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LA PERCEZIONE DELLO STUDENTE DA PARTE DELL’ADULTO

 

LA  VISIONE  DEI  GIOVANI    

Il 20 marzo 1995, appena un mese dopo il devastante terremoto di Kobe18, un

gruppo di terroristi appartenenti alla setta religiosa Aum Shinrikyo19 rilasciarono

alcuni sacchetti di gas sarin su quattro treni della metropolitana di Tokyo verso la stazione di Kasumigaseki, sede di alcuni dei principali ministeri. Il Giappone si trovò atterrito di fronte ad un attentato che non aveva saputo prevedere ne spiegarsi. Un gran numero di osservatori si chiese che cosa fosse stato sbagliato fino a quel momento nella società giapponese per spingere così tante persone a credere ad un delirante ciarlatano come Asahara Shoko, il leader della setta. Molti dei membri della Aum Shinrikyo erano persone giovani. Questo particolare non sfuggì all’opinione pubblica, e nel tentativo di trovare una spiegazione all’accaduto la risposta apparve chiara: il problema erano i giovani, e la società che li aveva creati (Leheny 2006). La rappresentazione della cosiddetta “generazione Aum” come un gruppo distinto di giovani fuori controllo interessò per un lungo periodo i dibattiti sulla società, e sui cambiamenti che sembrava necessario dovere effettuare (Leheny 2006). Ovviamente non si può dire che fu questa tragedia a creare o concludere il dibattito sulla gioventù giapponese, ma sicuramente essa servì come punto di svolta e di direzione sulle opinioni che già stava prendendo il Giappone.

                                                                                                                                       

18 Il Grande terremoto di Kobe è stato un violento terremoto di magnitudo 7.3 che colpì il Giappone, e in particolare la città di Kobe il 17 gennaio 1995. Fece 6.434 morti e circa 300.000 sfollati.

19 Setta religiosa nata in Giappone, e rimasta poi indelebilmente associata alla stage nella metropolitana di Tokyo. Nel 1995 contava circa 9.000 membri in Giappone e 40.000 nel resto del mondo.

Già a partire dalla fine degli anni Ottanta era evidente che la popolazione giapponese si trovasse in calo demografico: molti giovani si sposavano e figliavano sempre più tardi, e questo venne percepito come un grave problema sociale. Si parlò di “single parassiti” (parasaito shinguru), che preferivano vivere con i propri genitori piuttosto che crescere prendersi le proprie responsabilità. In particolare il discorso si concentrò sulle donne, che furono accusate di non attendere al loro dovere sociale, cioè quello di diventare “buone mogli e sagge madri”. Insieme alla questione dei parasaito shinguru, due altre parole incominciarono a circolare nei discorsi sulle nuove generazioni: furitaa e

hikikomori . La parole furitaa è l’unione di due parole di origine straniera, “free”

(dall’inglese “libero”) e “arbeiter” (dal tedesco “lavoratore”), e indica tutte quelle persone, generalmente giovani, che vivono di lavoretti part-time. La nascita di questa nuova categoria di lavoratori non fu di per sé dannosa per l’economia giapponese, ma divenne oggetto di discussione perché rispecchiava un cambio radicale con la concezione tradizionale di lavoro. L’ideale di esistenza per l’uomo nella società giapponese definisce una vita stabile nel lavoro e nella famiglia, quindi il furitaa, con il suo vivere di espedienti, venne reso un problema perché rappresentazione di un modo di vivere che si scontra con il modello tradizionale.

Hikikomori, invece, è un termine usato per riferirsi a tutti coloro che scelgono di

ritirarsi dalla vita sociale, spesso ricercando negli estremi di isolamento e confinamento. Si tratta di un fenomeno molto complesso, quasi sempre ascrivibile a diverse cause, come il bullismo scolastico o l’incapacità di diventare adulti e inserirsi nel mondo sociale, e che colpisce nella maggior parte dei casi i giovani fino ai trent’anni. Gli hikikomori rappresentano ancora oggi un problema grave della società giapponese, spesso associati al fenomeno dei parasaitu

shinguru (Leheny 2006).

Contemporaneamente, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni del nuovo millennio, il Giappone venne bombardato da una serie di notizie che trattavano

di omicidi commessi da giovani ragazzi. Quando nel maggio del 1995 il Giappone firmò la ratificazione dei diritti del bambino scritta dalle Nazioni Unite, il Ministero della Difesa e l’Agenzia della Polizia Nazionale proposero dei sostanziali cambiamenti alla legge, riportando la loro preoccupazione per i crimini giovanili (Leheny 2006). Ad infiammare ancora di più la situazione nel 1997 a Kobe, un ragazzo di quattordici anni venne arrestato per l’omicidio di un suo coetaneo e per degli attacchi a quattro ragazze del posto, uno dei quali avevano portato alla morte di una delle giovani. La vicenda, che rimase alla cronaca come “Il caso di Sekakiban Seito”, pseudonimo con cui si firmò l’omicida, fu un caso isolato, ma al tempo i media incominciarono a trasmettere molte notizie di giovani criminali e del loro consumo di droghe stimolanti(Leheny 2006). Le ragazze ebbero in particolare un ruolo importante nella descrizione di questo fenomeno. In particolare il tema principale si concentrò sul crescente fenomeno di prostituzione giovanile enjo kōsai, e specialmente su coloro che ne erano ritenute le responsabili principali: le kogyaru (Leheny 2006). Con il loro stile estremamente distinguibile, queste ragazze divennero simbolo del materialismo e della corruttibilità della loro generazione. Ovviamente nessuno le accusò mai di avere compiuto crimini come quello dell’omicidio di Kobe, ma vennero principalmente additate come l’archetipo di una generazione ossessionata dalla moda e dalla superficialità.

Nel Giappone degli anni Novanta, i giovani diventarono loro malgrado il simbolo di un’ansia generale che colpì il paese. Nel film di Fukasaku Kenji “Battle

Royale”(Fukasaku 2000), si descrive un futuro prossimo in cui la delinquenza

giovanile è un problema così forte che il governo acconsente al passaggio di una legge che permette di mandare annualmente ragazzi di una classe della scuola media su un’isola deserta, dove questi dovranno uccidersi fino all’ultimo tra di loro nell’arco di tre giorni. Quando la pellicola venne fatto uscire nel 2000 nelle sale, l’allora ministro dell’educazione cercò di bloccarne la proiezioni, e dopo

diverse polemiche il film venne proibito ai minori di quindici anni: molti politici si scagliarono contro il regista, dichiarando che istigava alla violenza giovanile (Watts 2000). Lui respinse le accuse svelando che, al contrario, era l’immagine del Giappone impaurito dagli omicidi commessi da adolescenti che aveva ispirato il film stesso.

Molti dei problemi che riguardano i giovani giapponesi sembrano essere in effetti delle forzature create da una paura condivisa per il futuro del paese, ma è evidente che queste preoccupazioni non possano essere stata create dal nulla. In Giappone certamente esiste una parte di giovani che ha notevoli difficoltà, come gli hikikomori, che è in conflitto con il vecchio modo di concepire la società, come i furitaa. Tuttavia, indipendentemente dalla gravità delle azioni che sono o meno attribuite i giovani, un’idea comune pervade tra gli adulti: le nuove generazioni non sono in grado di portare avanti quel lavoro che ha portato alla formazione del Giappone come potenza economica. Il modello perseguito fino ad si trova in un momento di crisi, e le vecchie generazioni, che lo hanno creato e sostenuto, temono che i loro sforzi per rendere la società migliore possano svanire. Il miracoloso progresso compiuto dalla fine della guerra ha richiesto l’abnegazione totale al lavoro e alla fatica di intere generazioni di persone, che hanno in questo modo creato un ordine sociale stabile e duraturo. Esiste dunque in Giappone un forte gap generazionale, che ha portato ad un allarmismo, in parte giustificato, in parte fortemente esagerato, che vede i giovani irresponsabili e potenzialmente in grado di mettere a rischio se stessi e la nazione.

L’IMMAGINE  DELLO  STUDENTE  IN  UNIFORME    

Parallelamente alla preoccupazione sulla scarsa moralità delle giovani generazioni, gli adulti hanno molte aspettative sui giovani e queste incominciano

con la scolarizzazione. Come già accennato, lo studente in uniforme percepisce il giudizio degli altri e le aspettative riposte su di sé, quello che è stato definito come “gakusei-rashisa”, l’agire coerentemente con il proprio ruolo di studente (McVeigh 2000). La vita scolastica impone allo studente di presentarsi nel modo migliore e questo include anche l’uso di un abbigliamento corretto: il gruppo diventa un palcoscenico dove tutti interpretano un ruolo. Questo ruolo, tuttavia, deve essere mantenuto anche verso la società esterna; in quanto rappresentanti di un’istituzione, i ragazzi sono obbligati a conservare un atteggiamento che è consono alla reputazione della e contravvenirvi significa mettere sotto una cattiva luce anche l’istituzione stessa. Le scuole possono essere molto sensibili riguardo al modo in cui vogliono essere percepite: Una scuola pubblica nel 1996 ritirò dei poster durante il festival studentesco perché ritraevano una ragazza con i capelli tinti castani e lo smalto blu, dicendo che questo avrebbe danneggiato l’immagine della scuola (Isobe and Eguchi 1996).

La maggior parte degli adulti sono favorevoli all’uso delle uniformi scolastiche. In un sondaggio condotto su un sito a 1255 persone sopra i vent’anni l’89,6% delle persone erano favorevoli all’uso dell’uniforme . Le motivazioni principali erano le stesse espresse fino ad ora: le divise sono pratiche perché fanno sì che non si debba decidere ogni giorno cosa indossare, sono economiche e “appaiono coerenti con il ruolo di studente” (gakusei rashiku mieru). Ancora una volta, quindi, il giudizio viene posto sul fatto che indossare un’uniforme è fondamentale nel definire lo studente stesso. Tuttavia, le motivazioni che spingono gli adulti ad accettare e apprezzare l’uso dell’uniforme nelle giovani generazioni sono molto più complesse di quelle eminentemente pratiche e spaziano in diversi ambiti, dalla psicologia, ad esempio le reminiscenze e i ricordi, all’ambito sociale come la necessità di conservare un ordine sociale. Sfortunatamente la letteratura in questo senso è molto limitata, perché ci si è sempre concentrati sulla prospettiva dello studente che è il diretto interessato nel

problema delle uniformi. Una cosa però è certa: la divisa studentesca, e in particolare quella femminile, segna la rappresentazione tipica dei giovani d’oggi, rimanendo un elemento consolidato nell’immaginario collettivo giapponese. A questo concetto fondamentale, va contrapposto un atteggiamento sempre più consolidato di timore per i giovani, che vengono visti come una generazione persa e senza speranze. Probabilmente la storia ci dirà il contrario, ma nel tempo presente questo dato costituisce un elemento base per la comprensione non solo dell’adolescente, ma anche delle forme di ribellione che gli appartengono.

Note

Bakthin, M. 1984. "Introduction to Rebelais and His World." in Rebelais and His

World. Bloomington: Indiana University Press.

Berger, P; Luckmann, T. 1966. La realtà come costruzione sociale. Bologna: Il Mulino. Blakeslee, S. 2012. "Mind Games: Sometimes a White Coat Isn’t Just a White

Coat." New York Times.

Fukasaku, K. 2000. "Batoru Rowaiaru." Giappone.

Fukumura, M. 1994. "Kōkōsei no seifuku ni tai suru ishiki to gakkōkyōiku to no kanrensei ni tsuite." Pp. 123-30: Oita Prefectural College of Art and Culture. Ikeda, Y., K. Amaki, and Y. Oki. 1992. "Seifuku ni kan suru kenkyū: kōkōsei no

seifuku ni tai suru imēji to jikogainen no kanrensei." Pp. 97-105 in Iwate

daigaku kyōikugakubu kenkyū nenpō.

Isobe, Y., and C. Eguchi. 1996. "Gakkō seifuku ni kansuru kenkyū- dai IV hō: seifuku yō nunoji oyobi fuzokuhin no shōji seino." Journal of the Faculty of

Education Saga University 43(2):83-94.

Leheny, D. 2006. Think Global, Fear Local. New York: Cornell University Press. McVeigh, B. 2000. Wearing Ideology. New York: Berg.

Watts, J. 2000. "Gory film fuels Japanese fear over youth violence." in The

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