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Dopo undici esperienze come aiuto regista, prevalentemente con Ōba Hideo, ma anche Nomura Yoshitarō e Horiuchi Manao, Ōshima debuttò alla regia nel 1959. In precedenza aveva realizzato solo Asu no taiyō (“Il sole del domani”), che rappresentò in realtà una sorta di prova finale del periodo da aiuto regista.

Hato o uru shōnen (“Il bambino che vende i piccioni”) è il titolo originario scelto da Ōshima per

il suo primo film, che però venne bocciato da Kido, non troppo entusiasta della pellicola in sé, che per lui aveva un tono troppo grave. Infatti una volta visto il film finito, lo tacciò di essere un

keikō eiga, realizzato a sostegno della tesi dell‟inconciliabilità tra le classi più povere con quelle più

abbienti. Un simile sotteso traspare dalla visione della pellicola, ma in realtà il tema principale dell‟opera di Ōshima era più ampio; non si limitava a prendere in considerazione unicamente i contrasti tra le due classi, ma voleva rendere con Ai to kibō no machi quel malessere che accompagna l‟esistenza dell‟uomo costretto a vendere se stesso per sopravvivere, ricorrendo magari a imbrogli, truffe, che spesso portano a crimini ben peggiori. Da questo punto di vista, Ai

to kibō no machi può essere visto come una sorta di “introduzione”, in quanto Ōshima riprenderà il

concetto, ampliandolo e conferendogli maggior spessore nel successivo Seishun zankoku monogatari. Egli voleva poi mostrare il giudizio che spietatamente la società dà a proposito di questi individui, dopo averne guidato le azioni verso ciò che lo stato stesso riconosce come crimine. La spinta alla “sopravvivenza”, intesa unicamente come avere un lavoro che permetta all‟uomo di mangiare e vivere, è divenuta la morale che guida la moderna società capitalista, invece che un semplice bisogno umano. Masao è costretto a vendersi, indipendentemente dal fatto che la propria famiglia versi in condizioni disagiate. Il dramma che il film mette in scena è prima di tutto quello dell‟alienazione, che Ōshima sceglie di rappresentare concretamente attraverso una storia di povertà,98 benché egli faccia attenzione a non avvicinarsi a quelle descrizioni pietistiche che

caratterizzavano le produzioni precedenti. Il titolo che venne imposto dai quadri della Shōchiku, cercava infatti di ricollocare il film proprio in quel genere “naturalistico” che il regista tentò in tutti i modi di evitare.

98 『愛と希望の街』なんかでも、けっして貧乏人のドラマじゃなくて、被疎外感をもつということの

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Masao è costretto a una truffa, vendere piccioni che sa che ritorneranno da lui, per sostenere la propria famiglia, composta dalla madre malata e da una sorellina più piccola. Egli incontra Kyoko, sua coetanea, figlia di una ricca famiglia di industriali. Il fratello della ragazza, Yuji, decide di assumere Masao nella loro azienda, anche grazie alla mediazione della maestra del giovane, molto partecipe della sua vita. Tuttavia quando la truffa di Masao viene scoperta, egli vede sfumare l‟opportunità del lavoro. Nel finale, anche Kyoko viene a conoscenza del suo imbroglio, e decide allora di comprare per l‟ultima volta i piccioni solo per liberarli e ucciderli. Non seguono ulteriori spiegazioni sul destino dei personaggi. Maureen Turim fa notare che questa scena rappresenta il culmine di una violenza, di un risentimento che nasce da due momenti precedenti: il primo vede l‟insegnante lasciare Yuji, col quale aveva iniziato una relazione, dal momento che i mondi in cui vivono sono divisi da una distanza incolmabile. Nell‟altro, dei ragazzi del quartiere dove vive Masao, lo prendono in giro vedendolo tornare sotto l‟ombrello assieme a Kyoko, vista come un‟invasore del loro ambiente. In entrambe le scene si può assistere a un tentativo fallito di storia d‟amore, o comunque un avvicinamento tra classi che non porta altro che risentimento. Questi sentimenti d‟astio sfociano liberi così nella scena finale in cui Kyoko e Yuji sparano ai due piccioni, uccidendo uno dei simboli di unione tra i due universi.99 Il finale infatti sembra

rafforzare l‟idea di un‟incomunicabilità tra le realtà dei due protagonisti. Idea che nel corso del film viene rafforzata anche con altri stratagemmi: ad esempio ricorrendo a simboli visuali come la scala, presente nell‟ingresso della casa in cui vive Kyoko. La scala è un elemento architettonico piuttosto ricorrente in Ai no kibō to machi, perché capace di veicolare in maniera immediata l‟idea di una precisa gerarchia, di un “sopra” e di un “sotto” sociali, nel quale collocare i vari personaggi della rappresentazione. Come nel caso in cui Kyoko, quando invita Masao a casa sua, scende dalla scala dell‟ingresso per andargli incontro (per mettersi al suo livello). Anche la maestra quando nel finale lascia Yuji, rinunciando a un legame affettivo che l‟avrebbe affrancata dalla propria modesta situazione, scende una scala che la riconduce in quei “bassifondi” dai quali si era illusa di poter sfuggire. Rinuncia così alla sua “scalata” sociale. Nell‟opera poi la diversa estrazione dei due ragazzi è sottolineata anche dalla posizione delle due abitazioni: in una zona industriale lungo il fiume, quella di lui, e svettante su un‟altura quella di lei.100 Se la scala serve a rimarcare le distanze

tra i due mondi, i piccioni sono il tramite che li uniscono. Il giovane protagonista, appartenente agli strati più bassi della popolazione, vende i due uccelli a una compagna che invece fa parte di una ricca famiglia. Essi poi torneranno da lui, per poi essere rivenduti nuovamente. Ma la scena finale rompe in maniera definitiva tale legame. Da questo punto di vista, inoltre, anche la maestra può essere considerata come una figura di collegamento tra i due universi, avendo entrambi i

99 TURIM, The films of Ōshima Nagisa., op. cit., p. 30. 100 ŌSHIMA, Ōshima Nagisa. op. cit., p. 95.

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ragazzi nella sua classe, e adoperandosi affinché Masao riesca a essere assunto nella fabbrica del padre di Kyoko.

L‟imbroglio di Masao prefigura uno dei temi che ritorneranno costantemente nel cinema di Ōshima: il crimine. Tale elemento va a incarnare la logica perversa del sistema di scambi alla base del capitalismo. Nel caso della pellicola, la vendita dei piccioni rappresenta un irregolare circolo di denaro, dal momento che le merci acquistate normalmente, poi tornano a casa. Se il capitalismo è una parte del mondo borghese cui Kyoko e Yuji appartengono, a essa il regista sembra contrapporre il mondo “innocente” rappresentato dalla sorellina di Masao, impegnata disegnare animali morti e che più di tutti è vissuta isolata dal mondo.

Il ragazzo è conscio delle sue azioni, sa di star commettendo una truffa quando vende dei piccioni che poi torneranno da lui; ma allo stesso tempo è consapevole della situazione familiare che rende inevitabile il ricorrere a stratagemmi simili per sopravvivere. L‟opera inizialmente può anche sembrare un tradizionale film à la Ōfuna: una volta scoperto il suo trucco, il fratello di Kyoko decide di non dargli più il lavoro nella sua fabbrica. Nei melodrammi tradizionali, a questo punto, il ragazzo si sarebbe scusato, così Yuji, commosso dalla contrizione del ragazzo, avrebbe cambiato idea rendendogli il lavoro promesso. Invece Masao decide di non abbassare la testa e sacrificare così il suo orgoglio. Anzi reagisce con rabbia, e poco dopo distrugge furiosamente le gabbie dei piccioni, di fronte alla sorellina in lacrime. I cardini di quell‟umanismo strappalacrime che sorreggevano le vicende dei film della Shōchiku vengono completamente divelti in poche scene. Il finale del film poi, quando Kyoko chiede al fratello di sparare ai piccioni, simbolo della sua relazione col giovane, non fa che ribadire nuovamente l‟ombra di pessimismo che aleggia sull‟opera. In realtà con quel gesto il fratello è come se volesse sfogare anche la sua rabbia per la storia d‟amore finita male con la maestra, che in qualche modo sceglie di lasciarlo per restare dalla parte degli “oppressi” come Masao.

A proposito dell‟orgoglio dimostrato dal ragazzo, non è esagerato affermare che rappresenti una caratteristica distintiva dei personaggi dei primi film di Ōshima. Masao quando la sua truffa viene scoperta, non si scusa ad esempio con Kyoko per tutto ciò, perché la condizione in cui si trova non gli permette di agire diversamente. Sbandiera il fatto di aver venduto i suoi piccioni più volte, rivelando alla ragazza l‟essenza del suo “crimine”, dal momento che il proprio ego non gli consente di ammettere che quello che aveva fatto in passato era sbagliato. Ma allo stesso modo non gli consente neanche di poter continuare all‟infinito con l‟inganno dei piccioni, e quindi distrugge le gabbie verso la fine del film. Egli non vuol diventare un delinquente, ma anche ammettere di aver sbagliato e correggere la propria condotta non era una via praticabile. Il delinquente che Masao avrebbe potuto diventare è il Kiyoshi di Seishun zankoku monogatari, che usa la sua ragazza per estorcere soldi agli adulti. Un altro film con cui Ai to kibō no machi mostra

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una sorta di legame è Shōnen (“Il bambino”, 1969). Il volto inespressivo alla fine, che osserva Kyoko andarsene per sempre è quello di Toshio che guarda franare le sue illusioni assieme al pupazzo di neve. Entrambi costretti a ricorre a piccole truffe per sopravvivere nella società nipponica del periodo, ed entrambi costretti ad affrontare la realtà di quel gesto. Non solo, quell‟inespressività è anche quella di R, il protagonista di Kōshikei (“L‟impiccagione”, 1968). La loro mancanza di espressione deriva dalla maturazione dolorosa, sulla propria pelle, di esser parte di una minoranza, costretta a subire la discriminazione delle stesso ordine civile, vuoi a causa di motivazioni legate alla nazionalità, posizione sociale, ecc.

Gli attori principali della pellicola, il giovane protagonista, la sorellina e Kyoko, sono tutti e tre principianti assoluti. Anche nei successivi film Ōshima si troverà molto spesso a lavorare con debuttanti o personaggi provenienti da altri campi. Sempre però circondato da un folto gruppo di attori feticcio che compariranno decine di volte nelle sue pellicole. In Ai to kibō no machi, appare per la prima volta uno dei più “fedeli”, cioè Watanabe Fumio, all‟epoca già star affermata della Shōchiku, che interpreta il fratello della studentessa. Quest‟ultima è Fumie Yuki, cantante rock giapponese. Ōshima è ricorso molte volte a dei cantanti per i suoi film, tra cui Sasaki Isamu, David Bowie, Araki Ichirō. A tal riguardo egli affermò che i cantanti vivono l‟intero proprio corpo come uno strumento musicale, e quindi riescono a dare un contributo di prima qualità all‟opera.101 Ovviamente l‟essere un musicista non era una caratteristica sufficiente per pensare di

poter entrare nelle grazie di Ōshima, che ricorda come un‟altra qualità che ricercava tra i musicisti, fosse una sfumatura “aliena”.102 Lavorando spesso con gli stessi attori, per coloro che di volta in

volta si aggiungevano, non ricorreva comunque a provini o simili. Di contro egli faceva molta più attenzione nella scelta della squadra di tecnici (operatore, direttore fotografia) che avrebbe dovuto poi accompagnarlo nella realizzazione della pellicola.

Ancora, a proposito dei personaggi principali dell‟opera, Yomota Inuhiko propone un‟analisi di queste figure dividendo i ruoli principali degli interpreti in tre categorie: yokuatsusha (“oppressori”), zasetsusha, (“perdenti”) e kōisha (“agenti”). In Ai to kibō no machi gli yokuhatsusha si presentano sotto due diverse forme: la prima è quella del poliziotto che fa allontanare il giovane protagonista dall‟angolo di strada in cui si riuniscono i lustra-scarpe perché egli non ha il permesso per quell‟attività. Oppure il padre borghese di Kyoko e Yuji, che fa il dirigente nell‟‟azienda di famiglia. Ma entrambi gli esempi non sono comunque rappresentativi della categoria, nel senso che il vero ruolo di “oppressore” in questo film, non è chi vieta o comanda ma, come paradossalmente viene già rivelato nel titolo che la Shōchiku impose a Ōshima, sono quei ruoli che si fanno “portatori” di amore e speranza. Si tratta di quei personaggi femminili che

101 ŌSHIMA, Ōshima Nagisa. op. cit., p. 77.

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seppur spinti dalle migliori intenzioni e certamente non bramose del male per Masao, finiscono per configurarsi nella narrazione come i veri yokuatsusha. La prima è la stessa madre malata del protagonista che vorrebbe che lui continuasse a studiare invece di andare a lavorare in fabbrica. L‟altra è la maestra che è d‟accordo con la decisione della madre. Infine anche la stessa Kyoko, che tuttavia, dopo aver dimostrato inizialmente buon cuore comprando i piccioni del protagonista, finisce per passare dalla parte degli “oppressori”, ovvero di quanti cercano di imporre il proprio punto di vista, morale o pensiero al giovane protagonista. L‟unica figura femminile del film a non rientrare in questa categoria è la sorellina, che invece è un essere debole bisognoso di “protezione” da parte di Masao, oltre che essere elemento innocente e puro.

Tra i “perdenti” c‟è sicuramente il fratello di Kyoko. Spinto da un moto umanitario, ai tempi dell‟università era stato coinvolto nelle attività di assistenza sociale, ma una volta raggiunto il limite di questo umanismo, non si fa problemi ad accettare il ruolo di a.d. nell‟azienda di famiglia. Yomota fa un‟osservazione interessante a proposito di Watanabe Fumio, e del percorso che egli sembra intraprendere nei film della prima parte di carriera di Ōshima. Egli, all‟epoca dell‟esordio del regista, era già una star affermata, un attore di primo piano, che anche nei seguenti film di Ōshima sembra rimanere incollato alla figura del “perdente”: dal medico abortista del successivo

Seishun zankoku monogatari, al giornalista di Nihon no yoru to kiri; dal padre di famiglia in Shōnen al

detenuto in Cina di Gishiki (“La cerimonia”, 1971), i suoi ruoli nei film del cineasta sembrano mostrare una certa coerenza strutturale.103

L‟unico “agente” dell‟opera è il giovane protagonista. Egli conserva un atteggiamento pacato, educato nei confronti di quanti cercano di imporre la propria volontà su di lui. Ma il suo silenzio, la sua inespressività nei confronti di questi ultimi è un atteggiamento volontario, mirato a evitare di scoprirsi troppo nei loro confronti. Masao non fa mai quanto gli viene ordinato, arrivando anche a distruggere con un‟accetta le gabbie dei piccioni di fronte a madre e sorella, quando capisce che la misura è ormai colma e un‟ulteriore ripetizione del suo imbroglio lo avrebbe trasformato in un criminale vero e proprio. Il suo comportamento non può essere compreso dai vari adulti come Yuji o la maestra, ma solo Kyoko riesce intuitivamente a capire.104

La pellicola ha un carattere neorealista come mai più nei film di Ōshima, pur conservando i tipici caratteri di critica ideologica e indagine sociale che invece ritorneranno pressoché sempre.

Ai to kibō no machi inoltre presenta una particolare dimensione autobiografica che scomparirà nelle

opere successive. La situazione di Masao ricorda molto quella del giovane Ōshima, che dopo la morte del padre fu costretto a vivere assieme alla madre e alla sorellina in una situazione di povertà molto simile a quella descritta nel film.

103 YOMOTA Inuhiko, Ōshima Nagisa to Nihon, Tokyo, Chikuma Shobō, 2010, p. 29. 104 YOMOTA, Ōshima Nagisa..., op. cit., pp. 79-85.

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Kido come detto non fu particolarmente entusiasta del lavoro del regista, troppo attento alla dimensione sociale per gli standard dell‟epoca. E infatti l‟aver disubbidito ai voleri dell‟azienda, costò a Ōshima una sospensione di sei mesi dal lavoro. Il film comunque venne distribuito, anche se in un numero alquanto limitato di copie. Tuttavia l‟attenzione positiva che seppe suscitare tra la critica del tempo convinse i vertici della Shōchiku ad affidare un nuovo progetto al giovane autore.