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Giampaolo Salice

Dipartimento di Storia, Beni Culturali e Territorio, Università di Cagliari - giampaolo.salice@unica.it

ABSTRACT

In età moderna numerosi Stati europei progettano l’impianto di colonie di popolamento nei propri territori per promuovere incremento demografico, estensione delle coltivazioni, manifatture e commerci. Tra Sei e Settecento, sono soprattutto forestieri i coloni impiegati in simili intraprese. Gli studi storici hanno ricostruito alcuni episodi di riassetto territoriale, ma manca un lavoro di sintesi complessiva che legga i diversi esperimenti in una cornice globale e comparata.

Questo contributo dà conto del progetto dal titolo ‘Migrazioni e colonizzazione interna nel

Mediterraneo d’età moderna’ e delle soluzioni digitali che, nell’ambito del medesimo progetto, sono state adottate per

facilitare l'organizzazione e lo studio delle fonti relative al coinvolgimento dei forestieri nelle politiche statali di colonizzazione interna nello spazio euro-mediterraneo d’Antico Regime.

PAROLE CHIAVE

Colonizzazione interna, migrazioni, diaspora, Omeka, Neatline, Età moderna

1. LO STATO DELL’ARTE

Le strategie adottate da principati e repubbliche europee per attrarre forestieri sui propri territori sono da tempo al centro di una cospicua produzione scientifica, che ha concentrato la sua attenzione prevalentemente sulle città portuali e sui porti franchi1; spazi destinati ad attrarre mercanti e agenti capaci di collegare i terminali portuali con le reti commerciali mediterranee ed atlantiche. La rifondazione cinquecentesca di Livorno è figlia di questa tensione generale, che fa della città toscana uno spazio di libertà economica e di relativa tolleranza verso le religioni non cattoliche (Burigana 2015): tra XVI e XVII secolo vi si stanziano greci ed ebrei di origine italiana, tedesca, portoghese (Galasso 2002; Lehmann 2005; Marcocci 2009; Funis 2007). Ma sono i porti di tutta Europa, inclusi quelli dello Stato della Chiesa (Caffiero 2014) e Spagna (Franch Benavent 2003), che tra Sei e Settecento accolgono forestieri, esuli, migranti, dando loro la possibilità di partecipare da protagonisti alla costruzione dei grandi imperi coloniali e delle reti globali di scambio olandesi (Klooster 2009), britanniche (Panagopoulos 1956; Benady 1992) e russe (Breyfogle, Schrader, and Sunderland 2007).

Se notevole attenzione è stata dedicata dagli storici agli stanziamenti di migranti forestieri negli spazi urbani, lo stesso non si può dire per quelli promossi negli entroterra. La colonizzazione interna d’età moderna è argomento piuttosto frequentato dagli studiosi del secolo scorso e del presente. Si pensi, solo per fare qualche esempio, ai lavori sulla Sicilia (Aymard 1972; Benigno 1986; Verga 1978), sulla Sardegna (Day 1987; Ortu 1996; Ortu 2014; Salice 2010; Salice 2015a) o sulla Spagna (Barrado 2014). Tuttavia, è mancata attenzione specifica ai programmi di riassetto territoriale condotti con coloni. In anni vicini a noi, il tema è tuttavia affiorato grazie a lavori incentrati sulla mobilità umana e le migrazioni nei contesti toscano (Santus 2013), genovese (Nicholas 2005), austriaco (O’Reilly 2003; Alcoberro i Pericay 2011), sardo-piemontese (Salice 2012; Salice 2017a) e minorchino (Salice 2017b). Lo studio della colonizzazione interna della Russia, inoltre, ha aperto un’interessante riflessione sull’impatto che le politiche di riassetto del corpo territoriale dello Stato hanno avuto nella scrittura

stereotipata delle identità locali/nazionali (Etkind 2013). A tutt’oggi manca comunque una lettura complessiva del fenomeno alla scala europea e mediterranea, tale da consentirci di collocare il singolo progetto di fondazione dentro un quadro trans- locale. ‘Migrazioni e colonizzazione interna nel Mediterraneo d’età moderna’ nasce dal proposito di colmare simile lacuna.

2. LA SCELTA DEL CSM OMEKA

L’impiego di coloni forestieri nei progetti di riassetto del corpo territoriale dello Stato è tema complesso e articolato. Per studiarlo occorre adottare un approccio comparato, una prospettiva transdisciplinare, affiancata dagli strumenti della micro- storia e della global history.

I livelli di indagine sono molteplici e le informazioni che scaturiscono dalla ricerca sono eterogenee e disperse. La documentazione archivistica è d’ambito sia secolare che ecclesiastico e può avere carattere istituzionale e/o privato, perché la riforma degli assetti territoriali è l’esito di una politica pubblica, che chiama però in causa e si intreccia con le biografie degli individui che vi si trovano a vario titolo coinvolti: coloni certo, ma anche funzionari di governo, intellettuali, procuratori e mediatori culturali. Della gran parte di questi individui conosciamo a mala pena il nome, ma è possibile imbattersi in figure dal significativo spessore documentale, avendo giocato un ruolo centrale nelle relazioni di potere attivate dalla colonizzazione, alla scala locale, tras-locale e talvolta globale. Anche quando i progetti di colonia interessano un’area circoscritta e

coinvolgono un numero limitato di coloni, persino quando falliscono, possono innescare una produzione documentale consistente, che consente di ricostruire sia le fasi dello stanziamento, sia la discussione preparatoria tra le cancellerie e i rappresentanti dei migranti. Gli accordi tra le parti vengono formalmente esplicitati in un contratto che, generalmente, assume la forma di capitoli. È soprattutto questa tipologia di documento che si punta a digitalizzare, trascrivere e rendere accessibile. I patti di colonizzazioni indicano infatti non solo prescrivono le condizioni e gli impegni che le autorità stabiliscono in cambio della cessione del territorio, ma sono lo specchio dei valori e degli obiettivi che ispirano la politica pubblica. La gestione di documenti e informazioni così eterogenee (dalle bibliografie, ai documenti d’archivio, dalle descrizioni archivistiche, alle mappe cartografiche, alle fotografie dei siti indagati) può essere efficacemente condotta solo se si dispone di un sistema di archiviazione dei dati standardizzato e preventivamente allestito. Seguendo l’esempio di altri progetti tuttora in corso2, si è deciso di dotarsi di un sistema di gestione digitale dei materiali della ricerca (Omeka), concepito per facilitare l’organizzazione della documentazione necessaria allo studio. Omeka consente di trasformare ogni documento reperito in un oggetto digitale (item) che può essere sia marcato con metadati internazionalmente riconosciuti (ad es. Dublin Core) e semplici etichette (tag), sia georeferenziato attraverso una mappa. Gli oggetti digitali possono essere organizzati in collezioni e in percorsi tematici, disegnati in base alle esigenze della ricerca. Ciascun item è inoltre costantemente implementabile alla luce delle nuove evidenze prodotte dalla ricerca.

Soprattutto grazie ad Omeka, i singoli materiali, le collezioni, i percorsi tematici, i quadri locali e quelli complessivi, i contesti territoriali, le notizie biografiche, i dati urbanistici e architettonici, possono essere ‘tenuti insieme’ in un unico spazio digitale unitario nel quale possono essere richiamarti rapidamente e integrarti tra loro: cioè è possibile grazie all’integrazione tra Omeka e Neatline.

3. NEATLINE E LE ‘COLONIZZAZIONI DIGITALI’

Il plugin Neatline, integrato in Omeka, consente di fabbricare digitalmente l’area geografica oggetto dello studio. Una volta allestito, il quadro territoriale digitale può essere ‘colonizzato’ con le colonie di popolamento prese in esame dalla ricerca. Ogni colonia viene a sua volta ‘popolata’ con la bibliografia, i documenti digitalizzati (e/o trascritti) e gli altri materiali (fotografie, audio-video, rilievi, carte storiche ecc) reperiti nel corso della ricerca e trasformati in oggetti digitali in Omeka. Collocando ciascun item nel territorio al quale è riferito, lo studioso ne rafforza il potere informativo: solo per fare un esempio, i patti di colonizzazione possono essere letti alla luce di dati come uso dei suoli, caratteristiche orografiche, toponomastica, confini statali ecc. Oltre che i patti di colonizzazione, le colonie digitali possono essere popolate con mappe e cartografie storiche, altra fonte di notevole rilevanza, che spesso costituisce l’unica rappresentazione degli spazi concessi ai migranti e delle originarie forme urbanistiche degli insediamenti.

La ‘colonizzazione digitale’ della cartografia si completa legando ad ogni colonia la bibliografia di riferimento, che viene organizzata col plugin Zotero, anch’esso integrato con Omeka. Zotero permette di collezionare le citazioni e di organizzarle sia per area territoriale, che filoni storiografici attinenti: dalla frontiera (Raviola 2007; Pastore 2007), al problematico concetto di ‘straniero’ in antico regime, passando per i recenti studi su networks commerciali3 e diaspore4.

4. PRIME CONCLUSIONI

Allo stato attuale del cantiere sono in fase di ‘popolamento’ gli stanziamenti di coloni maniotti nella Toscana Granducale della seconda metà del Seicento, la coeva fondazione della colonia maniotta di Paomia nella Corsica genovese, le colonie progettate dalla monarchia sabauda nella Sardegna del Settecento insieme con la colonia mercantile di ortodossi stabilita nella Minorca britannica del Settecento. Dal lavoro condotto su questi progetti di colonizzazione interna con forestieri è emerso come gli obiettivi di fondo perseguiti dalle diverse cancellerie coinvolte fossero l’aumento demografico e della produttività agricola, il potenziamento dell’ordine pubblico e il presidio militare delle frontiere. In tutti i casi, la condotta spirituale dei coloni è questione di primaria importanza, disciplinata da accordi preventivi con l’autorità religiosa che ha giurisdizione sul territorio concesso. Gli strumenti adottati per dare attuazione alle politiche sono analoghe nei diversi contesti perché, come emerge dalla comparazione tra le diverse esperienze, i governi erano soliti adottare soluzioni, talvolta anche personalee coloni già utilizzati con successo dagli Stati concorrenti.

Grazie alla cartografia digitale sta emergendo come i territori interessati da colonizzazioni con forestieri sono generalmente aree ‘periferiche’, acquisite di recente, controllate con difficoltà dal potere centrale e contese da nemici esterni. Frontiere in senso geografico dunque, ma anche istituzionale e culturale, abitate da popolazioni che i funzionari statali consideravano ‘eccentriche’, quando non degradate e devianti, perché use ad un’agricoltura primitiva ed a vivere nei pressi di aree paludose e malariche, infestate da banditi e malviventi. Gli ‘stranieri’ che approdano in questi territori di frontiera formano un’umanità composita. Mentre in città si incontrano soprattutto mercanti e intellettuali, i governi convogliano nelle aree interne dei rispettivi territori contadini, militari e sacerdoti, ai quali affidano il compito di migliorare le produzioni agricole e presidiare il territorio. In certi casi, lo stesso movimento migratorio può approdare in Paesi diversi: in questo modo, anche i più effimeri tentativi di colonizzazione interna partecipano ad un vicenda che è al contempo locale e policentrica. Al momento attuale, per rendere la cartografia digitale ancora più ricca di informazioni e sempre più personalizzabile si sta lavorando per integrare

Neatline con la cartografia auto-prodotta col software Qgis e basata sulle carte tecniche territoriali, pubblicate con licenza libera dalla gran parte delle amministrazioni di governo locale e nazionale. L’insistenza su una cartografia digitale sempre più performante nasce dalla convinzione che sia necessario attribuire il giusto rilievo alla spazialità e al ruolo che essa ha giocato nei processi di trasformazione delle società umane, incluse quelle d’Antico Regime, come suggerito dalla recente letteratura sul così detto spatial turn (Arias 2010). In conclusione, la decisione di sfruttare le potenzialità di strumenti tipici dell’Umanistica Digitale, per quanto offra vantaggi indiscutibili anche in termini di disseminazione dei risultati della ricerca, è dovuta principalmente alla necessità di effettuare una raccolta ordinata, scientificamente rigorosa ed efficiente delle fonti della ricerca; di collegare informazioni estrapolate da contesti documentali differenti e di consentirne finalmente quella lettura ‘a distanza’ che sarebbe impossibile in ambiente analogico (Moretti 2013).

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