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Negli anni lontano dal cinema ovviamente Ōshima non rimase inoperoso. Egli si mosse soprattutto in ambito televisivo, grazie all‟incontro con Ushiyama Junichi e al suo progetto “Non

Fikushon Gekijō”, ovvero una serie di documentari per il piccolo schermo. L‟incontro tra i due

risale ancora al 1960, nei giorni delle manifestazioni di giugno. Ma fu solo l‟anno successivo che il progetto iniziò a concretarsi. Il rapporto tra regista e produttore fu particolarmente buono, con Ushiyama che si era battuto con forza contro lo scetticismo e dubbi dei suoi collaboratori per avere Ōshima Nagisa nel suo progetto. Proprio per questo il regista poté godere di una notevole libertà creativa.

164 TURIM, The films of Ōshima Nagisa., op. cit., p. 158. 165 ŌSHIMA, Ōshima Nagisa 1968, op. cit., p. 24.

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La prima collaborazione tra i due fu Kōri no naka no seishu (“Giovinezza tra i ghiacci”, 1962), che parla della vita di una piccola comunità che sorge sulle sponde del lago Hachiro (provincia di Akita) e di come questo particolare scenario influenzi direttamente le loro vite. Il programma venne però presto interrotto, ma gli sforzi anche economici di Ushiyama ebbero successo nel portare alla riapertura dell‟iniziativa. Di nuovo il produttore decise di affidare un documentario a Ōshima, questa volta incentrato sul passato da stato coloniale del Giappone, l‟occupazione della Corea e i coreani che ancora oggi vivono nell‟arcipelago. Il progetto, allora maggiormente definito nei suoi particolari, andò a seguire una manifestazione di reduci. Da quell‟esperienza nacque l‟opera più significativa di quegli anni: Wasurerareta kōgun (“L‟esercito imperiale dimenticato”). Rilasciato nel 1963, il film ottenne fin dall‟inizio ottime critiche.

WASURERARETA KŌGUN

Prodotto da Ushiyama per la Nihon Terebi era un documentario di circa 25 minuti che descriveva le vicende di un gruppo di ex-soldati della Corea. Nella seconda guerra mondiale furono numerosi i coreani che combatterono fra le file nipponiche. Al termine del conflitto, coloro che rimasero in Giappone si videro ben presto negare qualsiasi sussidio o pensione per il loro operato da soldati. Spesso con addosso i segni delle passate battaglie come gravi handicap che li resero inadatti a qualsiasi lavoro, finirono per condurre vite ai margini della società.166 Si

trattava d veri e propri “zombies”,167 ovvero non-morti, nel significato di individui la cui morte

era una soluzione preferibile, augurabile per la società dell‟arcipelago. Essi marciarono e protestarono per vedersi riconosciuti gli stessi diritti di cui godevano i reduci di guerra invalidi giapponesi.

L‟opera di Ōshima si focalizza su un gruppo di 12 di questi “veterani feriti” (shōi gunjin) che raccoltisi nei pressi di Hachiko a Shibuya iniziano a rivolgersi ai passanti che bellamente li ignorano. Le loro voci e contestazioni provocano anche l‟intervento delle forze dell‟ordine. Essi protestavano perché le loro richieste venivano rimbalzate da un ufficio all‟altro del governo nipponico e coreano, sostenendo ogni volta che non si tratta di una loro competenza e quindi scaricando immancabilmente la questione a qualcun altro. A fine giornata, senza aver ottenuto

166 La Corea era stata per più di 30 anni una colonia nipponica, e molti coreani furono deportati nell‟arcipelago e

costretti ai lavori più disparati, tra cui anche combattere dalla parte della nazione che aveva invaso la loro patria. Molti morirono, ma alcuni feriti vennero rimandati a casa. Dopo la fine della guerra, la Corea riacquistò la propria indipendenza, ma i coreani che continuarono a vivere sul suolo nipponico furono milioni. In seguito alla ripresa economia, lo stato giapponese iniziò a versare una sorta di indennità di guerra a quei soldati feriti, che continuano a portare addosso anche adesso i segni della seconda guerra mondiale. Per i pochi sopravvissuti di quel reparto di coreani, invece non fu così. Nel senso che quando la Corea riconquistò la propria indipendenza, a essi venne automaticamente riconosciuta la nazionalità coreana, rendendoli di fatto non idonei a ricevere quella sorta di indennità che lo stato giapponese versava ai reduci di guerra.

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una risposta da nessuno, la telecamera li segue in un izakaya dove, ubriachi, i reduci si abbandonano a vecchi canti di guerra e litigano fra loro.

Lo svolgimento dell‟opera è accompagnato dalla voce di Komatsu Hōsei, che mantiene sempre un tono calmo e distaccato, che non lascia spazio al sentimentalismo. Se all‟inizio tuttavia può essere presa come una voce neutra, chiamata a rappresentare il punto di vista del giapponese medio, pian piano si allontana da quel “ruolo”, per arrivare alla fine dell‟opera ad assumere una posizione apertamente provocatoria, nella speranza di smuovere gli animi del pubblico. Nel finale, come a rivolgersi singolarmente a ogni spettatore, tuona il narratore:

“Mi rivolgo a voi, abitanti del Giappone! Fratelli! Va bene così? Possiamo lasciare veramente le cose così come stanno?” 168

Nella scena della bevuta, una delle più cariche emotivamente, c‟è un piccolo alterco tra i vari ex- combattenti, ormai preda dei fumi dell‟alcool. Il “protagonista” So Okuon, canzonato per la sua cecità, reagisce irato. Di scatto si toglie gli occhiali, rivelando gli occhi ciechi. Pian piano gli altri commensali se ne vanno, lasciandolo solo, mentre offre allo sguardo impietoso dello spettatore il proprio corpo ferito. Ōshima insiste in questa ripresa, intensa e toccante. In quei secondi è racchiuso tutto il senso del film. Lo spettatore può vedere So, che invece cieco, non può vedere niente. Tale squilibrio riflette la diseguaglianza sociale di cui questi persone sono vittime: riflette lo squilibrio che sussiste tra gli ex-soldati coreani e quelli dell‟arcipelago.169

La scena nell‟izakaya, poi, nel riprendere una lite, mostra un lato “negativo” e antipatico di simili individui. Questa rabbia e un simile livore, spiega la voce narrate, derivano dall‟essere costretti in una situazione così miserabile. Ma quello che Ōshima ha voluto fare in realtà, inserendo una scena simile è spazzare via ogni possibilità di un‟identificazione o semplice compassione che potrebbe insorgere nello spettatore. Il regista infatti vuole che egli mantenga un occhio criticamente lucido dall‟inizio alla fine. Lo spettatore non deve essere sviato da una rappresentazione più piacevole degli eroi di turno attraverso l‟eliminazione di scene “sconvenienti”, solo per ottenere un facile effetto pietistico o di compassione. Ōshima si pone al fianco di questi individui in maniera incondizionata. Egli infatti adotta sempre nei suoi film il punto di vista svantaggiato della minoranza oppressa e schiacciata dalla ricchezza, dalle strutture familiari, dal razzismo, dall‟intellighenzia, dagli uomini (che opprimono l‟altro sesso), ecc. Ma senza che ciò tinga le sue opere di un sentimentalismo compiacente.

168 “日本人たちよ、わたしたちよ、これでいいのだろうか。これでいいのだろうか。”, ŌSHIMA,

Ōshima Nagisa 1968, op. cit., p. 40.

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L‟esperienza che il regista accumulò nelle ricerca sulla vicenda, servì anche a rinsaldare alcune sue convinzioni, prima fra tutte il fatto di non poter certo considerare la seconda guerra mondiale come un evento concluso. Nonostante i 18 anni trascorsi, c‟erano ancora numerosi gruppi di individui che continuavano a soffrire, per ragioni diverse, a causa dei suoi effetti. Il film di Ōshima documenta il giorno in cui la loro questione venne presentata al governo giapponese, che con sufficienza e freddezza, rispose loro di rivolgersi alle autorità competenti coreane. Ma a far eco all‟indifferenza delle istituzioni dell‟arcipelago, ci fu anche la reazione, anche se in realtà è meglio parlare di non-reazione della società civile nipponica, registra il film di Ōshima, che ribadì ulteriormente come il Giappone si fosse come dimenticato di tale questione.

ALTRE OPERE

L‟anno successivo, il 1964, Ōshima soggiornò assieme a Ushiyama in Corea per qualche mese. Dalle riprese fatte in quell‟occasione nacque un nuovo documentario per la televisione: Seishun no

ishibumi (“Il monumento della giovinezza”). L‟opera racconta la storia di una giovane dimostrante,

Park Ok Hee, che perse un braccio durante le proteste contro Syngman Rhee del 1960, ma che, in accordo col proprio ruolo di figlia maggiore, per sostenere la proprio famiglia, iniziò a prostituirsi. Anche in questo caso, come in Wasurerareta kōgun, abbiamo un protagonista invalido, senza un arto. E Ōshima insiste su un simile aspetto, sul vuoto lasciato dal braccio mancante, che fornisce un‟ulteriore dimensione visiva, tattile delle loro sofferenze. Egli si recò alla ricerca della ragazza nel 1964, raccogliendo molto materiale, foto, reportage, interviste, che si alternano poi nel documentario che girò.170

In quell‟occasione Ōshima realizzò anche molte delle foto, soprattutto di bambini, che qualche tempo dopo costituiranno il corpo di un‟altra opera alquanto particolare: Yunbogi no nikki (“Il diario di Yunbogi”, 1965). Se la situazione nel Giappone di quegli anni stava puntando decisamente verso un miglioramento delle condizioni di vita generali, dopo gli anni di stenti dovuti alla seconda guerra mondiale, le immagini del regista testimoniano come in Corea la ripresa economica fosse ancor ben lungi dall‟arrivare, e ovunque regnasse una condizione di povertà dilagante.

Ōshima e Ushiyama poco dopo programmarono un altro viaggio assieme, con destinazione il Vietnam. Da quest‟esperienza comune nacque un nuovo progetto per il piccolo schermo: Minami

Betonamu kaihei daitai senki (“Cronache militari di un battaglione della marina nel Vietnam del sud”,

1964). Nel 1963 aveva fatto il giro del mondo la foto di cinque monaci che in segno di protesta contro il governo vietnamita si erano uccisi dandosi fuco. La notizia aveva sconvolto anche

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Ōshima, e c‟è da pensare che la decisione del suo viaggio in Vietnam sia almeno parzialmente dovuta allo shock di quegli eventi. 171

La messa in onda del documentario venne bloccata a causa della crudezza delle immagini. In realtà l‟opera non era così prodiga nel mostrare scene sanguinolente, ma era invece piuttosto cruda nel dare un‟immagine della guerra promossa dall‟America come completamente sbagliata, come un massacro inutile ai danni della popolazione vietnamita. Non è esagerato affermare quindi che a impedire la visione del documentario furono sostanzialmente ragioni politiche ben precise. 172

In seguito i documentari per la tv che Ōshima realizzò si basarono su un repertorio di immagini e notizie già esistenti, che egli rimontò in una forma del tutto originale. Si possono citare per esempio Gyosen sōnansu (“L‟incidente del peschereccio”, 1965), oppure Daitōa sensō (“La grande guerra dell‟Asia orientale”) del 1968 che raccoglie cinegiornali e immagini della seconda guerra mondiale che il governo Giapponese distribuì negli anni del conflitto. Ancora, Mōtakutō to

bunka daikakumei (“Mao Zedong e la grande rivoluzione culturale”) realizzato l‟anno dopo. I

documentari che Ōshima girò in questo periodo non sempre arrivarono a poter vantare lo spessore di uno dei suoi film per il cinema. Tuttavia in molti casi si trattò di opere innovative e originali, di interesse considerevole, come nel caso del film che il cineasta dedicò a Mao. “Mao Zedong e la grande rivoluzione culturale” è un‟opera del 1969, anno in cui molti esponenti della sinistra di tutto il mondo stavano abbracciando le posizioni maoiste, viste come un modello ideale alternativo all‟ortodossia sovietica. L‟opera celebra le gesta di Mao, in particolare i primi anni. Ma col procedere della pellicola i dubbi che Ōshima pone aumentano sempre più, in particolare in merito alla cosiddetta rivoluzione culturale. Il regista di fatto sollevò alcuni dubbi nel periodo in cui si era ancora nella fase di innamoramento della dottrina del leader cinese, prima che si passasse a un‟analisi più critica della vicenda politica, sociale e culturale di Mao Zedong. Ōshima si dimostrò ancora una volta un intellettuale attento alla realtà circostante, non solo fine critico, ma anche capace di anticipare certi cambiamenti e tendenze (come in alti suoi film iniziali, in cui si possono facilmente trovare tutti i segni premonitori degli eventi del ‟68 nipponico).

L‟opera si snoda attraverso tutta una serie di citazioni da opere e scritti di Mao, che intervengono a risposta delle domande che la voce narrante di Ōshima stesso pone. Se inizialmente l‟impressione che la visione del documentario può dare, e quella di un‟opera tutto sommato celebrativa, pian piano emerge chiaramente l‟intento critico del regista, che affronta la questione con la stessa lucidità con la quale circa dieci anni prima aveva descritto la situazione

171 ŌSHIMA, Ōshima Nagisa cho sakushū dai san maki..., op. cit., p. 39. 172 ŌSHIMA, Ōshima Nagisa 1968, op. cit., p. 56.

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della sinistra nipponica in Nihon no yoru to kiri.173 I dubbi che Ōshima tentò di sollevare erano

molto rari all‟epoca, essendo quelli cui gran parte della critica internazionale giungerà solo anni dopo, quando le atrocità e i massacri compiuti da Mao in nome della sua rivoluzione verranno resi pubblici.

Per concludere, la collaborazione con Ushiyama Junichi si rivelò molto utile per il cineasta, per sopravvivere in un periodo turbolento, di lontananza dal cinema dovuto a problemi con la censura o guai finanziari, che tante volte infesteranno la sua carriera. Il documentario poi era un ottimo metodo di presentare questioni spinose, anche politicamente recenti e scottanti, che magari al cinema non avrebbero potuto trovare spazio. Questo genere, essendo prodotto con budget minori, poteva venir realizzato senza eccessive pressioni produttive, senza che il fine commerciale del prodotto andasse a costituire un intralcio di qualche genere. Nonostante l‟ambito televisivo non sia esattamente quello dove attendersi una libertà creativa di simili proporzioni, Ushiyama riuscì a garantire sempre, nelle sue collaborazioni con Ōshima, piena libertà d‟azione al regista. Per simili opere, oltre alla realtà del Giappone dell‟epoca, egli sfruttò soprattutto le esperienza maturate durante i suoi viaggi all‟estero, come per esempio in Corea („64), Vietnam („65), Bangladesh („71) e in seguito anche Okinawa („77). Egli poté infatti entrare in contatto con quell‟”alterità”, di cui ebbe una prima esperienza in queste occasioni, e che poi individuò anche entro i confini nazionali.

173 L‟opera termina con queste aspre domande, rivolte dal regista direttamente al leader cinese: “Haven‟t you

destroyed the myth of central leadership to create the myth of people‟s trust in Chairman Mao? Are you teaching revolution? Or Is the cultural revolution suppressing revolution? Once you said, as the people learned, even Marx and Lenin may come to appear foolish. You are still trying to express the future of China all by yourself. Isn‟t this a great contradiction? The great contradiction of a great leader of the twentieth century?” Le parole di Ōshima sembrano dimostrare come egli creda come a un sogno, alla rivoluzione in quanto mezzo per eliminare

definitivamente ogni ingiustizia e oppressione, ma ben consapevole nello stesso tempo, che un “sogno” simile non possa mai realizzarsi. TURIM, The films of Ōshima Nagisa., op. cit., p. 243.

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