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FIGURA 2: EVOLUZIONE DELLA DIVISA SCOLASTICA

L’INTRODUZIONE DELLE DIVISE SCOLASTICHE E LE UNIFORMI FEMMINILI

FIGURA 2: EVOLUZIONE DELLA DIVISA SCOLASTICA

di hakama (Cambridge 2011). Questo tipo di pantalone, destinato fino ad allora esclusivamente agli uomini, fu considerato tuttavia poco consono per le ragazze. Si decise quindi di crearne un nuovo modello per le donne che prese il nome di

onna-bakama. Questo stile d’abbigliamento venne soprannominato bassuru sutairu

(dall’inglese bustle style, cioè che richiama il panier, la struttura sottostante i vestiti occidentali del Settecento- Ottocento ). Nel 1905, il pedagogista Inoguchi Akuri propose, dopo un tour negli Stati Uniti e in Europa, una forma ibrida di divisa sportiva per le ragazze, con la parte superiore ispirata allo stile della marina britannica e gli hakama (Usui 2014). Questa tenuta fu il punto di passaggio verso il sēra fuku. Nel 1921, il collegio femminile di Fukuoka fu il primo campus ad adottare questa divisa: la direttrice del collegio intuì che sarebbe stata molto più semplice da indossare del classico kimono . Tuttavia la maggior parte delle scuole del periodo Meiji non adottò mai delle vere e proprie uniformi scolastiche, e in quel periodo nelle scuole femminili restò una certa varietà di colori e di modelli.  

Nel periodo Taishō, dopo il terremoto del Kantō del 1923, il costo della stoffa dei kimono impose la necessità di adottare per tutte le scuole femminili divise in stile occidentale Ne furono concepite due versioni: una con vestito blu, lungo fino alle ginocchia, collo simile a quello dei kimono ma maniche ispirate alle vesti della marina ed un’altra composta da un completo di due pezzi con giacca e janpa

sukāto (gonna-pantalone), indossato con un berretto e un foulard rosso al collo

(Iku 1980). Il periodo della Seconda Guerra Mondiale, caratterizzato politicamente in Giappone da un regime autoritario e nazionalista, è invece caratterizzato da una giacca in stile marinaro a cui venne abbinato il monpe, un pantalone da lavoro (Cambridge 2011). Una delle ragione della sua adozione fu che dal 1943 al 1945 gli studenti delle scuole superiori e delle università furono costretti a prestare lavoro nelle campagne e nelle fabbriche di armamenti, per la necessità di mantenere una produzione costante in periodo di guerra. La stoffa

cambiò e fu adottato il kasuri, cioè il cotone usato nelle fabbriche dei kimono. Alla fine della guerra, il sēra fuku nella versione total black, fu adottato di norma per tutte le scuole medie e superiori. Se il prerequisito fondamentale per l’educazione durante il nazionalismo era quello di instillare un senso di forte orgoglio nazionale nei giovani, per indottrinarli secondo il principio di difesa del

kokutai, cioè del “sistema nazionale”, ora che l’imperatore aveva perso il suo

ruolo di divinità e che gli Alleati avevano smantellato le forze militari giapponesi, anche i valori su cui la scuola si basava cambiarono completamente. Il Giappone del dopoguerra è identificato come gakureki shakai, cioè una società meritocratica basata sul ruolo dell’educazione. Negli anni Cinquanta figure di ragazzi nelle loro uniformi tirate a lucido incominciarono a pervadere nelle pubblicità dedicate alle famiglie e in televisione, portando un po’ di sogno americano e rimanendo impresse nell’immaginario collettivo. E’ quasi certamente databile a questo periodo la nascita per la prima volta di un’immagine della ragazza in uniforme come oggetto sessuale (Kinsella 2002). Si trattava, in queste prime forme, di romanzi erotici o pornografici dove appaiono ragazzine che si sbottonano la camicetta. Negli anni Sessanta queste figure ancora abbastanza caste di ragazze in uniforme lasciano spazio ad una visione più complessa legata al tema dell’erotico-grottesco (in giapponese ero-guro). Nascono le prime storie dove studentesse vengono sedotte o violentate da mostri, cattivi maestri o parenti più anziani. Questo genere di tematiche è ancora oggi quello prevalente nell’industria d’animazione pornografica giapponese (hentai). Gli anni Sessanta furono però anche caratterizzati dai primi movimenti di ribellione contro le uniformi e dall’omologazione che rappresentavano. Le

sukeban, cioè le bande femminili che nacquero a cavallo tra i Sessanta e i Settanta,

furono in quel periodo l’emblema delle cattive ragazze (Evers and Macias 2007): alle gonne lunghe delle uniformi venne contrapposta una versione ridotta della camicetta, che lasciava scoperta parte della pancia. Si trattava per lo più di ragazze sbandate, che erravano per la città combattendo in faide tra diversi

gruppi, ma col tempo vennero identificate come icone di mode e riferimento per i successivi fenomeni di deviazione studentesca, espressi anche attraverso la reinterpretazione della divisa. Negli anni Ottanta l’uniforme si evolse da simbolo dell’istituzione scolastica a vero e proprio business. Nacque il modello con blazer, che spopolò a Tokyo nella versione blu o caramello, e le gonne incominciarono ad accorciarsi. Dopo il 1990 si ebbe un aumento esponenziale dello stile delle uniformi scolastiche: il sēra fuku rimase prerogativa delle scuole storiche, mentre quelle di nuova fondazione adottarono divise più allettanti (Mitamura 2008). Per le giovani uno dei parametri di scelta dell’istituto da frequentare fu anche la ricercatezza e la bellezza delle uniformi proposte. L’interesse per le uniformi raggiunse il suo apice, anche grazie alla pubblicazione di lavori come Tokyo Joshiko Seifuku Raikai (Manuale sulle uniformi scolastiche femminili a Tokyo) di Mori Nobuyuki (Mori 1985), che documenta per la prima volta la varietà di stili nell’area di Tokyo. Negli anni Novanta le gonne si accorciarono. Si trattò il più delle volte di trasgressioni che andavano contro i regolamenti scolastici, e che indusse alcune scuole a rivedere le proprie regole. Nel 1997 fece ad esempio eco nei giornali il caso della prefettura di Chiba, dove in quattro scuole si accordò come “lunghezza ragionevole” per la gonna la misura di cinque centimetri sopra il ginocchio (Cherry 1992). Altra moda, che si

sviluppò nelle zone di Tokyo e Osaka verso il 1994 per poi espandersi in tutto il Giappone, fu quella di indossare le calze allentate (Figura 3),  che tenute in

posizione tramite colle speciali, diventarono un particolare studiato di falsa trascuratezza nella divisa (Fazio 1998). Le uniformi si trasformarono in oggetti di design, e alcune scuole decisero di affidare la loro creazione a stilisti giapponesi, sempre più consapevoli del fatto che non avrebbero potuto opporsi al cambiamento dei tempi, e che questo rinnovamento avrebbe potuto far rifiorire un interesse anche da parte degli studenti per un simbolo che ormai sembrava essere privo significato . Nel frattempo il sēra fuku era

stata ampiamente

rimpiazzato dal modello di divisa con giacca e gonna. Nel 1993 l’attenzione dei media nazionali si focalizzò su un nuovo fenomeno

dell’industria sessuale:

questo commercio era basato su i burusera, i pantaloncini scuri indossati dalle ragazze durante le lezioni di educazione fisica, che incominciarono ad essere venduti in alcuni sexy shop (Kinsella 2002). Le ragazzine vendevano le loro uniformi, i pantaloncini da ginnastica e la propria biancheria con un campione della propria saliva in cambio di denaro facile. Ben presto l’interesse per questo portò alla luce un grande scandalo in cui si rilevò un grande giro di prostituzione minorile (si parlava del quattro percento di studentesse liceali coinvolte), che rimase poi noto con il nome edulcorato di enjo kōsai (letteralmente “incontrarsi per un aiuto” o FIGURA  2:  CALZE  ALLENTATE

“appuntamento sovvenzionato”), cioè un incontro, in cambio di denaro e regali, tra una ragazza molto giovane, in genere una studentessa preadolescente o adolescente, e un uomo più vecchio, tendenzialmente sopra i trent’anni, senza che necessariamente vi sia una performance sessuale . Il fattore più sconvolgente fu che per la maggior parte dei casi il fenomeno coinvolse, diversamente dal fenomeno delle sukeban negli anni Settanta, ragazze provenienti da famiglie benestanti, che quindi che non avrebbero avuto bisogno di denaro. Per i media la parola enjo kōsai divenne un termine chiave, e l’interesse per le studentesse e le loro deviazioni si fece sempre più intenso, fino ad essere definito “boom delle liceali” (Evers and Macias 2007). L’immagine distorta che venne offerta dai media fu quella di ragazze senza scrupoli, che desideravano fare soldi facilmente, disposte a tale scopo addirittura a vendere il proprio corpo. In particolare, fu la nascente sottocultura kogyaru ad essere associata ad un’immagine di gioventù bruciata. Portavano gonne molto corte, calze allentate sui polpacci, si abbronzavano e si tingevano i capelli contro tutti i canoni della bellezza tradizionale giapponese.

 

LE  UNIFORMI  OGGI  

 

Con l’ingresso nel nuovo millennio le uniformi femminili hanno nuovamente cambiato il proprio aspetto. Mori Nobuyuki, nel suo libro Joshi kōseifuku zukan:

Shukotenban Kanagawa Chiba Saitama (Manuale di uniformi liceali femminili:

edizione dell’area metropolitana di Kanagawa, Chiba e Saitama) del 2010 (Mori 2010), esamina attentamente le caratteristiche delle divise nelle città di Kanagawa, Chiba e Saitama, dividendole in sei stili principali: blazer, sēra fuku, bolero, vestito, gonna pantalone, giacca colorata. Il blazer è adottato dal 70% delle scuole: l’opzione più fortunata, quella con gonna e cravatta, è anche secondo gli studenti la scelta più apprezzata, per via del suo design pratico e bello da vedere. Il sēra fuku comprende l’11% complessivo, mentre bolero e vestito sono modelli rari, secondo l’autore destinate a scomparire nel giro di poco tempo. La gonna pantalone è solo presente in due scuole nella zona di Kanagawa, e rappresenta quindi una piccola parte delle uniformi. Nella maggior parte delle scuole missionarie cristiane il modello delle divise non ha subito modifiche, se non eventualmente nel colore delle giacche. Le divise colorate rappresentano il 15% complessivo. Più della metà delle strutture hanno cambiato modello dell’uniforme nei precedenti dieci anni, ma secondo l’autore è improbabile che le scuole la cui veste è rimasta invariata fino ad ora decidano di dare una svolta. Due sono i fattori interessanti da notare. Il primo è che più di design “grazioso”, le nuove preferenze sembrano virare verso una concezione di abito funzionale. In particolare ci si rivolge al blazer, preferito nella versione più ampia e che è anche il modello preferito dagli stilisti famosi a cui talune di queste uniformi vengono commissionate: delle centoquarantasette scuole recensite da Mori, trentuno posseggono una divisa prodotta da un designer. Secondariamente,