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Gli anni Duemila: Kartell e il nuovo millennio

Il design italiano incontra le materie plastiche

2.7 Gli anni Duemila: Kartell e il nuovo millennio

Il nuovo millennio firmato Kartell è contraddistinto da una riflessione sul nuovo concetto dell’”abitare” che cominciò a diffondersi sul finire degli anni Novanta. Il minimalismo che contraddistingue l’arredamento di molti appartamenti di quegli anni difficilmente può essere paragonato alla corrente che caratterizzò il campo del design negli anni Cinquanta e Sessanta. Più che di minimalismo, la “nuova” tendenza dell’arredare punta piuttosto sull’esibizione del pezzo di design, pregiato e riconoscibile dagli ospiti che chiaramente sono preparati in questo campo. I salotti chic si contraddistinguono per l’accuratezza dell’ambiente, avvalorata anche dalla scelta di precisi complementi d’arredo: ecco che quindi pezzi storici degli anni’50 sono posti

                                                                                                               

131 Espressione presente nella presentazione del Museo sul sito internet aziendale. www.kartell.com

accanto con moderni articoli con i quali dialogano, o tentano di farlo. Kartell si inserisce in questo campo poiché la politica aziendale puntò, soprattutto a partire dagli ultimi anni a privilegiare la produzione di “pezzi” che fornissero sostegno ad arredamenti già esistenti, che quindi facessero parte di “una produzione industriale per la casa di tutti”132.

Nuovo slancio venne dato inoltre dall’importante esposizione “La donation Kartell: un environment plastique 1949-2000” curata da Marie-Laure Jousset e allestita dal settembre 2000 al Centro Pompidou, esposizione che assumeva il carattere di una retrospettiva celebrativa dell’azienda, una sorta di evento dal quale partire per dare nuovo slancio alle politiche aziendali. L’esposizione si snodava attraverso i più importanti articoli realizzati da Kartell a partire dagli anni Cinquanta, fino a includere nella rassegna gli ultimi progetti firmati da Philippe Starck, Ron Arad, Vico Magistretti o Antonio Citterio (Fig. n. 36). Gli ultimi risultati ottenuti dalla lavorazione del policarbonato e dallo stampaggio di fasce in materiale plastico adattabili a piacimento davano l’impressione che i polimeri plastici fossero la soluzione finale al problema dell’arredamento. Nuove finiture superficiali, risultato di nuovi procedimenti tecnico industriali aprirono le porte al team di designers opportunamente raccolti attorno alla figura del direttore creativo Ferruccio Laviani. Giovanni Odoni, giornalista e critico del design ha coraggiosamente definito questi anni “l’era della trasparenza”133, identificando correttamente il tratto distintivo dei

prodotti che avrebbero caratterizzato Kartell nel giro di qualche anno.

Tra i protagonisti indiscussi dell’ultimo decennio in Kartell, Philippe Starck si confermò nuovamente un’inesauribile fonte creativa – e di successo commerciale – con progetti innovativi e accattivanti. Nel 2001 Starck firmò

                                                                                                               

132 Questo era lo slogan presente sulla copertina del catalogo della mostra “La donation Kartell: un

environment plastique 1949-2000” allestita al Centre Pompidou nel 2000. La donation Kartell: un environment plastique 1949-2000, catalogo della mostra a cura di M.L. Jousset (Paris, Centre Pompidou), Editions du Centro Pompidou, Paris 2000.

per la prima volta il vaso-sgabello La Bohème che coniugava la funzionalità di un poggiapiedi con l’ironica forma di un vaso; per produrlo era stata impiegata l’innovativa tecnologia di iniezione-soffiatura solitamente utilizzata per realizzare contenitori per liquidi e mai sfruttata nel campo dell’arredamento. In questo progetto il designer francese coniugò perfettamente perizia tecnica con una sottile vena d’ironia, aspetto che fin dai primi progetti caratterizzava il suo operato in Kartell. Il materiale utilizzato, il policarbonato trasparente o colorato a seconda del modello, somigliava in modo sorprendente al vetro, tuttavia chi mai penserebbe di utilizzare un prezioso vaso come sgabello per raggiungere l’ultimo ripiano della libreria? La genialità di Starck risiede, a mio parere, proprio nella capacità di guardare agli oggetti di cui quotidianamente ci circondiamo attraverso il filtro dell’ironia (Fig. n. 37). Colori, forma e aspetto di questi vasi fanno subito pensare ad un’altra azienda leader mondiale nell’arte vetraria: Venini. Sul piano strettamente formale il progetto di Starck risulta molto simile, almeno per quanto riguarda la forma, al modello Labuan (Venini 1932): entrambi però son debitori alla cultura orientale, in particolare agli antichi vasi cinesi in porcellana decorata. La scelta del nome è un ulteriore rimando ad atmosfere orientaleggianti: “Labuan” è infatti l’isola malese presente nei racconti di Emilio Salgari.

Restando in quest’ambito, Starck colpì nuovamente nel segno quando realizzò, dapprima per l’allestimento del St. Martin Hotel di Londra, successivamente per la grande distribuzione, i nanetti da giardino Napoleon e Attila accompagnati dal tavolino Saint Esprit (Fig. n. 38). Questi simpatici oggetti, in realtà dei tavolini da soggiorno, vennero molto apprezzati anche dalla clientela Kartell; l’aspetto ironico era infatti ideale per spezzare la serietà di una arredamento minimal.

Philippe Starck inaugurò il nuovo decennio impegnandosi nel progetto di una nuova seduta, sempre caratterizzata dall’utilizzo delle plastiche come materiale strutturale. L’innovazione di Ero/S/ risiede però nel diverso approccio alla

progettazione del “guscio” che avrebbe accolto l’utente. Diversamente dalle sedute firmate dal designer francese negli anni precedenti, quest’ultimo progetto cercava di unificare seduta e schienale realizzando una sorta di supporto sferico in materiali plastici. La sedia quindi aveva l’aspetto di una guscio in policarbonato trasparente o colorato, sostenuto da una gamba centrale in alluminio o da una struttura a traliccio in acciaio cromato, che ricorda a mio avviso le sedute progettate dai coniugi Eames negli anni Sessanta. Nonostante questo rimando al forniture design americano, l’idea della seduta, in particolare per quanto riguarda la scocca, trae origine dai lavori del designer finlandese Eero Saarinen, figura tra le prime a comprendere l’importanza dei polimeri plastici nella realizzazione di sedute dalle forme morbide, quasi naturalistiche (Fig. n. 39). Da un rapido confronto tra la Tulip

Chair firmata da Eero Saarinen e la seduta di Starck per Kartell si può

chiaramente notare come le forme si somiglino, forme che seguono a parer mio una filosofia che identifica la sedia come sorta di riparo o giaciglio che accoglie la persona nella morbidezza delle sue forme.

Il progetto successivo si distaccò invece da questa linea di pensiero; nel 2002 Starck progettò Louis Ghost, una sedia che “proviene dalla memoria comune dell’Occidente. È autoprogettata” come scrive lo stesso designer francese134.

Icona celeberrima dell’azienda milanese, la sedia ripropone l’aspetto di una poltroncina in stile Luigi XV, adattandola però al nuovo millennio grazie alla trasparenza del policarbonato. Ritorna anche in questo progetto l’ironia nella scelta del nome: il passato evocato dalla silhouette della seduta viene associato in modo quasi sarcastico all’evanescenza di un fantasma (Fig. n. 40). Starck aveva nuovamente centrato l’obiettivo: Louis Ghost divenne subito un’icona, riconoscibile al primo sguardo ovunque nel mondo. In un’intervista a un periodico francese rilasciata in occasione del decennale della nascita della poltroncina Louis Ghost, Philippe Starck ricorda che

                                                                                                               

En réalité, le Louis Ghost est autoprojeté. C’est un “Louis quelque chose”. Une sorte de spectre, de reflet, l’ombre d’un siège décliné dans un style que j’ai appelé “Louis Ghost”, la fantôme Louis135.

Visto il successo, al prodotto vennero affiancati altri complementi d’arredo realizzati in policarbonato trasparente, con uno stile che, riprendendo il prodotto di partenza, proponeva il recupero, seppur ironico, di uno stile storico. La famiglia venne quindi completata con François Ghost (2005), specchio con cornice in plastica colorata, Charles Ghost (2006) sgabello con la linea della gamba leggermente arrotondata e curvata verso l’esterno, come gli antenati ottocenteschi. Seguirono poi la seduta Victoria Ghost (2005), dalla stessa linea della Louis Ghost ma priva di braccioli e infine nel 2008 nacque la piccola Lou Lou Ghost, adatta a una clientela di bambini e bambine. Fedele alle nuove decisioni aziendali in fatto di estetica, tutti gli articoli erano disponibili in svariate colorazioni, come l’azzurro, il giallo, il rosa trasparente o in tonalità opache come bianco o nero, grazie alla possibilità di colorare il policarbonato prima dello stampaggio. La vasta gamma cromatica rendeva la famiglia Ghost adatta agli ambienti più svariati, da quello più chic e ricercato ad interni più minimal. In passato, precisamente nel 1958 Luigi Caccia Dominioni, figura di grande importanza nel panorama del design italiano tra gli anni Cinquanta e Sessanta, aveva già associato una seduta a un nome “storico” secondo il processo adottato da Starck per la sua Louis Ghost. In occasione della XI Triennale di Milano, Caccia Dominioni presentò la poltrona Catilina, prodotta da Azucena, l’azienda fondata nel 1947 da Caccia Dominioni, Corrado Corradi Dell’Acqua, Ignazio Gardella, Maria Teresa e Franca Tosi. Il nome venne

                                                                                                               

135 “In realtà, la Louis Ghost è autoprogettata. È una “Luigi qualche cosa”. Una sorta di spettro, un

riflesso, l’ombra di un secolo declinato nello stile che io ho chiamato “Louis Ghost”, il fantasma Luigi” (Traduzione dello scrivente). A. Zamboni, Happy Birthday Louis Ghost in “Le journal de la Maison”, n. 12, Novembre 2012, p. 22.

scelto per associazione tra il personaggio storico romano e l’aspetto della poltroncina che rievocava i seggi rotondi, o forse la forma circolare dei rocchi delle colonne romane. La struttura era realizzata in ferro modellato e verniciato a fuoco di colore grigio: la base a ferro di cavallo supporta, tramite tre tondini metallici, la seduta ovale fornita di un cuscino rivestito in pelle o tessuto. Lo schienale è invece costituito da un nastro, sempre in ferro, collegato ai tondini che contribuiscono a dare solidità strutturale alla poltroncina. Divenuta un emblema del design italiano degli anni Cinquanta, così come la poltroncina di Philippe Starck è considerata un capolavoro del design moderno, le sue linee essenziali rispecchiano a parer mio un rigore progettuale comune anche all’opera del designer francese.

Per quanto riguarda invece il recupero “storicistico” di sedute del passato, si può creare un paragone tra la poltroncina in policarbonato trasparente e la poltrona Proust (Alchimia 1978). Nell’articolo realizzato da Alessandro Mendini, un pattern puntinato ricopre completamente un’imponente poltrona del XVIII secolo dalle linee neo barocche. Per Mendini tuttavia l’operazione non mirava al recupero di uno stile del passato quanto piuttosto aveva l’intenzione di rompere con la tradizione, proponendo un design “controcorrente”, ironico e spesso con risvolti ludici, caratteristiche che confluiranno nei progetti del gruppo Alchimia e Memphis.

Nello stesso anno di nascita di Louis Ghost, reinterpretazione in chiave ironica delle poltroncine barocche, Kartell proponeva sul mercato anche una nuova

chaise longue firmata dal designer Maarten Van Severen. LCP, questo il nome del

prodotto, affrontava l’articolo “sedia” da un punto di vista innovativo e sperimentale. L’oggetto è fabbricato in un unico stampo che si piega a spirale su sé stesso per dar forma a una seduta flessibile e resistente costituita solo da una lastra di PMMA, il polimetilmetacrilato136. Proposta nelle tonalità del

bianco cristallo, giallo, arancione e blu, questa seduta venne molto apprezzata

                                                                                                                136 Ivi, p. 285.

durante il Salone del Mobile di Milano del 2003, dove venne sistemata nello stand arredato da Ferruccio Laviani seguendo le gradazioni cromatiche dell’arcobaleno (Fig. n. 41).

È stato più volte nominato Ferruccio Laviani, art director di Kartell responsabile dell’allestimento degli stand aziendali presso i principali eventi fieristici nazionali ed esteri. Nel 2002 Claudio Luti presidente di Kartell decise di coinvolgere Laviani nel progetto dell’allestimento dello stand aziendale presso il Salone del Mobile di Milano di quell’anno. Come lampada adatta all’ambiente, Laviani progettò e realizzò FL/Y, una semisfera in metacrilato trasparente colorato che catturò l’attenzione dei visitatori a tal punto che Luti si convinse a mettere in produzione l’articolo. Era il 2002, Kartell aveva definitivamente chiuso la divisione Illuminazione nel 1981; forse era giunto il momento di riaffacciarsi in quel campo. La lampada, soprattutto nella colorazione azzurra o blu, ricordava infatti una bolla di sapone; tuttavia era progettata per raccogliere più luce grazie alla sezione della calotta leggermente inferiore rispetto alla linea del diametro della semisfera (Fig. n. 42). FL/Y fu la capostipite di una lunga serie di lampade firmate da Laviani che incontreranno un successo sempre maggiore, tanto da convincere il presidente Claudio Luti a riaprire nel 2009 la divisione Illuminazione, chiamata oggi “Kartell Lights”, vero e proprio marchio figlio, diretto da Ferruccio Laviani, responsabile anche della gran parte dei prodotti.

Tra il gran numero di progetti, un’idea di base può essere riconosciuta in quasi tutti gli articoli presenti nel catalogo della collezione e sicuramente una costante era il materiale utilizzato per realizzare il corpo delle lampade: si preferì utilizzare il PMMA, meglio conosciuto come metacrilato per la possibilità di essere colorato in molte tonalità e sfumature diverse e per la capacità di essere stampato in praticamente qualsiasi forma. Il secondo fattore che accomunò i prodotti della divisione Kartell Lights era l’utilizzo dei colori: che si trattasse di lampade a sospensione, da tavolo, così come lampade da

soggiorno, la costante era la colorazione, fedele alle direttive aziendali espresse dal presidente Luti. Tra i molti progetti si preferisce qui ricordare quelli che han riscosso maggior successo: tra questi sicuramente è necessario citare la lampada da tavolo Take (2003). Realizzata con il processo di iniezione in policarbonato trasparente o colorato, l’articolo è costituito assemblando due parti speculari: due lastre piatte, rettangolari che assumono il volume di una “semi-lampada”. Unendo le due metà si compone una versione moderna della classica abat-jour da comodino (Fig. n. 43). La genesi di Take è raccontata dallo designer stesso:

Stampai il primo disegno su di un A4 e fu quello che mi diede l’idea di tenere il tutto unito da un “foglio” immaginario. A sua volta, il foglio mi diede l’idea di dividere la lampada in due parti uguali, permettendo di avere una sola impronta che fungesse da lato destro e da lato sinistro137.

Anche il packaging era curato da Laviani: l’abat-jour era inserita in un contenitore parallelepipedo trasparente dotato di una maniglietta sulla parte superiore. Grazie a questi accorgimenti il cliente poteva vedere immediatamente il colore della lampada, scegliere il modello preferito e portare comodamente a casa. L’anno successivo Laviani firmò una tra le più riconoscibili lampade del marchio milanese: si tratta di Bourgie, lampada da salotto dalle forme vagamente barocche, ideale compagna degli articoli della famiglia Ghost progettati da Philippe Starck in questi anni. L’intero oggetto è realizzato in policarbonato trasparente; negli anni vennero introdotte nuove colorazioni come il nero, il bianco, l’oro metallizzato o un’ironica versione multicolor. La base è costituita da tre supporti dalla linea barocca che si intersecano tra loro fino a congiungersi nel supporto per le lampadine, la cui luce è opportunamente schermata da un paralume con effetto plissettato che

                                                                                                               

dona un gradevole effetto luminoso (Fig. n. 44). L’importanza di Ferruccio Laviani come art director della divisione Kartell Lights venne riconosciuta anche dall’esposizione “Laviani Plastic Lamps. The Kartell Lights Collection” organizzata a Milano presso lo Spazio Metropol Dolce & Gabbana nel 2008 (Fig. n. 45).

Tra i pezzi esposti, disposti in base alla tipologia, figurava anche una nuova lampada da tavolo progettata in quello stesso anno: Cindy (2008). Realizzata partendo da una rielaborazione più ironica di un modello realmente esistito negli anni Settanta, questo articolo è composto da un paralume conico fossato ad una base sferica. L’aspetto innovativo è la quantità di colorazioni disponibili; i colori metallizzati di Cindy donano un aspetto lucido e giocoso a questa piccola lampada, rendendola adatta ai diversi ambiente domestici. Più recente risulta invece la lampada da tavolo Taj (2011) che, secondo le parole

del progettista Ferruccio Laviani assomiglia alla zanna di un elefante138 per la

sua curvatura. Questo articolo risulta particolarmente interessante per almeno due fattori: da una parte è una delle poche lampade da tavola disponibili sul mercato che non sia snodabile, dall’altro sfrutta la moderna tecnologia led come sorgente luminosa, garantendo quindi bassi consumi e alto potere illuminante. Disponibile nelle colorazioni bianco, nero e trasparente, dal 2012 è disponibile anche una versione dalle dimensioni ridotte, in brillanti colori pastello o in tinte metallizzate.

Accanto alla progettazione di lampade da tavolo, Laviani si occupò anche di lampade a sospensione tra le quali si ricorda il modello Easy (2002), un semplice cilindro in plastica o il più ricercato lampadario Bloom (2008) realizzato fissando alla superficie della lampada numerosi fiori in plastica trasparente per garantire un’illuminazione ricca d’effetti. Gli esempi qui ricordati sono solo alcuni dei prodotti che han riscosso più successo di pubblico; accanto a questi best sellers si collocano altri modelli di lampade da

                                                                                                                138 Ivi, p. 312.

tavolo e a sospensione che, nonostante non sia state molto apprezzate dal pubblico, hanno sicuramente contribuito a riportare in auge la divisione Illuminazione, seppur identificata oggi con il marchio Kartell Lights.

È stato ricordato come il tratto distintivo della produzione Kartell in questo periodo sia contraddistinto dall’utilizzo della plastica, in particolare del policarbonato, ma questa veniva sempre più spesso trattata per ottenere un particolare aspetto superficiale. Per ottenere questi particolari effetti estetici il team di ingegneri si adoperò per sviluppare nuovi macchinari e tecnologie all’avanguardia per produrre gli articoli che con maggiore frequenza venivano affidati al team di designer Kartell, squadra vincente che andava aumentando di anno in anno.

Tra queste nuove apparecchiature, ricoprì un ruolo molto importante un macchinario adatto allo stampaggio rotazionale, grazie al quale è stato possibile realizzare oggetti in plastica cavi. Il funzionamento della macchina è relativamente semplice: il processo inizia con l’inserimento della materia plastica in polvere all’interno di uno stampo, successivamente questo è scaldato con la conseguente fusione del materiale interno. Con opportune rotazione sui due assi spaziali, il materiale aderisce alle pareti della stampo; raffreddando il modello, la plastica solidifica e mantiene la forma: è quindi possibile estrarre l’oggetto finito dalla macchina. La lavorazione sarà completata poi con una generale rifinitura dell’articolo, finalizzata ad eliminare i residui della lavorazione. Questa tecnologia, conosciuta fin dalla fine dell’800 cominciò ad essere applicata alle materie plastiche solamente attorno agli anni Cinquanta del Novecento per produrre oggetti cavi di piccole dimensioni, principalmente giocattoli per l’infanzia. L’innovazione apportata da Kartell fu quella di utilizzare la competenza dello stampaggio rotazionale per produrre articoli molto grandi, specialmente oggetti per arredare le abitazioni.

La sfida venne accolta da Philippe Starck, designer da sempre aperto a nuove sfide che nel 2001 progettò per l’azienda milanese Bubble Club, il primo divano

realizzato tramite stampaggio rotazionale (Fig. n. 46). “Un divano di aria con una pelle di plastica”139; con queste parole il designer francese definì il suo

progetto, consapevole dell’ottimo risultato ottenuto. Questo articolo divenne una vera e propria icona, testimoniata anche dal conseguimento del Compasso d’Oro nel 2001 per “La proposta di una forma mnemonica in chiave ironica

adotta tecniche sofisticate nella esecuzione produttiva”140. La motivazione che

ha portato l’ADI ad assegnare il premio a Bubble Club contiene in sé le qualità che han portato questo oggetto al successo: in primis la tecnica produttiva innovativa, accostata a un aspetto che, con la linea morbida dei braccioli, ricorda i vecchi sofà. Il successo venne confermato anche con l’introduzione degli altri membri di quella che andava a configurarsi come una vera e propria “famiglia” di sedute in plastica dalle linee vagamente retrò. Accanto al divano a due posti, venne presentata una poltrona e il tavolino Bubble, sempre realizzati in polietilene bianco o colorato nelle tonalità del giallo, verde chiaro, grigio, nero o rosso terra. Grazie alle caratteristiche di questa materia plastica, gli articoli erano ideali specialmente per essere posizionati all’esterno, in terrazze, giardini o sul prato estivo: era una sorta di “salotto industriale” come pubblicizzato nella brochure del prodotto141.

Verso la fine del 2010 Philippe Starck iniziò una collaborazione con il giovane designer spagnolo Eugeni Quitllet che portò alla progettazione e successiva realizzazione di alcuni pezzi divenuti icone della qualità Kartell. Da un’analisi