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L'uniforme scolastica femminile in Giappone tra conformismo e trasgressione

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Academic year: 2021

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Università Ca’ Foscari Venezia

Corso di Laurea magistrale in Lingue e

Civiltà dell’Asia e dell’Africa Mediterranea

Tesi di Laurea

L’uniforme scolastica femminile

in

Giappone tra conformismo e

trasgressione

Relatrice

Ch. Prof.ssa Maria Roberta Novielli

Correlatrice

Ch. Prof.ssa Paola Scrolavezza

Laureanda

Chiara Silini

Matricola 826608

Anno Accademico

2013 / 2014

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要 旨

 

制服は全体の世界社会の中で大切な役割がある。制服はいろいろな点から魅力的 な服装である。社会の中で、多くの場合では、服を着るのは制服を着るという意 味になる。そのために制服をわかるのは社会をわかるのと同じだと考えられる。 社会の中で2つの形態がある。一つは公式見解であり、二つは非公式見解である 。公式見解によれば制服は命令、規律、コントロールなどを示唆する。反対に、 非公式見解によれば、制服はファッション、エロ世界などを示唆する。 日本の女子学生制服はその二つの傾向の一番いい例である考えられる。学生制服 は学校制度のシンボルとして、フォーマルな服装である。しかし、大衆文化的に なると、新しい意味を持つようになることがよく見られる。このようにして、女 子学生制服はかわいいカルチャー、サブカルチャー、エロ世界などにも使えるよ うになった。それはなぜか。この卒業論文はその問題に答えを見つけることを目 的としている。 アイディアは大学の2年生のときに出た。そのときはファッションの世界に夢中 になった。熱心な気持ちから、独学者で服に関する勉強をはじめた。習ったこと を実際に使いたいと思っていたので、どのように卒業論文にも入れられるか考え 始めた。考えれば考えるほど、突然新しいアイディアがひらめいた。制服だった 。日本にはたくさんの制服があり、日本の社会にとって制服は大切な役割がある 。制服はファッションの研究の問題だけではなく、主に社会学の問題である。5 年生でノヴィエッリ先生とはじめて相談した。そのときには、先生からアドバイ スを頂いた。制服のアイディアはよいが、もっと具体的なテーマを選ぶ必要があ ると言われた。その時に、明治時代の日本における洋服の採用に関する本を先生 に勧められた。本では学生制服の採用についてもよく説明があった。その時まで

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私は学生制服を理解する必要ないと考えていた。しかし、私の期待に反して、女 子学生制服が卒業論文のテーマになった。去年の2月から5月までインターシッ プをするために東京に旅行した。そのときには、国立国会図書館で資料を探した 。何を探すか知らなかったので、研究は思っていたより少し難しかった。それに もかかわらず、イタリアに帰るまでに見つけた資料がたくさんあった。なので、 イタリアに帰った後で卒業論文を書いた。 卒業論文を書くために使った文献すべて東京の国立国会図書館とインターネット で集めた書類である。大衆文化の具体的な例として、マルチメディアも(映画、 マンガなど)使った。 最後的に卒業論文のファイルは6章になり、いろいろな点から日本の女性学生制 服を論じている。 第1章では、制服の概念を論じる。様々な制服を使いの観点から分類した後、一 般的な学生制服に関して説明する。 第2章では明治時代の洋服の採用について書いた。明治維新の社会的変革の中で 、まず官公史、軍人、学生の順で新しい制服が定められた。しかし、女子学生制 服が普及するまでに40年の月日を費やした。それまで、女子制服の形動は複雑 に変化した。 第3章ではまず学生の制服に対するイメージと自分概念の関連性について説明す る。また、大人の学生と若者のイメージに関しても説明する。 第4・5・6章に女子学生制服に非公式見解を論じる。 第4章ではかわいいカルチャーの関係について書いた。かわいさの概念からはじ め、女子学生制服とどのような関係があるかを説明する。60年代に青年期のカ テゴリーが始まった。その当時、女子の中でかわいさのモダンな概念が生きてお り、かわいいカルチャーの始まりだった。男性は同じ概念を持ち、かわいいカル

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チャーに新しくエロチックな意味をつけた。女子学生制服もそのファンタジーの 部分になった。 第5章では日本の若者のサブカルチャーの学生制服の使い方について書いた。制 服は公式な服装である。しかし、同じ制服はサブカルチャーから採用されると、 意味が変わり、「セミユニフォーム」ということになる。日本の女子学生制服で はスケバンとコギャルのケースは重要な例である。とくに、コギャルの歴史と社 会に与えた影響の大切から始め、女子学生制服はどのような役割があったのかを 論じる。 最後に、第6章ではエロチック世界で女子学生制服の問題を論じる。とくに、か つとり雑誌から現代のマンガとアニメまでの具体的な例を挙げ、なぜ女子学生制 服がエロチックなシンボルになったか説明する。 この卒業論文をはじめたときに、私が期待に脳をふくらませた。結果はおよそ予 想していたことと違っていない。できる限り革新的な卒業論文を書きたかった。 書き方のプロセルは思ったほど難解である。少しの文献あったが、勉強したこと と一緒につけるのは難しかった。書くときにも時々疑問を抱いたが、最後まで懸 命に書きつづけた。結果に満足できる。この卒業論文は私の興味とパーソナリテ ィーを示している。

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SOMMARIO  

要 旨   3  

CAPITOLO  1   9  

LE  UNIFORMI  E  LA  LORO  FUNZIONE  NELLA  SOCIETÀ   9  

LE  UNIFORMI   9  

LE  UNIFORMI  SCOLASTICHE   17  

CAPITOLO  2   22  

BREVE  STORIA  DEL  COSTUME  E  DELLE  DIVISE  SCOLASTICHE  IN  GIAPPONE   22   L’INTRODUZIONE  DEL  VESTITO  MILITARE  E  SCOLASTICO   22  

L’EVOLUZIONE  DEL  VESTITO  OCCIDENTALE  FEMMINILE  IN  GIAPPONE   24  

L’INTRODUZIONE  DELLE  DIVISE  SCOLASTICHE  E  LE  UNIFORMI  FEMMINILI   28  

LE  UNIFORMI  OGGI   36  

CAPITOLO  3   39  

L’UNIFORME,  IL  SÉ  E  GLI  ALTRI.   39  

LA  RAPPRESENTAZIONE  DEL  SÉ  TRAMITE  L’UNIFORME.   39  

LE  OPINIONI  DEGLI  STUDENTI  SULLE  DIVISE   43  

LA  PERCEZIONE  DELLO  STUDENTE  DA  PARTE  DELL’ADULTO   46  

LA  VISIONE  DEI  GIOVANI   46  

L’IMMAGINE  DELLO  STUDENTE  IN  UNIFORME   49  

CAPITOLO  4   52  

SUPER  KAWAII   52  

IL  KAWAII   52  

L’UNIFORME  SCOLASTICA  FEMMINILE  E  IL  KAWAII   56  

CAPITOLO  5   63  

CATTIVE  RAGAZZE  IN  UNIFORME:  LA  MODIFICA  DELLE  DIVISE  COME  MEZZO  DI  RIBELLIONE   63  

LE  SUKEBAN   63  

LE  KOGYARU   65  

ORIGINI  E  DEFINIZIONI   65  

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IL  RUOLO  DELLE  KOGYARU  COME  TRENDSETTERS   71  

L’UNIFORME  KOGYARU   73  

CAPITOLO  6   77  

SESSUALITÀ  E  TRASGRESSIONE:  IL  GIAPPONE  E  IL  FETISH  DELLA  STUDENTESSA  IN  UNIFORME

  77  

I  KASUTORI  E  L’ORIGINE  DELLE  TEMATICHE   78  

LA  NASCITA  E  LO  SVILUPPO  DEL  LOLITA  COMPLEX   79  

IL  CASO  DI  SAILOR  MOON   87  

DUE  RAPPRESENTAZIONI  OPPOSTE  DI  ENJO  KŌSAI   90  

PERCHÉ  L’UNIFORME  SCOLASTICA?   95  

CONCLUSIONI   98  

GLOSSARIO   102  

BIGLIOGRAFIA   104  

RIFERIMENTI  IMMAGINI   107  

(9)

C

APITOLO  

1  

L

E  UNIFORMI  E  LA  LORO  FUNZIONE  NELLA  SOCIETÀ

 

LE  UNIFORMI

 

Le uniformi sono una delle espressioni più complesse della nostra società. Nel suo romanzo “Sartus Resartus” del 1831 il filosofo scozzese Thomas Carlyle scrive: “Ciò che mi colpisce di più è come la società sia basata sul vestirsi (Carlyle 1831). L’abbigliare è oggigiorno un fatto del tutto personale, uno strumento attraverso cui testimoniamo agli altri il modo in cui vogliamo essere percepiti. Tuttavia, quando i vestiti diventano obbligatori e soggetti a norme, essi assumono un ruolo sociale. E’ il caso delle uniformi che rappresentano un simbolo di status o di stigmatizzazione, e necessitano di essere prese sul serio, perché hanno rilevanti implicazioni sociali: suggeriscono proibizione e virtù, specializzazioni, affidabilità, coraggio e obbedienza, pulizia e igiene (Fussell 2002).

Nel libro “La realtà come costruzione sociale”, Berger e Luckmann teorizzano una concezione della realtà come frutto di un processo dialettico continuo tra uomo e società, quest’ultima intesa come prodotto creato dall’uomo (Berger 1966). Gli autori partono dal presupposto di un uomo essenzialmente abitudinario, le cui attività sono caratterizzate dalla consuetudine e dalla necessita di ordine, direzione e stabilità. La routinizzazione della vita comporta degli importanti vantaggi: limita le scelte, riduce la possibilità di errore e consente di non dover ridiscutere ogni decisione. Ripetere costantemente le stesse azioni porta progressivamente alla nascita di “modi di agire”, cioè di azioni standardizzate nel contesto di specifiche situazioni. In un ambito sociale, queste costituiscono la base di ciò che Berger e Luckmann definiscono come

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istituzione, termine che definisce qualunque società o corpo sociale normalizzato in cui azioni condivise da più persone vengono tipizzate, cioè ridotte ad un modello, un carattere accessibile a tutti i membri della società. L’istituzione è un potere perché astrae i singoli dai loro comportamenti soggettivi e li indirizza verso uno schema di condotta comune. Questi corpi sociali tendono perdurare nel tempo, a patto che siano in grado di rinnovarsi rispetto ai cambiamenti storici e sociali, perché nascono come prodotto della evoluzione stessa della società che li ha prodotti.

Si suppone che le istituzioni esistano da molto tempo in tutte le società: chi nasce all’interno di una società percepisce l’istituzione come una realtà oggettiva, reale, che precede la sua esistenza e segue la sua morte. Essa ha un potere coercitivo, che si manifesta da una parte tramite la sua stessa autorità, dall’altra attraverso i suoi meccanismi di controllo. L’istituzione, segnalando norme di condotta idonee a specifiche situazioni, svolge anche una funzione educativa. A seconda dell’importanza, diffusione e complessità di certi comportamenti, una particolare comunità, può sentire la necessità di riaffermarli tramite dei simboli, la cui presenza è tutt’intorno a noi. La divisa è uno dei simboli per eccellenza delle istituzioni. E’ un abito uguale per tutte le persone che svolgono una particolare funzione sociale, ne è un simbolo e ne rafforza quindi il potere e l’autorità.

Le uniformi nascono dalle più generali pratiche vestimentarie delle prime società, prime fra tutte le leggi suntuarie, che furono create con lo scopo di reprimere gli eccessi e decodificare i codici di abbigliamento (Craik 2005). A mano a mano che le leggi suntuarie hanno modificato i modi di vestire nei diversi strati della popolazione, si sono differenziati diversi tipi di abbigliamento, e ciò ha fornito la base razionale all’introduzione delle divise nella società. La divisa ha una funzione fondamentale di identificazione: ogni istituzione, infatti, è integrata nella vita individuale attraverso la creazione di un ruolo. L’assegnazione del ruolo sociale ad un individuo fa sì che il mondo

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acquisisca per lui un valore reale, perché vi si identifica “nella veste” di partecipante (Craik 2005). Le funzioni dell’uomo nella società rappresentano l’ordine istituzionale e la sua sopravvivenza.

L’uniforme svolge anche una seconda funzione fondamentale, che è quella della

conformazione: tutti coloro che indossano una divisa possono identificarsi tra di

loro come appartenenti alla stessa istituzione, mantenere la propria identità e controllarla e plasmarla sulla base delle esigenze del proprio ruolo (Berger 1966). L’indossare la divisa prevede l’apprendimento di “tecniche corporee” specifiche (Craik 2005). Con tale l’espressione si definisce in generale tutto ciò che il corpo umano può fare e apprendere per fare fronte a disparate situazioni. Mauss inaugurò lo studio delle tecniche del corpo nel 1936, ed estese il concetto all’insieme di tecniche che diverse società e tradizioni hanno messo in atto nel corso del tempo per addestrare in corpo umano a modi di agire, gesti e consuetudini propri della loro cultura (Mauss 1973).

Indossare la divisa comporta anche l’apprendimento di codici specifici: le regole riguardanti le divise sono spesso rigide e minuziose, e la loro trasgressione comporta una punizione. E’ evidente che le divise sono il modo migliore per riaffermare l’autorità dell’istituzione scuola, di giustificarne le norme e di imprimere un significato alle azioni imposte agli attori sociali. L’uso diventa quindi un fatto naturale, e la trasgressione stessa prevede la coscienza delle norme (Iku 1980).

Possiamo distinguere cinque categorie principali di divise distinte in base alle loro funzioni:

1. Divise per la distinzione delle classi sociali. Rientrano in questa categoria anche tutte quelle restrizioni e leggi adottate nel corso dei secoli e in diverse culture per la distinzione - e talvolta discriminazione - di specifiche classi sociali, quindi anche le leggi suntuarie1. Queste, pur                                                                                                                                        

1Le leggi suntuarie sono leggi volte alla limitazione delle spese del lusso, che emersero in diverse civiltà in tutto il

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non mirando all’omologazione completa, hanno portato a delle limitazioni all’uso di certi capi a specifiche classi sociali ed hanno imposto codici di abbigliamento che si avvicinano a delle divise vere e proprie. Ad esempio, con l’introduzione della cultura cinese in Giappone, avvenuta gradualmente nel periodo Yayoi (IV-III sec. a.C., III-IV sec. d.C.), furono introdotti copricapi di colori diversi a seconda dei funzionari: blu, rosso, giallo, bianco e nero indicavano il loro grado. Esistevano poi vestiti formali per funzionari, uomini e donne, vestiti da giorno e da cerimonia. Per gli uomini il vestito quotidiano rimaneva simile a quello formale, con l’aggiunta un cappello nero (tokin), una sottoveste gialla e un laccio attorno alla coscia (yōdai). Le calze bianche e le scarpe di pelle venivano sostituite nella vita quotidiana da sandali (tabi) di paglia. Non rimangono testimonianze dell’abbigliamento dei funzionari femminili, ma si pensa che fosse molto simile (Iku 1980). Un altro esempio di leggi suntuarie sono quelle introdotte a partire dal 1617, anno in cui venne riorganizzato il sistema feudale mibun, che prevedeva la distinzione tra daimyō (proprietari terrieri o grandi vassalli) e samurai (militari), contadini, artigiani e mercanti . Per la limitazione del potere dei chōnin, la classe dei mercanti, il cui potere era aumentato segnando la caduta dei samurai, vennero emanate diverse leggi suntuarie. I chōnin vedevano negli abiti uno strumento per ridefinire la propria posizione sociale, diventando arbitri delle mode e del gusto. In particolare, la seta divenne simbolo dei chōnin in ascesa economica. Le leggi suntuarie cercavano di delimitare, almeno da un punto di vista esteriore, le differenze tra le diverse classi mibun, ma ebbero scarso successo perché i chōnin si assunsero solo uno stile dimesso (iki), ma senza rinunciare all’uso di tessuti pregiati (Ikegami 2005). Le uniformi per la distinzione delle classi sociali si intrecciano spesso nei significati alle uniformi stigmatizzanti (vedi punto cinque).

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2. Divise per la vita religiosa, l’amministrazione pubblica e l’istruzione. Queste divise non hanno alcuna relazione con lo status sociale, ma acquistano un valore importante nella identificazione di un ruolo. Per esempio il kesa (in sanscrito kasaya), tipica divisa monastica nel Buddhismo, si ispira in origine nella sua forma al vestito indossato dal Buddha Shakyamuni: un semplice pezzo di stoffa color ocra che lascia scoperta la spalla destra, molto simile alla toga romana. Nella corrente Sōtō Zen2 questa tunica

viene stretta con una corda o una fune in vita. Il colore dalla kesa varia a seconda del grado e delle funzioni del monaco (Wijayaratna 1990). Il novizio indossa il colore nero, come simbolo della caducità del mondo terreno e della possibilità di poter uscire dalla condizione di illusione e

incertezza del Samsara3. Una volta ordinati i monaci indossano una veste

gialla, che simboleggia la veste indossata da Buddha e dai primi buddhisti. Il colore viola è riservato ai religiosi più importanti e deriva probabilmente dalla tradizione imperiale di donare tessuti viola, un colore molto prezioso, come segno di riconoscimento, Nel Sōtō Zen giapponese il viola corrisponde al grado di “maestro” (sensei). Esso esprime la speranza di accumulare buone azioni nel mondo terreno utili in punto di morte a garanzia di rinascita nella Terra Pura. Il maestro principale indossa invece una kesa rossa, mentre vesti di altri colori come l’oro possono essere usate in occasioni speciali. Altro simbolo importante insieme al kesa è la tonsura, simbolo dell’entrata nel noviziato prima e nell’ordine poi (Wijayaratna 1990).

3. Uniformi lavorative. La loro origine può essere considerata antica tanto

                                                                                                                                       

2 Il Sōtō-shū è una delle due maggiori scuole giapponesi del Buddhismo Zen, fondata dal monaco Dōgen nel

1227.

3 Nel Buddhismo il Samsāra è il ciclo di reincarnazioni al quale tutti gli esseri senzienti sono sottoposti fino

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quanto la nascita delle professioni stesse e deriva dalla necessità di capire a chi rivolgersi per la risoluzione di un problema specifico. In ogni società quando si produce di più di quanto si consuma, si crea un surplus economico: il surplus è la base per lo sviluppo della società, perché consente ad alcune persone di distaccarsi dal lavoro di campi per dedicarsi ad altri mestieri. La nascita della distinzione dei ruoli, e lo sviluppo di questi ruoli in professioni, si evolve quindi di pari passo con la nascita di un sistema economico più avanzato (Berger, Luckmann 1966). Lo sviluppo di nuove specializzazioni si sviluppa parallelamente alla necessità si saperle distinguere, quindi nascono le uniformi lavorative. Un caso interessante in Giappone è quello dei lavoratori dei trasporti pubblici, la cui divisa può essere definita come “quasi- militarizzata”, cioè ispirata alle divise militari, ma costruita in modo da non incutere troppa soggezione e dare un’apparenza più rilassata alla persona che la indossa (McVeigh 2000). I lavoratori che la portano svolgono compiti legati alla sicurezza, che vanno ad aggiungersi a quelli di ufficio e di personale ferroviario, e posizionano questa categoria in una posizione speciale all’interno del sistema di classi socio-economiche.

Un’altra particolarità della divisa dei lavoratori dei trasporti pubblici consiste nella coesistenza di elementi mutuati dalle divise dei colletti bianchi (lavoratori intellettuali) ed elementi delle divise tipiche dei colletti blu (lavoratori manuali): infatti, pur indossando un completo con la cravatta e la camicia bianca, vestono occasionalmente una maglietta blu sotto la tenuta che si adopera in lavori più manuali. L’evoluzione di alcune di queste divise evidenzia queste caratteristiche contrastanti. Ad esempio, le uniformi della odierna Tokyo Metro4, l’azienda che controlla le

principali reti di trasporto della metropolitana della capitale, adotta la sua prima uniforme con la sua nascita nel 1941, quando ancora il nome della

                                                                                                                                       

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compagnia era Tokyo Rapid Transit Autority, ispirandola alla divisa

Itarian buru (blu italiano), un completo blu con dettagli dorati. Nel periodo

1950-1972, alla divisa viene aggiunta una cravatta, molti dettagli oro scompaiono, ma appaiono i bottoni oro con una “S” incisa sopra. Tra il 1972 e il 1984 l’uniforme diventa grigia con una cravatta color vermiglio con l’intento di fornire un’immagine più vivace della metropolitana. Dal 1991 la divisa ritorna blu, per cambiare al color oliva in tempi più recenti ed i tessuti si fanno più morbidi per agevolare i movimenti (McVeigh 2000). E’ quindi difficile definire i lavoratori dei trasporti pubblici entro una categoria particolare, che sia polizia, colletti bianchi o blu: la compresenza di diversi ruoli si ritrova nella divisa, e quest’ultima influenza la percezione del lavoro da parte dei dipendenti stessi, le cui mansioni includono lo spingere le persone dentro le carrozze in orari di punta, vigilare sulla sicurezza, aiutare le persone a sbrigare faccende legate a biglietti e abbonamenti.

Le diverse forme del lavoro cambiano quindi la percezione che i lavoratori hanno del proprio ruolo. Se infatti il significato apparente della divisa lavorativa è il riconoscimento, questa in realtà diventa rappresentazione della funzione e rende il corpo stesso un’estensione dell’uniforme: indossare i panni del mestiere rende più vicini al lavoro che si svolge (Craik 2005). Così è comune osservare in metropolitana a Tokyo giovani salary

man5 vestiti di tutto punto con completo gessato blu, scarpe e borsa tirate a

lucido. Ci si chiede il perché di tutta quella cura, ma la risposta è semplice: i giovani, sentendo la pressione di dover dimostrare la propria bravura in ufficio si nascondono dietro questa divisa, che consente loro di darsi un’apparenza di “bravi impiegati”. Questo concetto può essere esteso in maniera più estesa a tutte le uniformi.

4. Divise sportive. Sono dei sottoinsiemi del più generale abbigliamento sportivo,

                                                                                                                                       

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cioè degli abiti indossati al fine di praticare un’attività sportiva, distinti dallo

sportswear, cioè i vestiti casual e di moda che prendono ispirazione

dall’abbigliamento sportivo. Le divise sportive derivano dalla fusione di elementi appartenenti all’abbigliamento specializzato e alle divise , e si sono sviluppate come uniformi solo nel tempo (Craik 2005). Un parallelo può essere tracciato con le tenute da caccia (Galloni 2000): nel Medioevo i nobili incominciarono a praticare la caccia come passatempo, distinguendosi dalle classi sociali meno abbienti che la praticavano per il sostentamento. La trasformazione della caccia in attività ricreativa fece sì che gli oggetti usati, come ad esempio le armi, sviluppassero elementi personalizzati (ad esempio elementi di design quali impugnature particolari o materiali specifici), affermatisi prima come mode e poi standardizzati in vere e proprie tenuta da caccia. Lo sviluppo dell’abbigliamento sportivo è stato anche influenzato dall’evoluzione nel tempo di principi di ordine morale in particolare per quanto riguarda il corpo femminile (Craik 2005). Se per gli uomini gli ideali di mascolinità hanno facilmente seguito l’evoluzione del costume (e quindi anche dell’abbigliamento sportivo), nel caso delle donne la paura di una perdita di moralità dei costumi ha sempre generato discussioni che si sono frapposte ai cambiamenti. Il tema più controverso ha riguardato i cosiddetti “indumenti biforcati”, cioè tutti i vestiti che mettevano in risalto gli organi sessuali femminili, come pantaloni, pantaloncini, calzamaglie, eccetera (Craik 2005). Le divise sportive hanno per contro fortemente influenzato la storia del costume, in particolare a partire dagli Anni Sessanta, quando la nascita della moda giovanile ha determinato uno stravolgimento nei codici vestimentari, con l’introduzione di materiali ed elementi ispirati all’abbigliamento sportivo, militare a dalle tenute lavorative, come ad esempio il jeans (Craik 2005).

5. Uniformi stigmatizzanti. Vi fanno parte tutte quelle uniformi che, al contrario delle altre, attribuiscono un significato negativo a chi le indossa.

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E’ il caso ad esempio delle uniformi usate durante il periodo Edo per distinguere i burakumin6 (Caroli 2004). In un feudo vicino all’odierna

regione di Okayama, ad esempio, i diversi feudatari cercarono di instillare nei contadini un senso di superiorità forte rispetto ai burakumin, ai quali venne imposto l’uso del kimono “shibuzome” o del simile “aizome” (cioè color sabbia o blu), venne proibito l’uso dell’ombrello e dei sandali geta. Erano anche obbligati a togliersi le calzature e di inchinarsi di fronte ai contadini in segno di rispetto (Ooms 1996). L’obiettivo di queste restrizioni era quello di limitare le resistenze dei burakumin al potere feudale dopo l’arrivo del Capitano Perry nel 1853. In particolare, si cercò di convogliare l’insofferenza dei contadini per le gravi imposizioni fiscali verso un dissenso per i burakumin (Ooms 1996). Le uniformi stigmatizzanti sono spesso legate alle leggi suntuarie.

A queste cinque classi di uniformi dalle prescrizioni formali, cioè normalizzate secondo regole precise, si devono inoltre aggiungere le semi-uniformi e le uniformi

informali (Craik 2005) Fanno parte della prima categoria i tipi di abbigliamento

che pur non imponendo uno schema normalizzato di vestiario, sono ritenuti come appropriati in determinati contesti, ad esempio il vestirsi ordinati sul posto di lavoro, o non indossare abiti troppo corti a scuola. Le uniformi informali indicano, invece, quei capi di vestiario le cui combinazioni si propongono di creare individualità e costruire un’identità “esclusiva” che però di fatto si adegua ad una moda (ad esempio “vestirsi punk”).

LE  UNIFORMI  SCOLASTICHE

 

Le uniformi scolastiche derivano tutte da due modelli di vestiario: l’abito talare,

                                                                                                                                       

6 I burakumin sono un gruppo sociale giapponese. Sono spesso discriminati per via dei loro

mestieri, come macellare le carni o conciare le pelli, che vengono considerati impuri dalla religione.

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che ha ispirato per esempio i “grembiuli” italiani, e le divise militari, come nel caso delle divise in uso nelle scuole giapponesi (Craik 2005).

Le prime divise scolastiche fecero la loro prima comparsa nelle scuole di beneficenza dell’Inghilterra del sedicesimo secolo, e furono regolate dalle famose Poor Laws del 1597 e 1601 (Craik 2005). Queste istituzioni, finanziate direttamente dalla parrocchie e ben lontane nei metodi di insegnamento dalle nostre scuole, fornivano agli studenti delle divise per questioni di risparmio economico e per renderli facilmente riconoscibili. Con l’avvento dell’industrializzazione, le scuole di carità vennero prese a modello anche per altre strutture educative, ma questa decisione non giovò alla scuola anglosassone, che peggiorò progressivamente di qualità, diventando in alcuni casi così pericolosa da spingere i genitori delle famiglie più abbienti a educare i figli a casa fino all’ingresso in università. Per rimediare all’anarchia che regnava in queste strutture e alle condizioni miserabili degli edifici, molte scuole decisero dunque di adottare delle uniformi, per dare un tono di maggiore serietà e disciplina (Craik 2005). Non si trattava però solo di una misura superficiale: venne ammodernato il sistema educativo e supervisionati maggiormente i comportamenti e i giochi, talvolta organizzandoli in sport formali. La divisa diventa elemento di distinzione per le scuole di prestigio, come per esempio Eton nel Berkshire, vicino Winsdor, o la Rugby School nel Warwickshire, dove venne inventato nel 1823 il gioco del rugby. Fu in particolare la divisa di Eton che si diffuse maggiormente nell’immaginario collettivo come simbolo delle scuole di prestigio.

Anche le scuole militari furono molto importanti per lo sviluppo delle uniformi scolastiche, perché rivisitarono molte delle loro divise per adulti, come per esempio il completo da marinaio con la cravatta, che ritroveremo successivamente nelle divise femminili in Giappone (Slade 2009). Tutte queste scuole nascevano come scuole maschili, in cui le uniformi erano simboli degli obiettivi di addestramento alla mascolinità e dei ruoli sociali da raggiungere: vivere in una certa scuola significava accettarne le regole, gli addestramenti e le aspirazioni da adulti. L’obiettivo di queste scuole era dunque quello di formare maschi forti in grado di assumere posizioni di controllo nella società. Non era lo

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stesso per le ragazze, la cui educazione all’interno delle scuole era spesso in contraddizione con le prospettive della vita adulta. Judith Okey, nell’ottavo capitolo del suo libro “Own and other culture”, intitolato Privileged, schooled and

finished: boarding education7 for girls, descrive il tipo di educazione proposto in

una boarding school femminile negli anni Cinquanta (Okely 1993). Non vi era apparente differenza rispetto all’educazione svolta in scuole maschili: le materie insegnate erano uguali, si praticavano attività sportive ma cambiava la relazione fra gli insegnamenti appresi ed il ruolo sociale. Nel caso delle ragazze, il modello della donna ideale negli anni Cinquanta era principalmente quello dell’“angelo del focolare”, cioè della donna come moglie e madre devota alla propria famiglia, la cui massima aspirazione consisteva nel matrimonio e nell’annullamento di se stesse per dare spazio a marito e figli. Ciò che veniva insegnato era quindi l’acquisizione di caratteristiche che rendessero questo ideale di donna possibile: autocontrollo, devozione, abnegazione. Non cambiavano gli concetti, ma i contesti in cui venivano applicati.

Ai fini dell’abbigliamento, è molto importante notare che l’espressione di questo modello di femminilità non era permessa all’interno delle mura scolastiche, un luogo di formazione dove uno degli obiettivi fondamentali era celare la femminilità delle ragazze per conservarne l’ideale di purezza e castità fino al matrimonio. Quest’idea, sostiene l’autrice, si esprime particolarmente nelle divise che correggevano e nascondevano il corpo femminile imponendo posture e squadrando le forme grazie all’inserimento di elementi presi in prestito dal guardaroba maschile. Ben diverse queste divise dagli abiti anni Cinquanta, larghi, vaporosi, limitanti nei movimenti, ma che mostrano bene le linee del corpo femminile. Sembra quasi che si voglia celare la natura femminile per poi rilasciarla tutta di un colpo, ma sempre e solo per gli occhi degli altri. Ovviamente le cose sono cambiate molto da allora: le ragazze sono parificate ai ragazzi non solo negli insegnamenti, ma anche nelle ambizioni a cui possono

                                                                                                                                       

7La boarding education indica l’istruzione all’interno delle cosiddette “boarding schools”, cioè quelle scuole private dove gli

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aspirare nelle loro vite e carriere. C’è tuttavia un elemento fondamentale che riguarda l’idea di celare il corpo femminile che è ancora presente nella nostra cultura e che costituisce uno degli elementi fondamentali da prendere in considerazione quando si analizza il fetish dell’uniforme, di cui si tratterà nei prossimi capitoli. Se infatti l’asessuazione del corpo femminile nasce dalla volontà di celare per un senso di morale e pudore, si trasforma in un elemento erotico facendo leva sul desiderio umano di volere ciò che non può avere e di immaginarlo per come sarebbe (Barthes, 1971). Asessuare il corpo permette non di distruggerlo, ma di sviarlo dal suo comune significato, nella consapevolezza che si tratta di un artificio, di un truccare qualcosa che non può essere totalmente eliminato e che pertanto esiste (Barthes 1971).

Tradizionalmente la divisa scolastica femminile in Giappone è sempre stata ispirata allo stile marinaio dei bambini, a sua volta derivato dalla divise militari della marina dell’Impero Britannico (Craik 2005). La prima persona che usò questa divisa per i propri bambini fu la regina Vittoria nel 1846: da allora si diffuse presso i bambini delle classi sociali più abbienti, come simbolo del legame della famiglia alla politica, quando ancora il Regno Unito era un impero e quindi la Marina Imperiale Britannica una delle istituzioni più rispettate al mondo (Craik 2005). Dall’Inghilterra la divisa si diffuse in tutta Europa: in “Morte a Venezia” di Thomas Mann, per esempio, il giovane polacco Tadzio, che nella storia ha dieci anni, indossa un completo da marinaretto (Mann 1912). Fu forse anche per via di questa strana associazione con i vestiti dei bambini che la divisa divenne un simbolo del feticismo.

L’ossessione per le divise femminili, la carica erotica che posseggono nascondendo il corpo femminile e la loro contrapposizione con il mondo infantile le rendono molto appetibili perché rispecchiano appieno il culto giapponese del

kawaii, cioè di tutto ciò che è carino, grazioso e necessita di attenzione e

protezione da parte degli altri (Kinsella 1995). Secondo Brian McVeigh, nel suo libro “Wearing Ideology” (McVeigh 2000), il kawaii può essere inteso come una

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forma di resistenza culturale rispetto al ruolo della donna e dell’uomo nella società; esso è presente quotidianamente nell’estetica giapponese, dove il maschio dominante si contrappone a un’ideale di donna “non umana, ma di ninfa” (Nabokov 1955).

Note

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Barthes, R. 1971. "Nascondere la donna." Pp. 111-13 in Sade, Fourier, Loyola Torino: Einaudi.

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Wijayaratna, Mohan. 1990. " Buddhist Monastic Life: According to the Texts of the Theravada Tradition." Pp. 32-55. Cambridge: Cambridge University Press.

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C

APITOLO  

2  

B

REVE  STORIA  DEL  COSTUME  E  DELLE  DIVISE  SCOLASTICHE  

IN  

G

IAPPONE

 

 

L’INTRODUZIONE  DEL  VESTITO  MILITARE  E  SCOLASTICO  

 

A seguito degli accordi di Kanagawa nel 1854 il Giappone tornò ad aprirsi dopo due secoli. Nel giro di pochi anni, di fronte alla crescente opposizione di un forte movimento favorevole alla modernizzazione, il governo Tokugawa, espressione dell’antica concezione feudale, cedette il potere all’imperatore Mutsuhito che fu incoronato nel 1868. Il periodo di grandi innovazioni che seguì prende il nome di “rivoluzione Meiji”. Tuttavia, se da un lato il Giappone perseguì l’internazionalizzazione definita in termini di sviluppo tecnologico e di espansione nei mercati mondiali, dall’altra parte rimase forte il desiderio di difendere le tradizioni. Questa ambivalenza è visibile in particolar modo se si analizza l’evoluzione del vestiario in questo periodo (Slade 2009). Risale a quegli anni l’introduzione del vestito occidentale che avvenne soprattutto per necessità politica e per scopi lavorativi e militari e fu quindi una scelta ben lungi

dall’essere culturale. L’internazionalizzazione del paese necessitava

l’omologazione ai paesi delle cui tecnologie il Giappone aveva bisogno. Il kimono, che con la sua forma destrutturava il corpo, appianando le differenze tra uomini e donne, e che rendeva i Giapponesi buffi agli occhi stranieri fu sostituito dalle uniformi militari che, con la loro vestibilità, permettevano l’esaltazione del fisico maschile, delle spalle e della massa muscolare.

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Nel 1860 venne imposta alla marina giapponese la divisa della marina imperiale britannica mentre all’esercito fu assegnato il modello di uniforme dell’esercito francese (Slade 2009). La scelta dell’abito francese non fu casuale. Secondo James Laver8 (Laver 1948), il successo di una certa uniforme in battaglia ne segna la sua

diffusione tra gli eserciti e nel 1868 le forze armate francesi erano le più forti d’Europa. Quando Napoleone III venne esiliato in Inghilterra, a seguito della sconfitta di Sedan, il Giappone adottò il modello di uniforme prussiano (Slade 2009). Già nel 1858 il clan Fukui9 aveva commissionato una traduzione di un

libro che aveva come argomento l’aspetto delle divise dell’esercito monarchico olandese (Slade 2009). Lo scopo era lo studio del loro aspetto estetico e del modo in cui avrebbe potuto essere riprodotto in Giappone. Anche al governo giapponese di epoca Meiji non interessava tanto lo studio delle tecniche belliche occidentali e il modo di poterle eventualmente reinventare, quanto l’imitazione dell’aspetto esteriore dell’esercito. La divisa doveva trasmettere timore e autorevolezza, e l’adozione delle uniformi occidentali fu l’emblema di un nuovo concetto di stato consolidato anche attraverso l’apparenza.

Nella società civile l’introduzione del vestito maschile in Giappone andò di pari passi con l’apertura verso il mondo esterno: il vestito occidentale, inizialmente legato solo al modo militare, fu oggetto ben presto amore e curiosità per ciò che

era considerato “esotico”. Fondamentale fu la costruzione del Rokumeikan 10

(Carlotto 2012), voluto dal ministro degli esteri Inoue Kaoru tra il 1884 e il 1889, uno spazio in cui l’élite urbana giapponese avrebbe potuto confrontarsi con esperti e dignitari stranieri, con lo scopo di favorire il confronto tra culture ed usanze nuove. Tutto richiamava l’Occidente: dalla struttura dell’edificio a due

                                                                                                                                       

8 James Laver (1899-1975) è stato un autore, critico d’arte, storico e curatore di musei presso il

Victoria and Albert Museum. E’ anche noto per essere uno dei pionieri della storia del costume.

9  Il feudo Fukui, controllato dall’omonimo clan, è stato un territorio presente in Giappone nel

periodo Edo. I feudi, in giapponese han, venivano gestiti da dei capi chiamati daimyo che giuravano fedeltà allo shogun.

10Il Rokumeikan era un grosso complesso a due piani costruito a Tokyo, che divenne simbolo

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piani progettato dall’architetto inglese, Josiah Conder11, al cibo francese, alle

sigarette inglesi, alla birra tedesca e i cocktail americani, tutto questo al fine di dimostrare al mondo esterno il progresso di civilizzazione e di internazionalizzazione raggiunto dal Giappone (Slade 2009). Nel periodo in cui il Rokumeikan fu in funzione, la concezione del corpo maschile venne completamente rinnovata, lasciando spazio ai vestiti occidentali, che, con la parallela acquisizione di adeguate tecniche sartoriali, vennero plasmati sui corpi degli uomini Meiji.

L’EVOLUZIONE  DEL  VESTITO  OCCIDENTALE  FEMMINILE  IN  GIAPPONE  

 

Una delle costanti più importanti nella storia della moda è la discrepanza tra la velocità di sviluppo delle innovazioni nel vestiario maschile e in quello femminile: se le nuove concezioni di mascolinità attraverso i secoli vanno di pari passo con l’espansione di nuove mode, alle donne non è concessa la stessa

fortuna (Craik 2005)

L’abbigliamento femminile ha sempre storie più controverse, legate alla rivelazione del corpo, alla

                                                                                                                                       

11 Josiah Conder (1852-1920) è stato un architetto inglese che lavorò come consulente straniero

durante il periodo Meiji.  

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sessualità, al ruolo sociale. In una nuova società in cui lo slogan imposto dallo stato diventava "wakon yōsai”, cioè “tecnologia occidentale, spirito giapponese” (Caroli 2004), se la parte del lavoro era affidata alla popolazione maschile, era evidente che alle donne sarebbe spettato il compito di custodi delle tradizioni. In questo periodo si contrapposero due figure femminili antitetiche: da una parte la

mōga, cioè “modern girl”(Figura 1), che rappresentava la fascinazione per le mode

occidentali e il tentativo di emancipazione sessuale, dall’altra la donna tradizionale, in kimono, rappresentata come “buona moglie, madre saggia” (ryō

sai kenbo), che avrebbe vegliato sulla casa e lottato per la difesa degli ideali

tradizionali (Slade 2009) Una motivazione usata a detrimento dell’abbigliamento occidentale tra le donne fu che le Giapponesi, minute e poco formose, non avrebbero potuto indossare, senza sembrare goffe, i vestiti occidentali di fine Ottocento che erano molto ampi. In effetti i vestiti occidentali erano poco adatti alle usanze delle donne Meiji, nondimeno questo argomento fu anche usato per impedire alle donne un ruolo attivo nei cambiamenti del periodo. La fine dell’Ottocento in Giappone segnò quindi una stagnazione nell’adozione del vestito femminile occidentale che durerà fino al primo periodo Taishō (1879-1826).

L’1 settembre 1923 il Giappone fu scosso da un grande terremoto, il “Grande terremoto del Kantō”, che contò circa centomila morti e tre milioni trecento mila feriti. Il disastro distrusse la maggior parte delle città di Tōkyō e Yokohama, e milioni di persone persero tutti i loro averi, compresi gli oggetti personali, che furono rimpiazzati con beni di provenienza straniera. I vestiti furono i maggiormente importati: la scarsa reperibilità dei materiali per i kimono e l’idea che potessero intralciare i movimenti tra le macerie convinse molte donne alla parziale sostituzione dell’abito tradizionale con quello occidentale (Slade 2009). Questo rappresentò il primo passaggio verso il mutamento del costume. Ciò che

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fino ad allora era stata una prerogativa di un gruppo ristretto di donne, incominciò ad incuriosire molte altre.

Il 16 dicembre 1932, a ridosso del Natale, il quarto piano dedicato ai giocattoli dei grandi magazzini Shirokiya, palazzo costruito dopo il terremoto di dieci anni prima, si incendiò. Delle quattordici vittime accertate, tutte donne, tredici morirono cadendo durante le operazioni di salvataggio poiché, nel tentativo di rimanere aggrappate con alle corde dei pompieri una sola mano per potere con l’altra tenere giù la gonna, persero l’equilibrio e precipitarono (Seidensticker 1990). La vicenda scosse molto il Giappone, ed ebbe molta eco sui giornali dell’epoca. Prima di questa tragedia non esisteva per le donne giapponesi la biancheria intima per come veniva intesa in Occidente: sotto il kimono era indossato solo il koshimaki, una sorta di gonnellino che copriva le cosce, ma lasciava parzialmente scoperte le parti intime. L’idea che qualcuno avesse potuto mettere in pericolo la propria vita pur di conservare il proprio pudore è piuttosto improbabile, e si pensa quindi che sia una leggenda metropolitana sviluppatasi a posteriori. Si crede, tuttavia, che fu proprio questa tragedia a metter in moto i cambiamenti che sarebbero avvenuti da lì a poco nel costume. L’incendio non fu una causa, quanto piuttosto un simbolo del mutamento. Già a partire dal periodo successivo al Grande terremoto del Kantō, la pubblicità suggeriva alle donne giapponesi di adottare biancheria occidentale, ma queste ancora sembravano restie all’idea. Uno dei veri snodi della questione fu l’introduzione dei monpe, i pantaloni da lavoro usati specialmente nelle campagne, sotto i quali il koshimaki non poteva essere indossato, e che venne quindi in parte sostituito da i zurōsu (dall’inglese drawers), culottes a gamba molto larga (Slade 2009). Dopo l’incendio queste pubblicità aumentarono, e negli anni Trenta l’uso della biancheria divenne una delle bandiere dal femminismo giapponese, e si diffuse rapidamente tra la popolazione. L’adozione della biancheria intima fu il primo grande passo verso la diffusione del vestito occidentale tra le Giapponesi. Ad

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esso vanno aggiunti i cambiamenti della popolazione in conseguenza del progresso economico. La struttura fisica dei giapponesi stava cambiando: nel 1900 la statura media per un uomo sui vent’anni era di centosessanta centimetri, per una donna di centoquarantotto, mentre nel 1940 era diventata di

centosessantacinque e centocinquantatré.12 Anche la moda occidentale femminile

si era evoluta: la rivoluzione portata avanti negli anni venti da Coco Chanel aveva trasformato il guardaroba femminile rendendolo pratico e più consono ad una vita attiva. Le industrie laniere si erano sviluppate tecnologicamente e questo aveva permesso una diminuzione del costo della lana, e l’assunzione di donne nelle fabbriche. I tessuti occidentali incominciarono a circolare in Giappone e furono impiegati nella creazione di vestiti in cui ancora venivano usati abiti tradizionali, come per esempio nelle campagne.

Lo sport, sia come attività ricreativa, che come abbigliamento sportivo, fu un’altra delle principali ragioni di cambiamento nella sartoria femminile nel periodo Taishō e nella cultura delle mōga (Slade 2009). In particolare si diffusero il tennis, il ciclismo e il nuoto. In un servizio dell’ ”Istituto Luce” trasmesso in Italia il 22 dicembre 1937 intitolato “L’emancipazione della donna giapponese” si dice: “La musume del Novecento, se ama tuttora rivestire in pittoreschi kimono fioriti, e

ripararsi all’ombra civettuola del parasole di carta, è anche praticamente amante di tutti gli sport, con la spiccata preferenza per gli esercizi ritmici collettivi all’aria aperta, e il nuoto” (B1221 1937). Anche se questo servizio risale già al periodo Shōwa

(1926-1989) in pieno nazionalismo, possiamo chiaramente evincere dai fotogrammi che durante attività sportive venivano indossati esclusivamente vestiti occidentali. Il governo di quel periodo vedeva nella mōga il futuro della nazione, un’immagine che non si discosta per nulla da quella descritta nel servizio sopracitato: una donna fisicamente attiva e atletica, ma legata all’immagine canonica della tradizione, cioè gentile, sorridente genuina e poco impegnata intellettualmente. Il

                                                                                                                                       

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nazionalismo aveva cancellato lo spirito di emancipazione e indipendenze delle prime mōga.

L’INTRODUZIONE  DELLE  DIVISE  SCOLASTICHE  E  LE  UNIFORMI  FEMMINILI

 

 

Dopo l’introduzione delle vesti militari, l’uniforme entrò a far parte del guardaroba studentesco giapponese. L’educazione Meiji era stata concepita dal Codice del sistema scolastico (Gakusei) del 1872 secondo valori di stampo liberale, che avevano lo scopo di far esaltare le qualità individuali dei singoli studenti (Carlotto 2012). Vi era una grande influenza occidentale, e molti stranieri vennero chiamati a formare una nuova generazione di educatori. Già nel 1879 la Scuola nobiliare (Gakushuin) aveva introdotto una divisa simile a quella degli ufficiali di marina, ma prima che le uniformi venissero introdotte anche nelle

altre scuole si sarebbe dovuto aspettare il 1884, quando Arinori Mori13, ministro

dell’istruzione giapponese tra il 1885 e il 1889, inserì le esercitazioni fisiche nei programmi didattici. La scelta di Mori fu quella di concepire l‘educazione in termini di una maggiore utilità per lo stato, ispirandosi nel suo modello a Herbert Spencer14, cioè all’idea dell’insegnamento come percorso in cui il

bambino accompagna alla crescita fisica l’acquisizione dei valori del vivere civile. Lo scopo ideale dell’educazione è di coltivare e migliorare quelle facoltà insite nell’uomo stesso e acquisite in seguito alla trasmissione ereditaria, cioè l’intelletto, la morale e la fisicità. Attraverso il processo di istruzione, il regime Meiji avrebbe dunque dovuto estendere la propria azione “civilizzatrice”, l’educazione dei giovani come “sudditi di potenza”(Carlotto 2012), guardando così all’avvenire del paese. Le esercitazioni militari erano un passo fondamentale per la formazione di questi ragazzi, perché attraverso le attività psicofisiche non

                                                                                                                                       

13 Arinori Mori (1847-1889) fu un diplomatico, ministro di gabinetto e educatore giapponese. 14 Herbert Spencer (1820-1903), filosofo britannico.

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solo si formava la disciplina individuale, ma anche la coesione di gruppo. Era evidente che per queste attività una divisa in stile occidentale era molto più pratica di vestiti tradizionali come haori15 e hakama16. La divisa scelta da Arinori

Mori fu praticamente uguale a quella dell’esercito prussiano, e fu adottata uguale su tutti i territori del Giappone, tranne per alcuni dettagli, come lo stile dei bottoni (Slade 2009).

L’evoluzione della divisa scolastica femminile in Giappone presenta uno schema di sviluppo del tutto simile a quello dell’introduzione dell’abbigliamento

occidentale nella moda femminile. Oscillante tra tradizione e

occidentalizzazione, le furono necessari quarant’anni perché si evolvesse fino a diventare il sēra fuku (letteralmente “vestito da marinaio”) (Slade 2009) (Figura 2). In una prima fase il Ministero dell’Educazione cercò di omologare le divise femminili a quelle maschili. Nel 1872 la Tōkyō Jogakko adottò per le sue allieve un modello maschile di uniforme, costituito da un kimono indossato con un paio

                                                                                                                                       

15  Accessorio per kimono maschile, soprabito che aggiunge formalità alla veste. Di lunghezza variabile, può arrivare alla coscia o al ginocchio.

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di hakama (Cambridge 2011). Questo tipo di pantalone, destinato fino ad allora esclusivamente agli uomini, fu considerato tuttavia poco consono per le ragazze. Si decise quindi di crearne un nuovo modello per le donne che prese il nome di

onna-bakama. Questo stile d’abbigliamento venne soprannominato bassuru sutairu

(dall’inglese bustle style, cioè che richiama il panier, la struttura sottostante i vestiti occidentali del Settecento- Ottocento ). Nel 1905, il pedagogista Inoguchi Akuri propose, dopo un tour negli Stati Uniti e in Europa, una forma ibrida di divisa sportiva per le ragazze, con la parte superiore ispirata allo stile della marina britannica e gli hakama (Usui 2014). Questa tenuta fu il punto di passaggio verso il sēra fuku. Nel 1921, il collegio femminile di Fukuoka fu il primo campus ad adottare questa divisa: la direttrice del collegio intuì che sarebbe stata molto più semplice da indossare del classico kimono . Tuttavia la maggior parte delle scuole del periodo Meiji non adottò mai delle vere e proprie uniformi scolastiche, e in quel periodo nelle scuole femminili restò una certa varietà di colori e di modelli.  

Nel periodo Taishō, dopo il terremoto del Kantō del 1923, il costo della stoffa dei kimono impose la necessità di adottare per tutte le scuole femminili divise in stile occidentale Ne furono concepite due versioni: una con vestito blu, lungo fino alle ginocchia, collo simile a quello dei kimono ma maniche ispirate alle vesti della marina ed un’altra composta da un completo di due pezzi con giacca e janpa

sukāto (gonna-pantalone), indossato con un berretto e un foulard rosso al collo

(Iku 1980). Il periodo della Seconda Guerra Mondiale, caratterizzato politicamente in Giappone da un regime autoritario e nazionalista, è invece caratterizzato da una giacca in stile marinaro a cui venne abbinato il monpe, un pantalone da lavoro (Cambridge 2011). Una delle ragione della sua adozione fu che dal 1943 al 1945 gli studenti delle scuole superiori e delle università furono costretti a prestare lavoro nelle campagne e nelle fabbriche di armamenti, per la necessità di mantenere una produzione costante in periodo di guerra. La stoffa

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cambiò e fu adottato il kasuri, cioè il cotone usato nelle fabbriche dei kimono. Alla fine della guerra, il sēra fuku nella versione total black, fu adottato di norma per tutte le scuole medie e superiori. Se il prerequisito fondamentale per l’educazione durante il nazionalismo era quello di instillare un senso di forte orgoglio nazionale nei giovani, per indottrinarli secondo il principio di difesa del

kokutai, cioè del “sistema nazionale”, ora che l’imperatore aveva perso il suo

ruolo di divinità e che gli Alleati avevano smantellato le forze militari giapponesi, anche i valori su cui la scuola si basava cambiarono completamente. Il Giappone del dopoguerra è identificato come gakureki shakai, cioè una società meritocratica basata sul ruolo dell’educazione. Negli anni Cinquanta figure di ragazzi nelle loro uniformi tirate a lucido incominciarono a pervadere nelle pubblicità dedicate alle famiglie e in televisione, portando un po’ di sogno americano e rimanendo impresse nell’immaginario collettivo. E’ quasi certamente databile a questo periodo la nascita per la prima volta di un’immagine della ragazza in uniforme come oggetto sessuale (Kinsella 2002). Si trattava, in queste prime forme, di romanzi erotici o pornografici dove appaiono ragazzine che si sbottonano la camicetta. Negli anni Sessanta queste figure ancora abbastanza caste di ragazze in uniforme lasciano spazio ad una visione più complessa legata al tema dell’erotico-grottesco (in giapponese ero-guro). Nascono le prime storie dove studentesse vengono sedotte o violentate da mostri, cattivi maestri o parenti più anziani. Questo genere di tematiche è ancora oggi quello prevalente nell’industria d’animazione pornografica giapponese (hentai). Gli anni Sessanta furono però anche caratterizzati dai primi movimenti di ribellione contro le uniformi e dall’omologazione che rappresentavano. Le

sukeban, cioè le bande femminili che nacquero a cavallo tra i Sessanta e i Settanta,

furono in quel periodo l’emblema delle cattive ragazze (Evers and Macias 2007): alle gonne lunghe delle uniformi venne contrapposta una versione ridotta della camicetta, che lasciava scoperta parte della pancia. Si trattava per lo più di ragazze sbandate, che erravano per la città combattendo in faide tra diversi

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gruppi, ma col tempo vennero identificate come icone di mode e riferimento per i successivi fenomeni di deviazione studentesca, espressi anche attraverso la reinterpretazione della divisa. Negli anni Ottanta l’uniforme si evolse da simbolo dell’istituzione scolastica a vero e proprio business. Nacque il modello con blazer, che spopolò a Tokyo nella versione blu o caramello, e le gonne incominciarono ad accorciarsi. Dopo il 1990 si ebbe un aumento esponenziale dello stile delle uniformi scolastiche: il sēra fuku rimase prerogativa delle scuole storiche, mentre quelle di nuova fondazione adottarono divise più allettanti (Mitamura 2008). Per le giovani uno dei parametri di scelta dell’istituto da frequentare fu anche la ricercatezza e la bellezza delle uniformi proposte. L’interesse per le uniformi raggiunse il suo apice, anche grazie alla pubblicazione di lavori come Tokyo Joshiko Seifuku Raikai (Manuale sulle uniformi scolastiche femminili a Tokyo) di Mori Nobuyuki (Mori 1985), che documenta per la prima volta la varietà di stili nell’area di Tokyo. Negli anni Novanta le gonne si accorciarono. Si trattò il più delle volte di trasgressioni che andavano contro i regolamenti scolastici, e che indusse alcune scuole a rivedere le proprie regole. Nel 1997 fece ad esempio eco nei giornali il caso della prefettura di Chiba, dove in quattro scuole si accordò come “lunghezza ragionevole” per la gonna la misura di cinque centimetri sopra il ginocchio (Cherry 1992). Altra moda, che si

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sviluppò nelle zone di Tokyo e Osaka verso il 1994 per poi espandersi in tutto il Giappone, fu quella di indossare le calze allentate (Figura 3),  che tenute in

posizione tramite colle speciali, diventarono un particolare studiato di falsa trascuratezza nella divisa (Fazio 1998). Le uniformi si trasformarono in oggetti di design, e alcune scuole decisero di affidare la loro creazione a stilisti giapponesi, sempre più consapevoli del fatto che non avrebbero potuto opporsi al cambiamento dei tempi, e che questo rinnovamento avrebbe potuto far rifiorire un interesse anche da parte degli studenti per un simbolo che ormai sembrava essere privo significato . Nel frattempo il sēra fuku era

stata ampiamente

rimpiazzato dal modello di divisa con giacca e gonna. Nel 1993 l’attenzione dei media nazionali si focalizzò su un nuovo fenomeno

dell’industria sessuale:

questo commercio era basato su i burusera, i pantaloncini scuri indossati dalle ragazze durante le lezioni di educazione fisica, che incominciarono ad essere venduti in alcuni sexy shop (Kinsella 2002). Le ragazzine vendevano le loro uniformi, i pantaloncini da ginnastica e la propria biancheria con un campione della propria saliva in cambio di denaro facile. Ben presto l’interesse per questo portò alla luce un grande scandalo in cui si rilevò un grande giro di prostituzione minorile (si parlava del quattro percento di studentesse liceali coinvolte), che rimase poi noto con il nome edulcorato di enjo kōsai (letteralmente “incontrarsi per un aiuto” o FIGURA  2:  CALZE  ALLENTATE

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“appuntamento sovvenzionato”), cioè un incontro, in cambio di denaro e regali, tra una ragazza molto giovane, in genere una studentessa preadolescente o adolescente, e un uomo più vecchio, tendenzialmente sopra i trent’anni, senza che necessariamente vi sia una performance sessuale . Il fattore più sconvolgente fu che per la maggior parte dei casi il fenomeno coinvolse, diversamente dal fenomeno delle sukeban negli anni Settanta, ragazze provenienti da famiglie benestanti, che quindi che non avrebbero avuto bisogno di denaro. Per i media la parola enjo kōsai divenne un termine chiave, e l’interesse per le studentesse e le loro deviazioni si fece sempre più intenso, fino ad essere definito “boom delle liceali” (Evers and Macias 2007). L’immagine distorta che venne offerta dai media fu quella di ragazze senza scrupoli, che desideravano fare soldi facilmente, disposte a tale scopo addirittura a vendere il proprio corpo. In particolare, fu la nascente sottocultura kogyaru ad essere associata ad un’immagine di gioventù bruciata. Portavano gonne molto corte, calze allentate sui polpacci, si abbronzavano e si tingevano i capelli contro tutti i canoni della bellezza tradizionale giapponese.

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LE  UNIFORMI  OGGI

 

 

Con l’ingresso nel nuovo millennio le uniformi femminili hanno nuovamente cambiato il proprio aspetto. Mori Nobuyuki, nel suo libro Joshi kōseifuku zukan:

Shukotenban Kanagawa Chiba Saitama (Manuale di uniformi liceali femminili:

edizione dell’area metropolitana di Kanagawa, Chiba e Saitama) del 2010 (Mori 2010), esamina attentamente le caratteristiche delle divise nelle città di Kanagawa, Chiba e Saitama, dividendole in sei stili principali: blazer, sēra fuku, bolero, vestito, gonna pantalone, giacca colorata. Il blazer è adottato dal 70% delle scuole: l’opzione più fortunata, quella con gonna e cravatta, è anche secondo gli studenti la scelta più apprezzata, per via del suo design pratico e bello da vedere. Il sēra fuku comprende l’11% complessivo, mentre bolero e vestito sono modelli rari, secondo l’autore destinate a scomparire nel giro di poco tempo. La gonna pantalone è solo presente in due scuole nella zona di Kanagawa, e rappresenta quindi una piccola parte delle uniformi. Nella maggior parte delle scuole missionarie cristiane il modello delle divise non ha subito modifiche, se non eventualmente nel colore delle giacche. Le divise colorate rappresentano il 15% complessivo. Più della metà delle strutture hanno cambiato modello dell’uniforme nei precedenti dieci anni, ma secondo l’autore è improbabile che le scuole la cui veste è rimasta invariata fino ad ora decidano di dare una svolta. Due sono i fattori interessanti da notare. Il primo è che più di design “grazioso”, le nuove preferenze sembrano virare verso una concezione di abito funzionale. In particolare ci si rivolge al blazer, preferito nella versione più ampia e che è anche il modello preferito dagli stilisti famosi a cui talune di queste uniformi vengono commissionate: delle centoquarantasette scuole recensite da Mori, trentuno posseggono una divisa prodotta da un designer. Secondariamente,

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