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FIGURA 4: LE KAWAII TAISHI, DA SINISTRA FUJIOKA SHIZUKA, KIMURA YU E AOKI MISAKO

L’UNIFORME SCOLASTICA FEMMINILE E IL KAWAII

FIGURA 4: LE KAWAII TAISHI, DA SINISTRA FUJIOKA SHIZUKA, KIMURA YU E AOKI MISAKO

Giappone a livello mondiale. Ognuna delle ragazze avrebbe rappresentato una delle tre più importanti sfaccettature di questo fenomeno: la ragazza in uniforme scolastica, la lolita20 e la ragazza in stile Harajuku21. La scelta di queste tre giovani

e belle modelle per la rappresentazione ufficiale della cultura giapponese all’estero parve strana. In particolare, si criticò l’apparente ingenuità del governo nel capire che più che rilasciare un’immagine positiva del Giappone avrebbe perpetuato dei modelli stereotipati presenti nell’immaginario collettivo, specialmente in quello erotico (Ellwood 2010). Ad alcuni sembrò addirittura che la scelta fosse stava fatta di proposito, come una promozione manipolata per suscitare quella sensazione. Monji Kenjirō, allora Direttore Generale del Dipartimento di Diplomazia Pubblica al Ministero degli Esteri, e Sakurai Takamatsu, anche lui impiegato presso il ministero e considerato il vero fautore dell’iniziativa, risposero che le ragazze erano solo un tramite per sfruttare la cultura giapponese all’estero (Sakurai 2009). Erano state scelte attentamente non solo per il loro aspetto, ma principalmente per le loro abilità di intrattenitrici: Kimura Yu come ragazza di Harayuku, Aoki Misako come lolita, e Fujioka Shizuka come liceale in uniforme. Fujioka, in particolare, era un’attrice e modella part-time che lavorava per la CONOMi, azienda specializzata nella produzione di finte divise scolastiche. Già in diverse occasioni aveva interpretato il ruolo di studentessa in alcune produzioni televisive (Madge 1997).

La CONOMi cavalca l’onda del successo dal 2002, quando ebbe inizio un boom di richieste di uniformi false. Queste uniformi, chiamate anche nanchatte seifuku (letteralmente “uniformi per gioco”, cioè uniformi false), sono state spesso oggetto di critiche perché considerate in parte responsabili della diffusione del problema legato alla feticizzazione delle uniformi (Madge 1997). Già a partire dagli anni Novanta incominciarono a diffondersi i cosiddetti “burusera shoppu”

                                                                                                                                        20  Stile ispirato alla bambole vittoriane

21  Stile che mischia vestiti tradizionali giapponesi a capi moderni firmati. Prende il nome dall’omonimo quartiere di Tōkyō, fucina della maggior parte delle mode giovanili della capitale.

(cioè “negozi di pantaloncini”), che rivendevano a uomini divise scolastiche e intimo usati dalle ragazze (Suzuki and Best 2003): questi negozi furono proibiti solo dopo l’approvazione di una legge nel 2004 (Leheny 2006), quando l’opposizione contro queste attività commerciali si fece forte. I precedenti, dunque, testimoniano concretamente che esiste un problema legato alla feticizzazione delle uniformi. Alcuni studiosi sostengono che il cosiddetto “Cool Japan” faccia parte di una forma di creazione di un mito, dove la donna è naturalizzata come oggetto di controllo e desiderio (McVeigh 2000). Nonostante si volesse fornire l’immagine del Giappone come di una società libera, dove le persone possono agire e vestirsi liberamente, questa rappresentazione si omologa a quel genere di fantasie che vedono ancora la donna come essere semplice e docile, accondiscendente alle aspettative maschili. Molti concordano nel pensare che il governo giapponese abbia dato in pasto alla società l’immagine di una donna “consumabile”. Questi tre tipi di donna, e in particolare la studentessa, risultano attraenti perché rappresentano un ideale di femminilità perduta. La scelta fatta dal Ministero degli Esteri, nonostante sia nata con obiettivi diversi, racconta certamente di desideri, fantasie e identità esclusivamente maschili. Penso che, senza nulla togliere alla simpatia che la cultura kawaii possa suscitare in coloro che la osservano, sia anche necessario pensare anche a quelli che sono i suoi significati nascosti.

Mio Bryce, esperta di cultura giapponese presso l’università di Macquarie a Sidney, sostiene che il vero problema di questa feticizzazione della donna è proprio il kawaii (Ripley and Whiteman 2014). I personaggi rappresentati in anime e manga sono spesso ragazze giovani e vulnerabili. Il problema si trova tanto nei soggetti quando nei ruoli interpretati che trasmettono un messaggio sbagliato sulle donne. La parola shōjo, che significa letteralmente “ragazzina” nasce nei primi anni del Novecento per indicare una categoria di ragazze in età puberale e pre-matrimoniale potenzialmente cattive e distruttive . A partire dagli

anni Settanta, tuttavia, questa immagine muta, diventando positiva e legata ad un nuova categoria di consumatrici, cioè le adolescenti. Negli anni Novanta nel pieno della recessione economica giapponese, la categoria delle shōjo venne associata alla crescente cultura kawaii. Come si può notare, ad esempio in alcuni manga del periodo (Kinsella 2002), le donne incominciarono a essere rappresentate in maniera sempre più infantilizzata. Contemporaneamente, i

manga destinati ad un pubblico maschile, iniziarono a ritrarre ragazze con i visi

da bambine e seni abbondanti. La parola kawaii coinvolge i diversi aspetti che ci si aspetta che una donna possieda tradizionalmente. La perdita parziale di questi valori dopo la fine della seconda guerra mondiale avrebbe portato ad una “infantilizzazione” della cultura del dopoguerra e alla creazione di una visione distorta di genere.

Tutte queste considerazioni, tuttavia, spiegherebbero solo l’interesse degli adulti in donne giovani, ma non l’enfasi per l’uniforme scolastica. Nei primi due capitoli ho spiegato come l’uniforme in stile marinaio nasca come vestito per bambini nell’élite vittoriana, dopo che la regina Vittoria la adottò per i suoi figli. Successivamente venne introdotta in alcuni stati, ad esempio Corea e Giappone, come uniforme scolastica femminile. Come già spiegato, questa scelta non è stata casuale e corrispondeva alla volontà di intrappolare le donne ad uno stato prepuberale e asessuato. È facile capire allora come la divisa non sia solo associata ad un’idea di potere, ma specialmente di sottomissione, contenimento e disciplinamento della mente.

Jennifer Craik, nel suo libro “Il fascino dell’uniforme” (Craik 2005), scrive come probabilmente sia stato questo collegamento tra neutralizzazione della femminilità e mondo dell’infanzia che ha portato ad una associazione tra sessualità e divise scolastiche femminili. Nel suo articolo “Nascondere la Donna”, contenuto nel libro “Sade Fourier Loyola”, il sociologo Roland Barthes scrive (Barthes 1971): “La Donna è maltrattata, impacchettata, attorcigliata, incappucciata, la

si camuffa in modo da cancellare ogni traccia delle sue attrattive anteriori”. E poi: “con il suo ordine di occultazione il libertino contraddice l’immoralismo corrente, prende in contropiede la pornografia dei collegiali che fa del denudamento della donna la più suprema audacia”, facendo sì che “la Donna continui a rappresentare uno spazio paradigmatico, dotato di due luoghi, di cui il libertino, da linguista rispettoso dei segni, marcherà uno e neutralizzerà l’altro”.

Nell’ossessione giapponese per tutto ciò che è “grazioso” esiste una sotterranea associazione tra i significati espliciti delle uniformi e le loro possibili associazioni con la sessualità, gli eccessi, la violenza e il masochismo. L’originale carattere di castità delle uniformi le associa ad un senso di gerarchia che permette il loro inserimento nelle cultura popolare come indicatore di altre caratteristiche: la parte nascosta del corpo.

L’uniforme scolastica diventa famosa in Giappone negli anni Novanta con le

kogyaru (Evers and Macias 2007), in particolare per la loro associazione con il

fenomeno dell’enjo kōsai, in cui proprio l’uniforme scolastica è oggetto dei discorsi sulla vita sessuale femminile. L’introduzione negli anni Settanta e Ottanta del concetto di kawaii ha portato ad un allontanamento radicale dagli ideali di bellezza tradizionale. Si tratta di una trasformazione di cui le ragazze furono consapevoli: il boom dell’aerobica negli anni Ottanta portò alla nascita di una maggiore consapevolezza del proprio corpo da parte delle donne, tanto che viene coniata l’espressione bodīkon gyaru, dall’inglese “body conscious girl” (Miller 2004). Questo cancellò il vecchio ideale di donna giunonica , verso un modello di fisico atletico e asciutto: la ragazza innocente e asessuata venne trasformata in una donna sexy e sfacciata. Questa nuova consapevolezza si manifestò anche attraverso i vestiti, tra cui troviamo le uniformi scolastiche. Non a caso è proprio negli anni Ottanta che ritroviamo le grandi trasformazioni nei modelli e nuove mode, come la nascita dello stile blazer, l’accorciamento delle gonne e le calza allentate. In questo momento l’estetica kawaii rimase un elemento di protesta

contro i canoni tradizionali di donna e bellezza. Durante questo periodo lo scoppio di scandali come i burusera shoppu, l’enjo kōsai e il coinvolgimento di giovani ragazze nell’industria pornografica portava ad una nuova ossessione per l’immagine delle ragazze nelle scuole superiori che ha dominato la cultura popolare del Giappone, fagocitando la crescente cultura kogal, carica di un’evidente manifestazione e provocazione sessuale e la cui estetica, che abusa dell’uso di elementi kawaii, è diventata un elemento di protesta contro i modelli tradizionali .

Due decenni dopo, tuttavia, le cose sembrano cambiate: il kawaii è stato reinventato come mezzo per la globalizzazione del Giappone, diventando spesso stereotipo di femminilità e giovinezza.

Note:

1989. "Daijirin ". Tokyo: Sanseidō.

Barthes, R. 1971. "Nascondere la donna." Pp. 111-13 in Sade, Fourier, Loyola Torino: Einaudi.

Craik, J. 2005. Il fascino dell'uniforme. Roma: Armando.

Ellwood, M. 2010. "Japan's Ambassadors of Cute." in The Financial Times.

Evers, Izumi, and Patrick Macias. 2007. Japanese Schoolgirl Inferno: Tokyo Teen

Fashion Subculture Handbook. San Francisco: Chronicle Books.

Kinsella, S. 1995. "Cuties in Japan." in Women, Media and Consumption in Japan. Honolulu: Curzon & Hawaii University Press.

—. 2002. "What's Behind the Fetishism of Japanese School Uniforms?" Pp. 215-36 in Fashion Theory. UK.

Leheny, D. 2006. Think Global, Fear Local. New York: Cornell University Press. Madge, L. 1997. "Capitalizing on "Cuteness": The Aesthetics of Social Relations in

a New Postwar Japanese Order." Japanstudien (9):155-74. McVeigh, B. 2000. Wearing Ideology. New York: Berg.

Miller, L. 2004. "Those Naughty Teenage Girls: Japanese

Kogals, Slang, and Media Assessments." Journal of Linguistic Anthropology 14(2):225-47.

Ripley, W., and H. Whiteman. 2014. "Sexually explicit Japan Manga evades new laws on child pornography." CNN.

Suzuki, T., and J. Best. 2003. "The Emergence of Trendsetters for Fashions and Fads: Kogaru in 1990s Japan." The Sociological Quarterly 44(1):61-79.

Takasu, K. 1988. Kawaii onna no narukokoro ni jikigaku: mesumeru ga toguiionna e no

CAPITOLO  5  

CATTIVE  RAGAZZE  IN  UNIFORME:  LA  MODIFICA  DELLE  DIVISE  COME