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MURI SHINJŪ – NIHON NO NATSU

Muri shinjū – Nihon no natsu è sicuramente uno dei film più criptici del regista di Kyoto; un‟opera

per la quale trovare una definizione di genere, o anche solo tentare di ricostruire a grandi linee la trama risulta alquanto complicato. Nonostante le numerose scene “movimentate”, compresa la sparatoria finale, non è assolutamente un film d‟azione. In alcuni passaggi, soprattutto nei primi minuti, abbondano suggestioni fantascientifiche: il contesto urbano ricorda un paesaggio apocalittico, fatto di autostrade infinite (in realtà Ōshima usò un‟arteria cittadina nuova, che venne inaugurata pochi giorni dopo le riprese), distese deserte e magazzini industriali abbandonati. L‟opera infatti, per lo meno inizialmente, non ha una cornice spazio-temporale precisa, o comunque riconoscibile per lo spettatore.

In questo particolare scenario si muovono vari personaggi. Il film segue le azioni soprattutto di Nejiko e di Otoko. La prima è una ragazza atipica anche considerando le pellicole precedenti del cineasta, che comunque hanno soventemente ospitato personaggi femminili distanti dall‟archetipo tradizionale di donna giapponese. Nejiko è una ragazza moderna, provocatrice, alla continua ricerca di un uomo che la soddisfi sessualmente. All‟inizio della storia, la telecamera la

187“それがわかっちゃったら、ぼくの映画はつまらなくなるし、左翼の連中はそういうふうに映画を

つくってほしかったんで、だからぼくの映画はある種の非難を浴びて、わからないといわざるをえな いんだけども。”, ŌSHIMA, Ōshima Nagisa 1968, op. cit., p. 91.

188 “田村孟による脚本はこの作品を、単に同時代の犯罪のドキュメントの次元に留まることを許さな

かった。それは作品をより広い射程、つまり戦後日本における主体の形成とその破綻という長い物語 のなかにおき、そこに世代の運命を賭けた結論を下そうと試みている。”, YOMOTA, Ōshima Nagisa..., op. cit., p. 188. 189 “ぼくはこの映画で犯罪者、通り魔の味方なんだと。つまり通り魔のような存在としてこの世の中 に生きるんだというぼくの宣言だったんですよ。それまではぼくは、思想的に左翼で、まちがいもあ るかもしれないが、正しい道を歩こうと思ったけども、もう正しい道なんか歩かないと。世の中が恐 怖しちゃう存在としている。そういう存在こそ、ぼくが味方をしたい、共感をしたい、描きたい人間 なんだと宣言する立場に立ったんだね。『悦楽』を経て『白昼の通り魔』で、ぼくはもう通り魔とし て生きる道を選んだんだと思います。”, ŌSHIMA, Ōshima Nagisa 1968, op. cit., pp. 88-89.

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inquadra mentre si libera di reggiseno e mutandine, per festeggiare la fine della precedente storia con un ragazzo. Otoko va invece a controbilanciare la “fisicità”, la “carnalità” della ragazza con un piano maggiormente cerebrale. Egli è ossessionato dall‟idea della morte, e percorre tutta la storia alla ricerca di qualcuno che lo uccida (anticipazione del Sakurada interpretato da Tonoyama Taiji in Natsu no imōto – “Sorellina d‟estate”, 1972). Ma i due protagonisti non possono essere visti meramente come una forza vitale (Nejiko) contrapposta a un istinto di morte (Otoko). “Wanting to make love all the time is obviously evidence of life, but we were definitely not neglecting to point out that death soon comes into play where there is such strong evidence of life. Even more important than that, Otoko‟s premonitions of being killed (…) are also evidence of life; in no way is this a sickness that can end in death. Otoko definitely does not want to die. He wants to live, and this is precisely why he has premonitions of death. In other words, in instance where Otoko appears at a glance to want to die, he actually wants to live, and this is beautiful. Insofar as Otoko‟s desire for life is convoluted, it is intensely beautiful – more so than Nejiko‟s straightforward desire to live.”190

Come suggerisce anche il titolo, la morte non è volontaria, ma muri, imposta, forzata. Tale carattere “coatto” dello shinjū rimanda quindi al comportamento di Otoko, che pur animato da certe fascinazioni a proposito della propria dipartita, è tutto sommato un personaggio “vitale”. Non prende mai l‟iniziativa per morire; saranno sempre altri personaggi a farlo. Essi sono individui “simbolici”, rappresentati da un oggetto preciso o un comportamento: Giocattolo, Tv, Orco,ecc. Sono figure grottesche, come il ragazzo interessato solo a possedere un mitra per uccidere. Oppure il vecchio reduce o il personaggio interpretato da Toura Rokko, che porta sempre con sé un televisore. In mezzo a essi Nejiko si muove liberamente, diventando la spinta, il motore delle azioni di tutti gli altri uomini. Questi, rinchiusi in uno spazio chiuso come quello descritto nel film, danno origine a una piccola “comunità” che è tutto l‟opposto di quello ritratta in Shiiku. In Muri shinjū, in un edificio che all‟apparenza sembra un ex-caserma, si riuniscono dei soldati armati, ma senza che si sappia mai quali siano i loro scopi o obbiettivi o leggi. La comunità di Shiiku è ormai del tutto dissolta, e non esiste più neanche un‟autorità trascendente di cui aver paura. È pura anarchia, e solo la violenza sembra in grado di incarnare una strana uguaglianza tra gli uomini.

Muri shinjū – Nihon no natsu venne dopo Nihon shunka kō, e anche solo dai due titoli si può

notare come l‟attenzione di Ōshima fosse attratta con decisione da questo “tema”, il Giappone, con tutto ciò che ne comportava. Nel paese di quegli anni era in atto una protesta molto sentita a tutti i livelli della popolazione contro la guerra nel Sud-est asiatico, e infatti “l‟ombra del Vietnam

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si stende pesante su questo film”.191 Simili tracce ritornano per esempio anche nel personaggio

dell‟assassino occidentale che appare nella seconda parte dell‟opera, il quale richiama l‟intervento americano “straniero” in Vietnam, senza alcuna giustificazione ragionevole.

Ōshima ha intitolato la pellicola Muri shinjū, ovvero un suicidio a due forzato. Lo shinjū è un “rituale” topico della tradizione nipponica, in cui due amanti scelgono la morte nell‟impossibilità di realizzare il loro sogno d‟amore in vita. In questo caso l‟ombra della guerra del Vietnam, arriva a disturbare il sogno di pace che la Costituzione del dopoguerra aveva generato grazie alla rinuncia nipponica alla guerra. Invece a causa della volontà americana, il Giappone si trovò impelagato in un barbaro conflitto nel Sud-est asiatico. E tale sogno infranto potrebbe essere la spinta al suicidio di una nazione intera. A proposito della guerra del Vietnam, Ōshima aveva notato come nel 1967 si poté assistere a un fenomeno di “quotidianizzazione” del conflitto. La copertura mediatica ricevuta dall‟argomento fu incredibile, un evento senza precedenti nella storia del giornalismo del Giappone. E anche nel mondo del cinema vi furono eventi singolari: proprio in quegli anni vennero restituiti i film sull‟atomica che erano stati sequestrati dall‟America, così come quelli bellici. Per Ōshima un simile gesto rappresentò un tentativo di far accettare al popolo dell‟arcipelago la guerra come un elemento normale, quotidiano, dal momento che tali pellicole vennero restituite precisamente quando immagini di guerra occupavano già abbondantemente i media giapponesi; immagini tragiche, drammatiche, di sofferenza che bombardarono il popolo nipponico, invasero la loro percezione quotidiana perdendo il loro carattere destabilizzante. Le genti dell‟arcipelago vennero in questo modo mitridatizzate verso l‟orrore e il dolore che da sempre accompagna qualsiasi conflitto, esattamente nel periodo in cui arrivavano anche le immagini degli scontri in Vietnam.192

Muri shinjū – Nihon no natsu, uscito nel 1967, presenta un carattere “profetico” non nuovo per i

film di Ōshima. Visto a ritroso, ripensando agli eventi che di lì a poco interessarono il Giappone, è facile intravedere nei banditi e i prigionieri (rinchiusi? asserragliati?) che si trovano in una sorta di magazzino abbandonato, le immagini delle proteste studentesche che alle volte avevano spinto i giovani a chiudersi nelle aule delle scuole. Oppure, ancor più tragicamente, quelle immagini sembrano preannunciare anche il cosiddetto Kin Kirō jiken, quando Kwon Hyi-ro, zainichi corano condannato ingiustamente, oggetto di discriminazione, in segno di protesta si era asserragliato in un albergo prendendo una serie di ostaggi. Ma la pellicola può ricordare persino le vicende dell‟Asama Sansō jiken del 1972. Le opere di Ōshima, soprattutto quelle della “seconda fase”, sono sempre state caratterizzate per un carattere profetico. Il regista, che spesso era anche direttamente coinvolto nel processo di sviluppo del soggetto e scrittura della sceneggiatura assieme ai vari

191 “この映画ではベトナムの影が大きいですよね”, ŌSHIMA, Ōshima Nagisa 1968, op. cit., p. 133. 192 ŌSHIMA, Ōshima Nagisa cho sakushū dai ni maki..., op. cit., pp. 50-51.

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Ishidō, Tamura, Adachi, Sasaki, inseriva nelle sue pellicole abbondanti riferimenti alla realtà del suo tempo, ma nei quali si convogliavano spesso riflessioni e immagini del futuro.

“I nostri film sono sempre opere premonitrici. Noi prendiamo abbondantemente spunto sia dal passato che dal presente, ma non certo al fine di dare una spiegazione di quei tempi. Noi prendiamo abbondantemente spunto sia dal passato che dal presente solo per generare la nostra visione del futuro. Per questo il materiale raccolto acquista un significato che trascende il proprio tempo. Diventa la nostra immagine dell‟avvenire, andando a trasmettere allo spettatore un certo presentimento verso questioni ancora da accadere. Noi adesso siamo impegnati esclusivamente nella realizzazione di progetti presaghi, dal momento che riteniamo che ogni altro tipo di film sia del tutto privo di significato.”193

In ogni caso l‟opera può essere vista come la prosecuzione ideale di quel processo iniziato con

Etsuraku e Hakuchū no tōrima, in cui la pulsione sessuale che si sprigiona da Nejiko diventa

espressione soggettiva. E di conseguenza si carica di un valore rivoluzionario enorme: sesso come strumento per scardinare le maglie del tessuto sociale del paese. Per questo motivo lo Stato deve reprimere una forza tanto pericolosa, anche a costo di mettere in campo quell‟enorme dispiego di forze che si vede nella seconda parte della pellicola.

“We may understand that the police confusion which mistakes these victims for terrorists, is, in fact, the desire on the part of official culture to repress such sexual energy. Sex and revolution are understood by officialdom as two sides of the same liberating force.”194

ŌSHIMA, IL COREANO

Nel 1910 il Giappone aveva annesso la Corea al suo impero coloniale. Poi negli anni fino alla seconda guerra mondiale aveva sfruttato la popolazione di questa nazione in molti modi: costretti a combattere nell‟esercito nipponico, deportati nell‟arcipelago per lavori di bassa manovalanza, senza contare la questione delle comfort women. I problemi legati a razzismo e pregiudizi covati 193 “われわれの映画はつねに予感の映画である。われわれは過去及び現在から数々の素材を発見する けれども、われわれはそれを過去あるいは現在を説明するために使用するのではない。われわれは過 去及び現在から数々の素材を発見するのは、それがわれわれの未来のイメージを誘発する時に於いて のみである。その時もはや素材はそれ自体としての意味を越えるものとなる。そしてそれはわれわれ のイメージ自体となり、映画を見る人々に或る未来への予感を与えるものとなる。このようにして、 今われわれは専ら予感の映画をつくろうとしているのであり、それ以外の一切の映画を全て無意味だ と考えているわけである。”, ŌSHIMA, Ōshima Nagisa cho sakushū dai san maki., op. cit., p. 71.

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dai giapponesi nei confronti dei coreani scoppiarono negli anni sessanta, dopo che nel decennio precedente si era deciso essenzialmente di ignorare la questione, sfruttando il fatto che l‟attenzione generale dei cittadini fosse offuscata dai frutti del miracolo economico. Wasurerareta

kōgun introduce per la prima volta la figura del “coreano”, uno degli schemi narrativi cui Ōshima

tornerà a fare più ampio uso, come metafora del diverso, dell‟”altro”, soprattutto intorno alla metà anni sessanta quando, contemporaneamente, in Giappone iniziarono a crescere esponenzialmente episodi di intolleranza e razzismo nei confronti della minoranza coreana.

Nei film precedenti il conflitto, così come in quelli realizzati durante gli anni della seconda guerra mondiale, si tendeva spesso a dare una rappresentazione per certi versi un po‟ stereotipata dei coreani, ritratti quasi sempre come fedeli e sottomessi alla potenza del Giappone. Si veda ad esempio il film propagandistico realizzato da un giovane Imai Tadashi, che invece nel dopoguerra diverrà uno dei più attivi membri della sinistra giapponese, come Bōrō no kesshitai (“Il comando suicida della torre di vedetta”, 1943).

La situazione è destinata a cambiare radicalmente dopo il termine del conflitto, in conseguenza all‟indipendenza della Corea dal Giappone e la successiva suddivisione della penisola in due stati separati. Sono molti i coreani deportati che scelgono di rimanere nell‟ex-paese aggressore, divenendo i cosiddetti zainichi kankokujin (o chōsenjin), presenze alquanto precarie, almeno fino al 1965 quando vennero avviate una serie di accordi bilaterali tra Giappone e Corea (Nikkan Kihon Jōyaku). Diverse opere quindi possono essere prese ad esempio per spiegare le nuove modalità di rappresentazione di questa etnia, come Kabe atsuki heya (“La stanza dalle pareti spesse”, 1956) di Kobayashi Masaki, Dotanba (“All‟ultimo momento”, 1957) di Uchida Tomu, Shunpu den (“Vita di una prostituta”, 1965) di Suzuki Seijun, ecc. In tutti questi film i personaggi coreani sono adesso tratteggiati in maniera positiva: sono uomini e donne generosi, altruisti mossi da un profondo senso di moralità.195

Si tratta in parole povere di una rappresentazione positiva che sottende un consapevole tentativo di espiazione da parte di alcuni “rappresentanti” del vecchio stato occupante. Ma se da una parte il tentativo di certi autori dell‟arcipelago può risultare apprezzabile, tale lettura “umanista” sta a indicare come i giapponesi abbino preferito ricorrere alle forme del melodramma sentimentale piuttosto che impegnarsi in una lucida analisi storica delle proprie colpe. Hanno in pratica sperato di poter fare ammenda di quanto compiuto durante la guerra attraverso una rappresentazione positiva delle vecchie vittime militari, senza accorgersi di quanto una simile forzatura, per quanto tendente al positivo, costituisse comunque una distorsione innaturale, che appare ancor più evidente se paragonata alla rappresentazione che veniva data nei film nipponici degli stessi anni di altri gruppi etnici presenti nell‟arcipelago, come cinesi e

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taiwanesi. Solo a partire dagli anni settanta si iniziò a vedere un cambiamento nel modo in cui i coreani venivano ritratti su pellicola.196

Nel caso di Ōshima, fin dalle sue primissime opere sono individuabili segnali che indicano un certo interesse verso la questione coreana: in Seishun zankoku monogatari quando i giovani protagonisti vanno al cinema, viene trasmessa una notizia riguardante il successo delle proteste studentesche in Corea, probabilmente un‟immagine di speranza per tutta l‟Asia, agli occhi del regista.197 Anche nel successivo Taiyō no hakaba, il regista inserì molti coreani tra i vari lavoratori a

giornata che si aggirano per Kamagasaki. Ma, come detto, fu in seguito ai viaggi in Corea, a partire all‟incirca dal 1963 con Wasurerareta kōgun, che la questione assunse una posizione di primo piano. E poi nel 1965, con Yunbogi no nikki. Successivamente arrivarono Nihon shunka kō, Kōshikei e Kaette kita yopparai. Ōshima poi non affidò solo alle immagini i ricordi e le impressioni che il suo soggiorno in Corea aveva provocato in lui, scrivendo moltissimi articoli e saggi su quanto aveva potuto notare in quei mesi.198 Queste tematiche non scompariranno mai del tutto, tornando a “far

capolino” anche in Senjō no merii kurisumasu.

Accanto al “coreano” (parola che in italiano viene usata per tradurre sia kankokujin ovvero abitante della Corea del Sud, che chōsenjin cioè cittadino della Corea del Nord) l‟”alterità” è spesso incarnata anche dalla donna, in quanto “entrambe le categorie sono state ingiustamente oggetto di discriminazione nella società maschilista nipponica, indipendentemente che ci si trovasse negli anni precedenti o successivi la seconda guerra mondiale. Sono esclusi, presenze che si è cercato di accantonare ai margini dello stato.” 199