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 3 Migrazioni giovanili e transizione all'età adulta

4.1  La generazione come attore sociale

Trattare il tema della transizione all'età adulta comporta necessariamente il doversi confrontare   con   il   concetto   di   generazione.   Tanto   più   se   l'interesse   è   rivolto   in particolar modo a giovani migranti a cui spesso nel dibattito pubblico ed accademico ci si riferisce in termini generazionali (valga come esempio il diffuso uso proprio ed improprio dell'espressione “seconda generazione”). Cosa si intende per generazione? Può la generazione, al di là del dato anagrafico, essere intesa come un attore sociale e culturale? Può fornire un qualche contributo all'interpretazione dei comportamenti individuali?  Con un saggio dedicato al tema, Karl Mannheim inaugurò il dibattito sociologico sulle   generazioni   (1928).   Propose   una   riflessione   articolata   che,   partendo   dalla critica   delle   formulazioni   del   problema   da   parte   tanto   del   pensiero   positivistico quanto   di   quello   romantico­storico,   intese   individuare   i   caratteri   distintivi   e   le funzioni attribuibili alle generazioni. Per evitare confusione tra fenomeni biologici e fenomeni   sociali   e   culturali,   il   sociologo   procede   a   distinguere   tra   collocazione, legame e unità di generazione. Argomenta, infatti, come sia la “collocazione  affine degli individui...nello sviluppo storico del processo sociale” (Ibidem: 48) ad unire membri appartenenti ad una stessa coorte anagrafica, esposti contemporaneamente ai   medesimi  fatti   storici   e   alle   stesse  esperienze,   da  cui  potenzialmente  ma   non necessariamente   si   può   originare   un   gruppo   attivo.   Parla,   invece,   di  legame   di

generazione  quando si assiste ad “una partecipazione ai destini comuni di questa

unità   storico­sociale”   (Ibidem:   73),   quando   cioè   gli   individui   di   una   stessa generazione condividono orientamenti valoriali e pratiche sociali. Ma è solo quando vi è un'unità di generazione che si può parlare propriamente di un'identità collettiva, caratterizzata  da un nesso più  concreto ed intenso,  da “un reagire unitario,  una pulsazione  e  una configurazione  affine  di  individui all'interno  della  generazione” (Ibidem: 81). È a queste condizioni, quando vi  è un reagire comune, esito degli eventi storici, che secondo Mannheim, la generazione può essere interpretata come soggetto collettivo portatore attivo di cambiamento sociale. 

ingredienti   per   un   compiuto   approccio   sociologico   al   tema   delle   generazioni considerate   come   effetto,   e   nello   stesso   tempo   come   causa,   del   mutamento storico­sociale.   Tale   approccio   parte   dall'assunto   fondamentale   che   il   mutamento storico­sociale,   per   sua   natura   discontinuo,   produca   un   impatto   differenziato   a seconda della fase del ciclo di vita in cui si trovano gli individui” (1998: 22). 

Secondo   Cavalli   i   giovani   che   si   affacciano   alla   vita   adulta,   sperimentando   e praticando   per   la   prima   volta   l'autonomia   di   giudizio   ed   opinione   rispetto all'influenza   esercitata   negli   anni   precedenti   dalle   tradizionali   agenzie   di socializzazione   rappresentate   dalle   reti   famigliari   e   dalle   istituzioni   scolastiche, risultano   particolarmente   recettivi   rispetto   agli   eventi   di   svolta   di   natura storico­politica. È in questa fase di vita, quindi, che l'esposizione diretta o mediata ad un evento di rottura può condurre ad un processo di apprendimento generazionale. Quali   caratteristiche   debbano   avere   gli   eventi   traumatici   per   produrre   un   tale risultato non è possibile stabilirlo a priori anche se necessariamente sono chiamati a rappresentare un punto di svolta rispetto al passato. Per dirlo con le parole di June Edmunds e Brian Turner (2002), l'evento traumatico allontana la generazione dal suo passato e la separa dal suo futuro, divenendo potenzialmente la base per la nascita di un'ideologia collettiva.  La migrazione internazionale per un collettivo di giovani tanto più se spesso vissuta come passaggio involontario a seguito delle famiglie con tutte le sfide, gli stimoli e le difficoltà   psicologiche   e   materiali   che   comporta   può   costituire   l'evento   di   cesura intorno a cui riconoscersi o essere riconosciuti in quanto parte di una generazione?  Julio   Monteiro   Martins,   scrittore   brasiliano   ed   esperto   conoscitore   di   letteratura migrante,   definisce   la   migrazione   come   una   sorta   di   suicidio   amministrato   e autogestito.   La   scelta   di   migrare   ha   per   lui   il   significato   di   “uccidersi   per   darsi l’opportunità di rinascere diverso altrove”. Si taglia con ciò che si era e si ricomincia da un'altra parte: si lascia il proprio mondo e i significati ad esso legati, si scopre una nuova   lingua   e   talvolta   si   cambia   anche   nome,   che   nel   nuovo   contesto   viene riadattato. La traumatica dissociazione psicologica che vivono tutti i migranti porta quindi ad una nuova costruzione identitaria. Qual è l'impatto di queste esperienze per soggetti che sono ancora in formazione? Quanto incide il fatto che la decisione non sia autonoma ma guidata dall'intorno famigliare? La condivisione di un tale trauma può far nascere una sorta di identificazione fra simili?

Secondo   l'interpretazione   di   Enzo   Colombo   (2005),   il   fatto   di   vivere simultaneamente   un'esperienza   biografica   forte   come   quella   della   migrazione   dà origine ad una specifica collocazione di generazione che potenzialmente può divenire un   vero   e   proprio  legame   di   generazione,  se   accompagnata   dalla   percezione   di compartecipare   alla   costruzione   di   un   nuovo   futuro,   di   condividere   un   percorso differente sia rispetto a quello compiuto dai famigliari sia rispetto a quello dei pari. A suo   dire,   infatti,   “i   giovani   di   origine   straniera   inseriti   nelle   scuole   superiori costituiscono un insieme particolare, in quanto, potenzialmente, sono diversi dai loro genitori perché maggiormente a contatto con modelli differenziati e sono diversi da molti loro coetanei perché maggiormente coinvolti – in forma diretta o mediata – nell’evento   migratorio.”   (2005:   71).   Ciò   ovviamente   non   presuppone necessariamente   un'omogeneità   di   pratiche   e   prospettive,   non   venendo   meno   le differenze sociali e culturali interne al gruppo.   

Negli studi condotti da Edmunds sull'agire politico dei giovani musulmani che vivono in   Gran   Bretagna   (2010)   si   mostrano   esperienze   in   cui   le   differenze   tra   le generazioni   in   termini   di   risorse   ed   aspirazioni   nel   contesto   migratorio   attuale finiscono per dare impulso a forme di coesione intragenerazionali, che uniscono al di là   dei   confini   geografici.   Rispetto   ai   loro   genitori,   i  giovani   musulmani   coinvolti nell'indagine   dimostrano,   infatti,   di   possedere   un   orientamento   politico   più universalistico. Dimostrano che la salvaguardia dei principi religiosi tradizionali non necessariamente deve essere praticata all'interno di comunità chiuse ma può sposarsi con uno sguardo aperto all'esterno e al confronto con gli altri. L'attivismo politico e religioso dei giovani si dispiega con modalità innovative. A differenza della prima generazione, le esperienze traumatiche (come l'attacco terroristico dell'11 settembre e i conflitti armati in Cecenia, Iraq e Palestina) che hanno dato il via alle prime sperimentazioni di impegno politico, sono state per lo più vissute attraverso i media globali. L'esigenza di rispondere alla stigmatizzazione crescente, imposta dall'azione di una minoranza, ha portato alla creazione di strumenti di comunicazione nuovi attraverso cui farsi conoscere, e al tempo stesso, in cui potersi ri­conoscere. Nascono così nuovi giornali e siti d'informazione. L'attenzione delle associazioni e dei gruppi organizzati di studenti musulmani, a differenza del passato, si concentra meno su cause di natura religiosa e più su questioni relative al rispetto dei diritti umani. Secondo   l'autrice,   le   battaglie   che   portano   avanti   non   hanno   tanto   un   focus

transnazionale, nel senso di connesso in maniera esclusiva al loro Paese d'origine, quanto globale, attento a ciò che accade nel resto del mondo. 

Attraverso forme diverse sembra dunque riproporsi il classico tema del conflitto e della competizione intergenerazionale intorno alle risorse, su cui ha lavorato a lungo Bourdieu.   Zhou   (1997)   utilizza   il   concetto   di   “dissonanza   generazionale”   per sottolineare   la   peculiarità   di   quanto   avviene   nell'esperienza   di   molte   famiglie migranti. Con “dissonanza generazionale” si vuole indicare, infatti, che lo scontro tra generazioni si fa emotivamente più denso rispetto a quello tra genitori e figli che condividono un medesimo contesto territoriale e sociale. Secondo Roncaglia (2003) che   prende   in   esame   l'esperienza   di   alcune   famiglie   cinesi   in   Italia,   il   divario generazionale rischia talvolta di trasformarsi in un divario culturale e comunicativo. Ciò avviene quando i figli, grazie alle competenze linguistiche e sociali acquisite nel percorso   scolastico,   assumono   in   via   informale   e   talvolta   ambigua   il   ruolo   di mediatore interculturale per la propria famiglia. Per dirlo con  le parole di Anna Granata, “il gap tra genitori e figli diviene più forte nelle famiglie immigrate anche per il rovesciamento dei ruoli che spesso caratterizza il rapporto all'interno della famiglia: i figli conoscono meglio dei genitori la lingua italiana, si sanno muovere con maggiore disinvoltura nella società, e per questo si trovano spesso ad assumere ruoli di responsabilità che spetterebbero a persone più adulte, rischiando di diventare in certe occasioni genitori dei propri genitori” (2011:104).

Approcciare   il   fenomeno   migratorio,   tenendo   in   considerazione   la   variabile generazionale   delle   migrazioni,   offrirebbe   la   possibilità   di   costruire   una   cornice teorica   coerente   al   cui   interno   declinare   le   distinte   osservazioni   empiriche, inquadrare   le   forme   che   la   competizione   intergenerazionale   tende   ad   assumere localmente e rispondere alle sfide poste dall'intendere quella dei giovani che migrano come   un   gruppo   peculiare   seppur   multiforme.   “Utilizzare   una   prospettiva   di generazione   consente   di   evitare   di   considerare   l’appartenenza   etnica   come   la determinante   fondamentale   dell’azione   di   questi   giovani,   senza   occultarne   la rilevanza   nella   formazione   di   differenti   unità   di   generazione.   Evita   quindi   di trasformare   concetti   come   quelli   di   etnia,   cultura,   identità,   ma   anche   quello   di seconda generazione, da costrutti analitici a caratteristiche ontologiche che vincolano a destini già definiti” (Colombo, 2005).