiamo condividere l’affermazione di Schopenhauer sulla componente sacrilega di scienza e filosofia, ma che il conflitto debba risolversi in uno “sterminio” non corrisponde più alla nostra esperienza della divisione dei saperi, che hanno trovato il modo di sopravvivere più o meno pacificamente e parallelamente, ignorandosi perlopiù a vicenda (nonostante i ripetuti appelli alla “multidisciplinarità”). Soprattutto però è la visione progressiva e curiosamente ottimista espressa qui da Schopenhauer a non apparire più recepibile: il terzo millennio si apre con uno stupefacente revival delle guerre di religione che porta con sé la riemersione di un apparato interpretativo e retorico che sembrava definitivamente sepolto sotto la polvere delle crociate prima e dei macelli cattolico- protestanti della prima modernità poi, nonché superato da forme di giustificazione più “moderne” (il nazionalismo, lo scontro tra sistemi politico-economici)113. Come pensare questo “contraccolpo”?

Se tornano ad essere efficaci, le vecchie credenze non possono essere scomparse, ma devono aver trovato un modo di riconfigurarsi latentemente all’interno del paradigma “secolarizzato”. Che cosa si è sottratto alla distruzione della teologia ad opera della scienza? Per comprenderlo ci rivolgiamo nuovamente all’Eutifrone, sottolineando un aspetto finora rimasto ai margini: all’inizio del dialogo Socrate chiarisce che il processo in cui è coinvolto non è una dike, una vertenza privata, bensì una graphe, una questione di “salute pubblica”, per così dire114. Ciò appare insolito al nostro sguardo, perché la religione è divenuta per noi un fatto privato; da ciò derivano tra l’altro le nostre difficoltà di linguaggio: i termini “pietà” o “santo”, nella torsione che ha subito il loro significato, appaiono inadatti a trattare il tema in questione. La religione ha infatti per i Greci una valenza civica: l’hosion coinvolge non solo i doveri verso gli dèi, ma anche quelli verso i familiari e i concittadini. Tracce del “sentire” antico, che vede nella religione un fatto “politico”, si ritrovano ancora nel modo in cui Spinoza intende la pietas: comprendiamo allora meglio perché per difendersi dalle accuse di ateismo, egli rimandi all’irreprensibilità del proprio comportamento “pubblico” e non alla propria fede “privata”.

La devozione copre dunque un ambito ben più ampio di quello della teologia in senso stretto e coinvolge le opinioni condivise da una comunità, sulla base delle quali si regola ciò che si crede, si pensa, si dice e si fa115. È in quest’apparato “rituale” che le vecchie credenze sopravvivono in forma

112 Ivi, p. 516.

113 Si veda a questo proposito l’interessante analisi dell’uso dei termini “evil”, “God” e “Satan” nella retorica politica

americana dopo l’11 settembre proposta in A.D.SCHRIFT, Deleuze Becoming Nietzsche Becoming Spinoza Becoming Deleuze:

Toward a Politics of Immanence, cit., p. 190, in particolare considerando le affermazioni del presidente Bush e del generale

Boykin. Commenta Schrift: «Were these remarks citation from Tolkein’s Lord of the Rings, one might be comfortable with the ease with which the personification of evil has been effected. But we are not talking about the battle for Middle Earth; we’re talking about the foreign policy of the world’s only superpower» (Ibid.).

114 Cfr. PLAT. Euthyphr., 2a.

115 Éric Blondel nota, commentando L’Anticristo: «La “foi”, étendue aux croyances, recouvre toutes les “inventions” de

l’imagination» (É.BLONDEL, La “psychologie de la foi” chez Nietzsche: L’Antéchrist, §50, et Ecce homo, “Pourquoi je suis un destin”,

secolarizzata: la morte di Dio non implica il tramonto delle sue ombre, ad esempio gli idoli della morale (il soggetto, il bene, la finalità)116. Il compito della critica filosofica non può limitarsi alle

facoltà di teologia, ma necessita di rivolgersi all’intero complesso teologico-politico, all’intero mondo della doxa117. L’ateismo è, in questo senso, solo un “presupposto” della filosofia – come affermato da Nietzsche –, perché ciò con cui essa si confronta non è tanto la religione in sé, quanto le ombre pubbliche di un Dio morto perché privatizzato.

CI N Q U E N E G A Z I O N I

Alla luce della genealogia filosofica delineata, è interessante riconsiderare la cartolina su Spinoza che Nietzsche scrive a Overbeck. In essa troviamo delineato, in effetti, un piccolo “breviario” metodologico, composto da cinque precondizioni essenziali all’esercizio del pensiero filosofico. Si può dissentire sulle questioni “di dettaglio”, ma un filosofo deve perlomeno negare libertà, bene e male, finalità, ordinamento morale del mondo e disinteresse. Ciò esige la probità del pensiero, che traccia i limiti di ciò che, in quanto filosofi, si può essere disposti ad ammettere per vero. Si tratta di un’operazione in effetti non usuale per Nietzsche, filosofo notoriamente ostile ai tentativi di sintesi. Essa gli riesce in negativo: il testo non dà indicazioni positive in merito ad una qualche dottrina, ma indica ciò a cui il filosofo non può credere. La negazione appare allora come il sesto elemento “nascosto” del piccolo prontuario nietzschiano: essa è il “punto fondamentale” che sostiene tutti gli altri. La negazione è il criterio metodologico generale, del quale l’“ateismo come presupposto” di La gaia scienza è una figura: essa esprime l’attitudine critica della filosofia nei confronti del sapere comune.

Consideriamo, ad esempio, il problema del bene, che compare anch’esso in forma paradigmatica nell’Eutifrone, quando Socrate chiede se l’hosion sia tale perché amato dagli dèi o se sia amato dagli dèi in quanto tale118. Finché la domanda non viene posta, tutti sanno cos’è il bene, perché tutti agiscono in accordo al costume e alla tradizione. Nel momento in cui questi ultimi abbisognano di una giustificazione, del bene non restano che simulacri: Platone stesso, con l’idea del bene, non riesce a colmare il vuoto creato dalla domanda socratica, che alimenta nei secoli successivi gli innumerevoli tentativi con i quali la teodicea cerca di venire a capo della relazione di Dio con il bene (e soprattutto con il male). È Spinoza a portare a fondo la domanda socratica, negando

116 «La Mort de Dieu et sa paradoxale pérennité dans les consciences […] ne s’excluent pas» (I. WIENAND, Significations de

la Mort de Dieu chez Nietzsche d'Humain, trop humain à Ainsi parlait Zarathoustra, Lang Bern 2006, p. 69).

117 Ricordiamo a questo proposito un’altra “pietra miliare” dei rapporti teologia-filosofia, ossia il primo degli scritti

kantiani sul conflitto delle facoltà: «Sull’arte ermeneutica e il suo principio la facoltà superiore (il teologo biblico) non può non entrare in conflitto con l’inferiore [la filosofia]: infatti la prima, che attende segnatamente alla conoscenza biblico-teoretica, sospetta che la seconda dissolva a forza di filosofare tutte le dottrine che dovrebbero essere accolte come vera e propria rivelazione, e perciò alla lettera, interpolandovi un senso che piace all’interprete; ma questa, che cura più il lato pratico, più la religione che la fede ecclesiastica, accusa viceversa quella di perdere completamente di vista, con tali mezzi, lo scopo finale, che, come religione interiore, dev’essere morale e poggiare sulla ragione» (I.KANT, Il conflitto

delle facoltà, a cura di D. Venturelli, Morcelliana, Brescia 1994, pp. 97-98).

l’esistenza del bene, facendo della teodicea un discorso senza senso e incontrando in ciò il favore di Nietzsche, sia nella cartolina del 1881 sia, più circostanziatamente, in Genealogia della morale. Certamente il contesto teorico della negazione è profondamente diverso, ma è l’istanza critica a rendere possibile un riconoscimento.

Se andiamo in cerca, in effetti, dei filosofi che hanno fatto proprie le cinque negazioni, il gruppo sembra essere piuttosto esiguo. Non sembra scorretta, ad esempio, la sintesi fornita da Kuno Fischer sul tema della finalità, che sembra riecheggiare anche nella descrizione di Nietzsche; essa si trova in un paragrafo significativamente intitolato “Spinoza’s ausschließende Stellung”:

Questo puro naturalismo si pone nella più esplicita opposizione contro ogni teologia, contro ogni realtà degli scopi – non importa in che forma essi vengano fatti valere, se come divini o naturali o morali. Sulla validità dello scopo divino della salvezza si basa l’essenza della teologia cristiana, da cui dipende l’intera scolastica. Sulla validità degli scopi naturali – non importa quanto prossimi essi siano concepiti, se come idee o come entelechie –, Platone e Aristotele hanno fondato i loro sistemi. Il concetto di scopo finale morale o etico domina nella filosofia kantiana ed in quelle che da essa dipendono. I primi filosofi dell’età moderna che precedono Spinoza, come Bacone e Descartes, non hanno negato completamente la validità degli scopi, per quanto li escludano già dalla spiegazione fisica delle cose; e i filosofi successivi, come Leibniz e Kant, hanno rivalutato alla radice la realtà degli scopi nel mondo e dei concetti finali nella spiegazione del mondo. Comparata con la filosofia dell’antichità classica, del medioevo, dell’età moderna più recente, persino con la stessa filosofia dogmatica che indichiamo come appartenente alla prima modernità, la concezione del mondo di Spinoza appare quindi di fatto unica, completamente esclusiva (ausschließend) e completamente isolata (ausgeschlossen), contrapposta ai pensatori decisivi sia precedenti sia successivi. Egli è solo (einsam) come nessun altro; solitario nel suo pensiero, quanto solitario e isolato nella sua vita119.

In merito alla finalità è possibile avvicinare la critica di Spinoza e di Nietzsche a quella di Lucrezio, la cui filosofia non esclude però la libera volontà120. In generale, istanze critiche o scettiche non sono mancate nella storia della filosofia, ma non sono sempre state condotte alla loro coerenza ultima. Nella res cogitans e nella ragion pratica, ad esempio, Cartesio e Kant sembrano lasciare aperti degli spazi in cui le vecchie credenze possono trovare asilo, anche al di là delle effettive intenzioni e delle valide motivazioni dei due filosofi.

Nondimeno, per intendere a fondo il senso della cartolina di Nietzsche, non sembra sufficiente prendere in considerazione la storia della filosofia intesa come “confutazione” reciproca dei filosofi e dei sistemi, sullo sfondo della quale emergerebbe la Zweisamkeit Nietzsche-Spinoza. L’istanza critico-negativa non si esaurisce infatti nella filosofia come disciplina, ma si esprime nella filosofia come pratica esistenziale: l’oggetto della critica non sono tanto le altre concezioni