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Il giudizio di imputabilità

Nel documento La crisi delle misure di sicurezza (pagine 117-123)

2. Verso il superamento del binomio malattia mentale-pericolosità

3.1 Il giudizio di imputabilità

Un soggetto è considerato imputabile quando gli si può attribuire la responsabilità delle proprie azioni criminose. E’ risalente nel tempo il principio giuridico che considera “irresponsabile” il reo folle e diverse sono state, storicamente, le strategie per poter contenere ed operare un controllo sulla sua pericolosità. L’autore di reati “folle” è un soggetto afflitto da un’infermità mentale, un soggetto il cui discernimento e le proprie azioni sono dirette dalla patologia e non dalla volontà.

118 E’ Il principio generale che lega la possibilità di punire il soggetto alla sua capacità di comprendere il significato sociale e le conseguenze dei propri atti (capacità d’intendere) e all’autodeterminarsi liberamente (capacità di volere).

La sua consacrazione moderna si raggiunse nel periodo delle codificazioni, durante il quale in molti sistemi penali venne affiancata anche la ridotta imputabilità nei casi meno gravi di malattia mentale. Riuscire ad individuare il disturbo mentale e comprendere in che grado questo abbia inciso sulla capacità di intendere e di volere, non è affatto agevole. Per questo motivo le problematiche principali su tale giudizio si sono concentrate sul tipo di accertamento.

Il metodo seguito nella maggior parte degli ordinamenti, compreso il nostro, è quello psicopatologico-normativo (come la stessa dizione indica), considerato la miglior sintesi tra un metodo puramente psicopatologico e quello esclusivamente normativo.139

Nell’accezione psicopatologica, la non imputabilità è determinata in primis dal ricorso di un’infermità e successivamente dalla valutazione

139 G.L. Ponti- I. Merzagora Betsos, Compendio di criminologia, p. 343; Il metodo

puramente psicopatologico considera non punibili i malati che abbiano commesso un reato se affetti da determinate malattie mentali, specificate dai codici. Si tratta di un criterio puramente nosografico, nel quale l’essere portatore di una malattia mentale conduce all’irresponsabilità del reo/malato. In modo diametralmente opposto, nel metodo normativo, per non averso imputabilità è sufficiente che, al momento del fatto, il soggetto sia stato giudicato incapace di intendere e di volere, prescindendo dall’identificazione di una precisa infermità. La miglior sintesi è rappresentata dunque dal metodo psicopatologico- normativo, il quale richiede il ricorso di un’infermità di mente e poi la valutazione della sua incidenza sulla capacità di intendere e di volere. L’infermità rappresenta il presupposto, ma non la condizione di per sé sufficiente per pronunciarsi in merito all’imputabilità.

119 di incidenza sulla capacità di intendere e di volere al momento della commissione del delitto.

La mancata armonizzazione tra la letteratura penalistica e quella psichiatrica e la difficoltà di conciliare le varie correnti di pensiero che si ritrovano all’interno del pensiero psichiatrico, finiscono inevitabilmente per riverberarsi all’interno delle aule di giustizia dove spesso si vede prevalere una rigida osservanza delle categorie diagnostiche della psichiatria, mentre altre volte si lascia spazio a teorie più elastiche del concetto di infermità.

Va quindi riconosciuta l’impossibilità di ottenere conoscenze certe sull’ambito dei disturbi psicopatologici e tale limite, che è insito in tutte le scienze umane, diventa ancora più ostico in una materia così incerta, la cui scientificità come vedremo è stata messa fortemente in discussione. 140

Rispetto al passato è stata abbandonata la convinzione “dell’astratta entità denominata follia o pazzia, per avvicinarsi invece alla realtà di singoli individui portatori di malattia ma non massificati e pur sempre unici nella loro personalità.” E’ venuta a mancare quindi l’astrattezza con il quale il malato di mente veniva sempre indicato come non imputabile, per avvicinarsi ad un criterio più prettamente individuale,

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G.L. Ponti- I. Merzagora Betsos, Compendio di criminologia, cit. 346. Difficilmente la medicina o la scienza potrà mai sperare di raggiungere la prova che una persona non sia in grado di resistere ai propri impulsi perché “non può o perché non vuole”. Non è infatti concepibile un criterio oggettivo, sottoponibile a verifica empirica, che possa distinguere tra il “non ha resistito” e “non ha potuto resistere”

120 in cui l’indagine sull’imputabilità è incentrata sul fatto che esistono singoli malati con diversi gradi di compromissione.

Il sistema giuridico italiano regola in modo articolato l’imputabilità e le conseguenze della sua diagnosi.

Il giudizio di imputabilità in base al criterio bio-psicologico si struttura su due livelli, da una parte l’accertamento dell’esistenza di una malattia mentale, dall’altro occorre verificare con che intensità quest’ultima abbia inciso e compromesso, al tempus commissi delicti, la capacità di intendere e di volere.

Si tratta di un accertamento estremamente complesso che richiede conoscenze e competenze estranee al giudice e per le quali è necessaria l’assistenza peritale.

Il perito è solitamente uno psichiatra, anche se sempre più spesso, soprattutto in epoca recente, si ricorre ad uno psicologo o a collegi nei quali operano entrambi gli specialisti. La perizia psichiatrica è quindi un atto medico che si inserisce nel processo penale e a cui sono connesse particolari conseguenze. Essa ha avuto nel tempo un’altalenante fortuna.141

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F. De Fazio- S. Luberto, La prassi della perizia psichiatrica, in Imputabilità e

trattamento del malato di mente autore di reato (a cura di) G. Canepa, M. I.

Marugo; Cedam, Padova 1995. “La perizia psichiatrica ha assunto progressivamente

una crescente rilevanza nel processo penale- per effetto dei mutamenti indotti dall’affermarsi di nuovi e più adeguati paradigmi della realtà psichica. Ciò non è tuttavia valso ad accorciare la distanza tra Psichiatria e Diritto, né ha indotto sul piano normativo i necessari mutamenti per un’impostazione dei problemi di controllo sociale più adeguata alla realtà dei problemi umani e sociali dell’autore di delitti riconosciuto infermo di mente”.

121 In passato soltanto in casi particolarmente anomali si ricorreva alla perizia, quando in presenza di una determinata malattia nosograficamente inquadrata, si ricollegava la sussistenza del vizio di mente secondo un meccanismo presuntivo.

Questa compattezza di visione tra psichiatria e diritto, che si muoveva secondo prospettive comuni di difesa sociale si è sgretolata negli ultimi decenni in concomitanza con l’entrata in crisi del concetto medico di malattia mentale.

Le nuove concezioni della malattia mentale proposte dalle scienze psichiatriche e psicologiche hanno avuto in impatto notevole, tanto da mettere in crisi il convincimento della necessità della perizia all’interno del processo penale.

A tal proposito si sono contrapposte nel tempo teorie estremistiche di chi da un lato vorrebbe un utilizzo più massivo della perizia e preme per ottenere all’interno del processo la c.d. «perizia criminologica» che incontra attualmente un espresso divieto nell’articolo 220 comma 2, c.p.p., e, dall’altro chi, in modo diametralmente opposto, vorrebbe la totale esclusione del ricorso alla psichiatria forense all’interno delle aule giudiziarie.

La più valida opposizione alla prima proposta è quella che adottare una perizia “psicologica” o “criminologica” nei confronti di tutti gli imputati (sulla base della constatazione che chi commette un reato

122 sarebbe da considerare di per sé “malato”) prima dell’accertamento della responsabilità, potrebbe spingere l’accusa a trarre dal contenuto della perizia indizi di reità. Non si può poi non tenere conto del fatto che non tutti i reati constano della stessa gravità e non tutti sollevano gli stessi problemi di allarme sociale.

La tesi diametralmente opposta fa capo all’Antipsichiatria e alle sue derivazioni più moderate che tenderebbero in ogni caso a limitare o escludere il perito dal sistema giudiziario.

Si collocano in quest’ambito quei progetti diretti ad abolire il vizio parziale di mente, facendone ricorso solamente nei casi più estremi o ancora quelle indicazioni volte a limitare l’oggetto della perizia psichiatrica alla sola capacità di intendere e di volere negando invece la possibilità di valutazioni prognostiche sulla pericolosità sociale. Se in media stat virtus, sarebbe meglio non rinunciare totalmente alla perizia psichiatrica ma subordinare la sua operatività ai soli casi in cui si rende possibile scientificizzare al massimo le procedure da seguire, in modo tale da poterla sottoporre a quel controllo da parte dei terzi e del giudice, tanti auspicato quanto attualmente ritenuto non operabile.

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Nel documento La crisi delle misure di sicurezza (pagine 117-123)