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LA RAPPRESENTAZIONE DEL SÉ TRAMITE L’UNIFORME

L’UNIFORME,  IL  SÉ  E  GLI  ALTRI.  

 

LA  RAPPRESENTAZIONE  DEL  SÉ  TRAMITE  L’UNIFORME.  

 

Si chiama “enclothed cognition” la percezione della natura di una persona attraverso gli abiti che indossa (Blakeslee 2012). Se uno studente porta l’uniforme, verrà riconosciuto come coerente con il suo ruolo e lui stesso farà il possibile per soddisfare questa percezione. Ovviamente come si suol dire “l’abito non fa il monaco”, cioè l’apparenza non può modificare le vere capacità di una persona, ma senza dubbio un determinato modo di vestirsi può persuadere a cambiare l’immagine che si ha dell’altro e di se stessi. E’ già stato detto come le uniformi scolastiche in passato abbiano subito un certo periodo di crisi, in conseguenza del quale da una parte si è vista la nascita di comportamenti devianti legati alla modificazione e distorsione del loro significato formale, dall’altra le scuole hanno in certi casi cercato di portare avanti un processo di rinnovamento delle proprie divise per riconquistare autorità di fronte agli studenti. In fondo, se l’uniforme è un simbolo dell’autorità scolastica, cioè ne rafforza il potere e i principi, quando il simbolo perde potenza è la stessa istituzione a perdere potere. In quella perdita di comando si insinua il comportamento deviante.

A monte della questione, tuttavia, esiste un problema di natura psicologica che non è stato ancora affrontato, cioè la percezione che hanno gli studenti hanno dell’uniforme che indossano e della concezione del sé in divisa. Non si tratta solamente di capire le opinioni riguardo le uniformi, ma di capire se indossandole l’idea del sé cambia in positivo o in negativo e, quindi, di

decodificare quali concetti sono associati alle uniformi. Questo può permetterci di spiegare se e quando la percezione di un simbolo può modificare l’autorità di un’istituzione ed influire sulla presenza di comportamenti devianti. Un interessante sondaggio circa la percezione del sé attraverso l’uniforme è stato effettuato nel 1992 per la Facoltà di Educazione dell’Università di Iwate (Ikeda, Amaki and Oki 1992). Ad un campione di 1317 studenti (644 maschi, 673 femmine) sono state proposte trenta coppie di aggettivi di significato opposto (ad esempio curato-trascurato). Per ognuna si esse si potevano scegliere sette gradi di giudizio che esprimevano la prossimità o distanza rispetto ad uno degli aggettivi della coppia: “molto” (ijō ni), “abbastanza” (kanari), “un po’” (yaya), “nessuno dei due” (dochira demo nai), “un po’”, “abbastanza” e “molto”. Le coppie consentivano la descrizione di quattro temi centrali: il sé ideale, il sé reale, i vestiti personali, le divise scolastiche.

Per ognuno dei trenta aggettivi è stata tracciata una media delle risposte. Gli aggettivi scelti maggiormente dalle ragazze nella descrizione del sé ideale erano: “innovativa” (shinpoteki), “calorosa” (atatakai), “snella” (hossori shita), “sofisticata” (senren sareta), “con un bello stile” (sutairu ga ii), “attiva” (katsudōteki), “chic” (shareta), “pulita” (seiketsuna). Quando però si confrontavano i risultati con quelli del sé reale i risultati erano talvolta opposti, ad esempio “rotondetta” (fukkura

shita) viene contrapposto a “snello”, e “con un brutto stile” (sutairu ga warui)

contro lo stile chic e sofisticato del sé ideale. Se ne deduce che le ragazze avevano un giudizio molto duro di sé. Ancora più interessanti erano i risultati quando questi due fattori venivano integrati con relativi allo stile personale ed alle divise scolastiche. Non casualmente, infatti, quando le studentesse dovevano descrivere i propri vestiti personali, gli aggettivi scelti erano interamente in una posizione intermedia tra la percezione del sé reale e quello ideale, a dimostrazione del fatto che la scelta di determinati abiti stabiliva il personaggio che desideriamo essere nel sé ideale. La divisa, al contrario, si posizionava nella maggior parte dei casi

nella parte del grafico degli aggettivi negativi, tra il “nessuno dei due” e il “così- così”, talvolta intrecciandosi o superando sia in negativo che in positivo la percezione del sé reale, ma mai raggiungendo il sé ideale o i vestiti personali. Tra gli aggettivi più negativi sulle uniformi si riscontravano “banale” (heibonna), “seriosa” (katai), “non affascinante” (miryokuteki denai), “convezionale” (kata ni

hamatta). Emerge inoltre dalla ricerca che le studentesse avevano coscienza

vivida del fatto che esiste una correlazione significativa tra giovinezza e immagine reale del sé, ciò si riflette sulle aspettative della società riguardo alla uniforme che indossano. Esiste cioè una volontà di costruire il sé per come la società vorrebbe che venisse visto e non per come si vorrebbe che fosse.

Secondo questa ricerca, in sostanza, la divisa scolastica in Giappone non soddisfa coloro che la indossano perché non descrive un punto di compromesso tra il sé ideale e quello reale, ed esiste solo per soddisfare le aspettative sociali che la circondano.

Se l’incarnazione del sé espressa dall’autorità non è soddisfacente, è evidente che si cercheranno nuovi modelli di espressione che esuleranno dalla rappresentazione ufficiale e regolamentata. Il tentativo di creare un’immagine non ufficiale delle cose che ci circondano esiste fin dai primi tempi dello sviluppo culturale. Bakhtin, nella sua introduzione al libro “L’opera di Rabelais e la cultura

popolare” (Bakthin 1984), ipotizza che nelle società presociali e pre-culturali (cioè

quelle che Berger e Luckmann definirebbero pre-istituzionalizzate (Berger 1966)) non esistesse una demarcazione definita tra ciò che è ufficiale e ciò che non lo è: l’aspetto comico e carnevalesco della società è tutt’uno con la società ufficiale. Solo con la consolidazione dei concetti di stato e struttura sociale, cioè con la creazione delle istituzioni, questi aspetti vengono trasferiti ad un livello non ufficiale, diventando espressione di una coscienza del folklore cioè delle manifestazioni culturali di un gruppo di persone (Bakthin 1984). La cultura popolare, poi, crea un nuovo modo di comunicare che modifica il modo vecchio

di osservare le cose. Ovvero ciò che è ufficiale torna talvolta ad unirsi con ciò che non lo è, pur seguendo strade diverse di evoluzione. Tra gli studenti giapponesi è avvenuta una cosa del tutto simile: ad una “uniformità” è stata contrapposta una “non-uniformità”, che non significa necessariamente una resistenza diretta e organizzata all’autorità per destabilizzarne il potere e sradicarne i suoi simboli, ma che è semplicemente un’alienazione indiretta e non organizzata che si distacca dall’istituzione. McVeigh parla di “ideologia anti-ufficiale”, quindi non di una “negazione di cultura” o di una controcultura, ma solo di una reinterpretazione dei suoi significati (McVeigh 2000). Questa ha diverse rappresentazioni visibili, di cui due sono particolarmente significative perché direttamente connesse alla modificazione della divisa scolastica: la prima è la

sovversione, cioè il completo rovesciamento dell’autorità ufficiale. E’ il caso di

tutte le trasgressioni che violano il codice di comportamento scolastico. Si tratta di modificazioni radicali alle uniformi, come quelle delle sukeban negli anni Settanta o le estremizzazioni del kawaii delle moderne kogyaru. La seconda espressione di ideologia anti-ufficiale è quella della conversione, cioè della reinterpretazione della stessa divisa scolastica (McVeigh 2000). Questa strategia riguarda tutte le mode che si sono formate e di cui ho discusso nel capitolo due, come ad esempio l’accorciamento della gonna.

Tradizionalmente gli studenti sono distinti attraverso i loro vestiti come diversi dagli adulti, e questa è stata la rappresentazione che molte studentesse davano di se stesse fino a qualche anno fa, ma tra alcune di esse troviamo un cambio nel significato stesso di uniforme, una nuova visione di sé in cui è proprio l’uniforme a renderle belle e carine, e dove kawaii diventa il veicolo verso una migliore rappresentazione del sé (jibun-rashisa) (McVeigh 2000). Questo tipo di resistenza è di fatto la più efficace, perché non si tratta di uno stravolgimento della divisa, quanto piuttosto di una reinterpretazione attenta, dove lo studente conosce i limiti che vengono imposti e impara a raggirarli. In questi casi, è difficile che la

istituzione reprima il comportamento che quindi inevitabilmente poco alla volta viene inglobato nelle regole stabilite dalla scuola. Ritengo quindi che la nascita e lo sviluppo di fenomeni devianti riguardanti le uniformi si sviluppi originariamente dalla percezione negativa e poco attraente che fino a qualche tempo fa veniva assegnata alle divise scolastiche, specialmente quelle femminili. Il desiderio di trovare una diversa rappresentazione di sé, che fosse più attraente e vicina ad un’ideale da raggiungere ha spinto gruppi di giovani ad esprimersi in maniera alternativa reinventando la propria divisa scolastica, perché simbolo della scuola come istituzione e quindi target facile per esprimere una protesta indiretta, o, come è stata anche definita, una “ideologia anti-ufficiale”. Questo in certi casi ha portato alla nascita di comportamenti devianti, mentre in altri si è riusciti a formare uno spazio di espressione pacifica e alternativa ribaltando gli elementi delle divise che non erano considerati più in linea con la propria espressione del sé. Ciò che definisce il sé ideale, tuttavia, non è qualcosa che si basa unicamente sul giudizio personale del singolo, ma è anzi per la maggior parte un desiderio di raggiungere degli standard che sono imposti dalla società. Ironicamente, quindi, la presentazione di sé che molte studentesse decidono adottare è in realtà soggetta da altri genere di imposizioni esterne, legate ad esempio al gruppo di appartenenza o alla mode che la società stessa crea e impone.

LE  OPINIONI  DEGLI  STUDENTI  SULLE  DIVISE  

 

Brain McVeigh, nel suo libro “Wearing Ideology”, raggruppa una serie di concetti che vengono associati dagli studenti alle divise scolastiche (McVeigh 2000). Un primo aspetto riguarda la capacità dell’uniforme di creare ordine e controllo sociale, ma anche di permettere integrazione e solidarietà tra gli studenti. In una ricerca del 1994 sull’attitudine degli studenti nei confronti delle uniformi,