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Un intervento che risulta necessario è quello da porre in essere per risolvere il problema delle c.d. porte girevoli.

Il legislatore ha inteso evitare fenomeni di eccessiva carcerizzazione andando a disciplinare i momenti immediatamente successivi all’arresto o al fermo operato dalla polizia giudiziaria. Testimonianza dell’intento di bloccare il fenomeno del turn over penitenziario, sono le diverse norme contenute nell’art. 389 c 1, c.p.p., che impongono al p.m. di constatare, prima della presentazione dell’arresto al giudice, se esistano le condizioni di legittimità per confermare quest’ultimo. Inoltre, l’art. 121 disp. att. c.p.p consente al p.m. di porre in libertà, con decreto motivato, l’arrestato in relazione al quale non intende formulare richiesta di misura coercitiva. L’art. 386 c 5 del c.p.p. , consente al p.m. di disporre che l’arrestato, in 130 attesa di giudizio di convalida, sia custodito presso il suo domicilio. L’insieme di queste norme dimostrano che l’ingresso in carcere non deve essere l’unica finalità dell’arresto, bensì che il p.m. ha ampi spazi di

Art. 386 c 5: “Il pubblico ministero può disporre che l'arrestato o il fermato sia 130

custodito, in uno dei luoghi indicati nel comma 1 dell'articolo 284 ovvero, se ne possa derivare grave pregiudizio per le indagini, presso altra casa circondariale o mandamentale.”

intervento e discrezionalità. L’art. 558 c 1 del c.p.p. disciplina che la 131 polizia giudiziaria che ha posto in essere l’arresto e ha in consegna il soggetto, lo conduca direttamente dal giudice del dibattimento per la convalida dell’arresto, il comma seguente del medesimo articolo continua disponendo che, se il giudice non tiene udienza, l’arrestato può essere presentato a quella successiva, entro 48 ore. La scelta di presentare il soggetto direttamente al giudice spetta al p.m., così come dispone l’art. 163 c 1 delle disc. att. del c.p.p.

In attesa della udienza davanti al giudice, è compito della polizia giudiziaria trattenere il soggetto il tempo necessario presso i propri uffici, in modo tale da evitargli il contatto con il carcere. Soprattutto nei grandi centri metropolitani, si potrebbe ipotizzare di destinare alcuni spazi nei penitenziari all’accoglienza degli arrestati, senza la vera e propria assunzione in carico nel carcere. In questi casi potrebbe essere opportuno prevedere che la forza di polizia che ha eseguito l’arresto, che solo per mancanza fisica delle camere di sicurezza ha condotto l’arrestato in carcere, proceda alla traduzione dall’istituto al Tribunale per la procedura di convalida.

L’unico caso che giustifichi il fatto che l’arrestato venga accompagnato in una casa circondariale o mandamentale si ha quando il p.m. ordina che il soggetto sia posto a sua disposizione, secondo quanto prevede l’art. 386 c 5 del c.p.p.

Art. 558 c.p.p.: “Gli ufficiali o gli agenti di polizia giudiziaria che hanno 131

eseguito l'arresto in flagranza o che hanno avuto in consegna l'arrestato lo conducono direttamente davanti al giudice del dibattimento per la convalida dell'arresto e il contestuale giudizio, sulla base della imputazione formulata dal pubblico ministero. In tal caso citano anche oralmente la persona offesa e i testimoni e avvisano il difensore di fiducia o, in mancanza, quello designato di ufficio a norma dell’art. 97, c 3. Quando il giudice non tiene udienza, gli ufficiali o gli agenti di polizia giudiziaria che hanno eseguito l'arresto o che hanno avuto in consegna l'arrestato gliene danno immediata notizia e presentano l'arrestato all'udienza che il giudice fissa entro 48 ore dall'arresto. Non si applica la disposizione prevista dall’art. 386.”

Il complesso delle norme analizzate intende limitare il fenomeno delle detenzioni brevissime e di conseguenza scongiurare quegli ingressi in carceri non strettamente necessari. Si deve procedere all’organizzazione di un sistema di accoglienza degli arrestati presso gli uffici di polizia che sia capace di garantire la funzionalità dell’ufficio e le esigenze di sicurezza e di dignità dei soggetti coinvolti.

L’applicazione delle regole esposte consentirebbe di limitare considerevolmente il numero degli ingressi in carcere, che a posteriori risultano evitabili.

Il fenomeno del sovraffollamento penitenziario ha alle sue spalle scelte di politica giudiziaria che hanno diretta incidenza sullo stato delle carceri. Non solo è doveroso, ma è possibile, tentare di contenere il tasso di presenze carcerarie sotto controllo senza mutare l’assetto normativo. La cultura giurisdizionale ci ha portato al dato per cui, da anni, circa il 30% degli arresti è seguito da subitanee scarcerazioni. La scelta di forzare sempre la misura cautelare e di non procedere alla immediata liberazione del soggetto, come invece è indicato dall’art. 121 disc. att. c.p.p., al solo fine di effettuare il giudizio direttissimo con la presenza fisica dell’imputato è una scelta processuale che incide fortemente sulle condizioni carcerarie. Con questa politica vi è anche l’ulteriore rischio di modificare il ruolo del p.m. che sempre meno deve occuparsi di libertà personale e sempre di più della sicurezza collettiva. Se invece si affermasse la prassi per cui il p.m. non ordina alla polizia giudiziaria di trattenere il soggetto nelle case circondariali, si andrebbero ad evitare inutili ingressi in carcere, senza per altro comportare una ricaduta negativa per l’organizzazione giudiziaria.

La Corte Edu ha sentenziato che l’applicazione della custodia cautelare e la sua durata dovrebbe essere ridotte al minimo compatibile con gli interessi della giustizia e ciò dovrebbe indurre gli Stati a favorire un uso più ampio possibile della alternative alla custodia cautelare quali ad

esempio l’obbligo, per l’indagato, di risiedere ad indirizzo specificato, il divieto di lasciare o di raggiungere un luogo senza autorizzazione, la scarcerazione su cauzione, o il controllo e il sostegno di un organismo specificato dall’autorità giudiziaria.