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Le materie plastiche e il design italiano

De Fusco, nell’affrontare l’argomento delle plastiche suggerisce una suddivisione temporale che credo sia utile sfruttare per inquadrare agevolmente il tema all’interno del panorama costituito dal design italiano. La prima fase temporale individuata dallo studioso affronta le cosiddette plastiche “storiche”. Identificate con le prime materie comparse sul mercato a fine ‘800 si qualificano come sostanze che imitano non tanto un determinato oggetto bensì il o i materiali con i quali quell’oggetto è costruito. Parkesina, celluloide, bachelite sono nate infatti con lo scopo di riprodurre l’aspetto del corno, dell’avorio, del guscio di tartaruga; beni costosi e fruibili solo alla classe agiata. Un altro pregio delle plastiche, oltre appunto all’aspetto imitativo è la loro economicità, fattore grazie al quale le masse popolari potevano permettersi di esibire oggetti che replicavano in modo quasi perfetto le ambite e pregiate sostanze naturali. Per questo motivo, le materie plastiche si coprirono, inizialmente, di un significato negativo, disprezzate perché considerate un surrogato di un materiale prezioso. Plastica come surrogato di un’altra materia: questa la caratteristica dei polimeri plastici almeno fino al secondo dopoguerra. Prosegue De Fusco: “Finito il tempo delle cose frivole, del gioco, dell’ironia o dell’ingenuità, delle imitazioni del superfluo, la plastica venne impiegata a sostituire prodotti e materiali di primaria necessità”37.

Lo studioso individua dunque nelle ricerche tecnologiche e scientifiche sviluppate soprattutto durante il secondo conflitto mondiale la fine delle plastiche “storiche” e l’avvento delle plastiche “moderne” titolo che De Fusco assegna ai materiali plastici che hanno conquistato una dignità autonoma. Si tratta infatti del passaggio dall’uso artigianale delle materie plastiche alla produzione su scala industriale, con la realizzazione di manufatti nei quali il materiale è utilizzato per le sua caratteristiche intrinseche.

                                                                                                               

Gli ultimi decenni, caratterizzati dallo sviluppo di polimeri plastici ultra tecnologici, è identificato dallo studioso con l’espressione di “plastiche dell’opulenza”, tesa a sottolineare il ruolo che questi materiali ricoprono nell’industria tecnologica attuale38. Dopo questa breve premessa, credo sia

interessante indagare come il design italiano si sia confrontato con quello che lo studioso R. De Fusco ha identificato come il “materiale più diffuso che popola il paesaggio culturale contemporaneo, il più amato e il più odiato della nostra epoca: la plastica. […] il materiale che fin dalla sua comparsa è stato determinante per il mondo del design oltre che per quello dell’arte.”39

Prima di affrontare il tema del design italiano, è opportuno fare una piccola digressione dedicata alle materie plastiche e alla loro introduzione nel design americano. Precedentemente è stato accennato al caso della Tupperware Corporation, azienda americana che seppe sfruttare il polietilene per la produzione di contenitori per la conservazione dei cibi. È stata illustrata anche l’innovativa strategia di commercializzazione dei prodotti aziendali, tramite i “Tupperware Parties” vale a dire dimostrazioni a domicilio. Dalla metà degli anni ’50 le casalinghe americane cominciarono a familiarizzare con le nuove sostanze plastiche, successo che si diffonderà anche in Italia, a partire dal 1964, quando la società cominciò la vendita dei suoi prodotti nel nostro paese con la stessa strategia aziendale. Nel furniture design americano, vale a dire quel ramo del design che si occupa di progettare e realizzare mobili, poltrone e sedute in genere, è interessante nominare la storia di due aziende statunitensi leader in questo settore. Le ditte considerate sono la Herman Miller Furniture Company e la Knoll International, aziende che furono le prime a mettere in produzione sedute nelle quali la plastica veniva utilizzata come materiale costruttiva strutturale. La Herman Miller Furniture Company nasce ufficialmente nel 1905

                                                                                                               

38 Ivi, pp. 111-137. R. De Fusco, Made in Italy. Storia del design italiano, Editori Laterza, Roma-Bari 2007,

pp. 97-106.

in una piccola cittadina vicina a Grand Rapids in Michigan. L’azienda tuttavia non portava ancora questo nome, si chiamava infatti Star Furniture Company e si occupava di arredi tradizionali. Nel 1909 venne rinominata Michigan Star Furniture Company ed entrò in azienda Dirk Jan De Pree, allora diciottenne, presidente della ditta dal 1919. Nel 1923 D.J. De Pree convinse il suocero Herman Miller ad acquistare la maggioranza delle azioni della Michigan Star Furniture Company: nacque così ufficialmente la Herman Miller Furniture Company. Sotto la presidenza di De Pree l’azienda continuò a progettare e realizzare arredamento tradizionale. L’azienda partecipò alle fiere di settore durante gli anni ’30, ma la vera svolta avvenne con la scelta di George Nelson come direttore di progettazione e designer aziendale nel 1945. In un breve testo Nelson racchiuse la filosofia aziendale:

[la Herman Miller Furniture Company] è una piccola azienda in una piccola città, e viene diretta dai proprietari stessi. Ciò che la distingue da altre imprese del settore sono i seguenti principi: 1. Ciò che fai è importante. 2. Il design è una componente essenziale della nostra attività. 3. Il prodotto deve essere onesto. 4. Sei tu a decidere ciò che vuoi produrre. 5. Esiste un mercato per un buon design. Il programma si prefigge lo scopo di allestire una collezione permanente; questo significa che ogni pezzo viene prodotto fino a quando non è più al passo coi tempi o può essere migliorato.40

Fu proprio George Nelson a proporre al presidente dell’azienda una collaborazione con Charles Eames il quale aveva acquisito una notevole esperienza nel campo della modellazione del legno compensato grazie a collaborazioni con l’industria aereonautica. Durante la guerra C. Eames aveva progettato per la Evans Products Company di Detroit, un’azienda di velivoli, gli stabilizzatori verticali e orizzontali per l’aereo BT15 e la parte anteriore dell’aliante CG16. Sfruttando la tecnica di piegatura del compensato con calore e opportune sostanze chimiche che conferissero elasticità alla fibra vegetale, C.

                                                                                                               

Eames e la moglie Ray avevano prodotto per la marina militare dei sostegni in legno per arti fratturati e delle barelle per il trasporto dei feriti.

È necessario ricordare che la tecnica della piegatura del legno compensato era stata studiata e applicata prima del conflitto mondiale in un progetto che vide collaborare C. Eames e l’architetto finlandese Eero Saarinen. Si trattava appunto di realizzare una poltroncina da presentare al concorso “Organic Design in Home Furnishing” bandito dalla neocostituita sezione design del Musum of Modern Art di New York nel 1940. La poltrona progettata dai due designers venne ricavata da una grande scocca in piallacci di legno incollati insieme e modellati su una sagoma in ghisa. La struttura comprendeva seduta, schienale e braccioli, ricoperti da uno strato di schiuma di lattice, e infine, il tutto venne rivestito con un tessuto di tela. Le gambe erano realizzate in alluminio e innestate direttamente sulla scocca, novità tecnica all’epoca. Il progetto vinse il premio del concorso e C. Eames continuò a progettare mobili sfruttando ala tecnica della modellazione del compensato in stampi metallici tramite il calore. L’idea di una seduta con scocca portante sinuosa, quasi anatomica, che incorporasse nella struttura schienale e braccioli, costituendo una sorta di “guscio” all’interno del quale accogliere la persona, ben si adattava all’utilizzo delle materie plastiche come materiale costitutivo.

A partire dai tardi anni Quaranta, Eames, membro del team di designers della Herman Miller Furniture Company, decise di utilizzare il poliestere rinforzato con fibra di vetro per realizzare alcune delle sedute divenute, nel tempo, vere e proprie icone del design americano. Nel 1948 il Moma di New York annunciò un concorso intitolato “International Competition for Low-Cost Furniture Design” per promuovere la produzione di arredi economici e adatti al periodo di crisi successivo alla fine del secondo conflitto mondiale. Charles Eames e la moglie Ray parteciparono proponendo una serie di sedute caratterizzate da una scocca realizzata in materiali plastici rinforzati. Questo tipo di materiale possedeva la capacità di essere modellato a piacere su uno stampo metallico

tramite l’utilizzo di presse idrauliche. Il primo progetto di queste sedute era una poltroncina con un corpo unico che riuniva seduta, schienale e braccioli; eventualmente poteva essere decorata con del tessuto disegnato da Alexander Girard, il direttore del reparto tessile della Herman Miller dal 1952 al 1973. L’aspetto innovativo di questo tipo di sedute era rappresentato, oltre che dal materiale plastico con il quale erano realizzate, dalla possibilità di disporre di tipi diversi di sostegni. Le sedie e le poltroncine potevano infatti avere quattro gambe metalliche singole, oppure collegate tra loro, a ricordare la base della Tour Eiffel, oppure anche essere adattate per un singolo supporto centrale, in legno o con dei “pattini” per trasformare la poltroncina in una sedia a dondolo. Questo tipo di seduta divenne subito un’icona del design e, grazie alle diverse tipologie disponibili sul mercato, cominciarono ad apparire in aeroporti, bar, ristoranti oltre che in case private. Attualmente è prodotta per l’Europa da Vitra, azienda che fin dal 1957 strinse un accordo con la Herman Miller per sfruttare i brevetti delle sedute degli Eames. La Vitra interruppe la produzione di questa sedia nel 1989, riprendendola a partire dal 2004 (Fig. n. 8).

Per il concorso promosso dal Moma, i coniugi Eames, vincitori del secondo premio con le sedute descritte poco sopra, progettarono anche La Chaise, una chaise longue rivoluzionaria sotto diversi aspetti. Innanzitutto la seduta era realizzata tramite l’unione di due gusci in fibra di vetro, questa inoltre era sorretta da 5 tondini metallici che collegavano la struttura alla base costituita da due listelli in legno incrociati (Fig. n. 9). L’apertura sullo schienale si rese necessaria al fine di rendere possibile l’unione della scocca tramite collanti, inoltre ricordava il progetto che lo stesso Charles Eames, in collaborazione con Eero Saarinen, aveva proposto anni prima al concorso dedicato all’organic

design promosso dal Moma di New York. Per quanto riguarda invece il tema

proposto dal museo, ossia il low-cost furniture, è necessario notare che sedute di questo tipo, a causa degli alti costi di progettazione e produzione non

potevano essere considerate adatte alla gran parte delle famiglie americane. Basti pensare che queste sedie e poltroncine erano esposte in mostre dedicate all’arredamento domestico e strizzavano l’occhio a una clientela intellettualmente preparata e disposta a permettersi un costo elevato pur di possedere queste sedute che già pochi anni dopo la loro produzione erano considerate un pregevole pezzo di design41.

Restando sempre all’interno del panorama del furniture design americano, un’altra azienda emerse in questo settore a partire dagli anni ‘40, apportando novità nel settore dell’arredamento d’interni, grazie anche alla collaborazione con grandi personalità del mondo del design, in primis Eero Saarinen. L’azienda fu fondata da un giovane mobiliere tedesco, Hans Knoll, emigrato in America per l’ascesa del nazismo in patria. Giunto a New York, egli aprì un piccolo laboratorio nel 1938 e grazie alla collaborazione con Florence Schust, una giovane architetto con la passione per il design, l’azienda di H. Knoll sviluppò una sempre maggiore attenzione al settore dell’arredamento d’interni. Con la collaborazione di altri designers nel 1946 nacque la Knoll Associates, diventata nel 1951 Knoll International, azienda con molte filiali negli Stati Uniti e successivamente anche in Europa. Caratteristica di quest’azienda fu la stretta collaborazione che questa strinse con la Cranbrook Academy of Art di Bloomfield Hills in Michigan, un istituto con lo scopo di ripensare alle competenze delle arti maggiori e minori, cercando una connessione tra le due. L’idea, già alla base del pensiero teorico della Wiener Werkstätte nella Vienna degli anni Venti e, di fatto, ulteriormente sviluppata dall’esperienza tedesca del Bauhaus, venne ora affrontata dai designers statunitensi sotto la guida di Eliel Saarinen, architetto finlandese, dal 1923 negli Stati Uniti. L’istituto nacque grazie a George G. Booth, editore del “Detroit News” che mise a disposizione la propria residenza di campagna e il denaro necessario per edificare il campus,

                                                                                                               

41 G. D’amato, Storia del design, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 146-150. R. De Fusco, Storia del

dotato di scuola, abitazioni, laboratori nei quali gli studenti potevano sperimentare. Dal 1935 nel corpo docente oltre al direttore Eliel Saarinen fu introdotto Charles Eames; tra gli studenti ci furono Harry Bertoia, Ray Kaiser (futura moglie di Charles Eames), Eero Saarinen, figlio di Eliel; tutti futuri designers nel campo del furniture design, per conto della Herman Miller o della Knoll Associates. Le sperimentazioni condotte dagli studenti videro risultati qualche anno più tardi; molti allievi dell’istituto infatti, entrarono a far parte dei reparti di progettazione delle aziende americane, in primis Herman Miller e Knoll International. Continuando a seguire come filone tematico quello degli oggetti realizzati in materiali plastici, dopo l’esperienza e il successo dei prodotti firmati dai coniugi Eames, i polimeri furono utilizzati anche da un giovane designer formatosi alla Scuola di Cranbrook: Eero Saarinen. Figlio di Eliel Saarinen e diplomatosi alla Yale School of Architecture nel 1934, approfondì i suoi studi presso la Cranbrook Academy of Art diretta dal padre. Nel 1940, insieme a Charles Eames vinse il già citato concorso promosso dal Moma di New York sul “design organico” con la seduta monoscocca in multistrato di legno modellata. Diversamente dai coniugi Eames che lavoravano per la Herman Miller Furniture Company, Saarinen figlio collaborò fin dal 1948 con la Knoll Associates progettando una poltroncina con poggiapiedi. Il progetto che rese famoso questo designer risale al 1956 quando progettò la serie “Tulipano” per la Knoll, una serie di poltroncine, sedie e tavoli caratterizzati dall'utilizzo del poliestere rinforzato con fibra di vetro e da un’unica gamba centrale in alluminio verniciato dalla forma a fungo (Fig. n. 10). Messa in produzione l’anno successivo, la Tulip Chair e gli altri componenti della serie utilizzavano materiali innovativi per l’epoca, tuttavia per ragioni tecniche queste sedute non potevano essere realizzate completamente in materiali sintetici. Il sostegno interno del piedistallo era infatti realizzato in alluminio, verniciato successivamente dello stesso colore della seduta, solitamente bianco, in modo da rendere omogeneo l’impatto

visivo. A proposito di questo progetto Eero Saarinen chiarisce la scelta di utilizzare un solo supporto per evitare la confusione creata dalle numerose gambe di tavoli e sedute tradizionali42.

Per giungere con le competenze tecniche e le qualità progettuali adatte a una seduta realizzata completamente in materiale plastico bisognerà attendere l’entrata in produzione della Panton Chair nel 1968 per Vitra, azienda che dal secondo dopoguerra aveva stretto un accordo con la Herman Miller per lo sfruttamento dei suoi brevetti (Fig. n. 11). Il progetto della S Chair, l’altro nome con il quale è conosciuta questa seduta, risale però al 1960 quando Panton la progettò per la Herman Miller; sotto l’aspetto dell’utilizzo di materiali innovativi, l’azienda si confermò quindi ancora una volta all’avanguardia. Formatosi alla Royal Academy of Art di Copenhagen e successivamente nello studio di Arne Jacobsen, il designer danese Verner Panton si interessò fin da giovane a sedute senza le gambe posteriori. Risale al 1955 un primo rudimentale progetto nel quale l’assenza di sostegni posteriori era bilanciata con una seduta a forma di “s”, tuttavia l’utilizzo di laminati di legno modellati rendeva il progetto costoso e difficile da produrre a livello industriale. La materia che poteva sostituire agevolmente l’impiallacciatura dei fogli di compensato era sicuramente l’utilizzo di polimeri sintetici, tuttavia si dovette attendere fino al 1962-63 quando Verner Panton entrò in contatto con l’ufficio di produzione della Vitra, azienda che realizzava i progetti della Herman Miller. Dopo qualche anno di progetti e prototipi si decise di utilizzare il poliestere rinforzato con fibra di vetro, materiale già in uso nelle sedute dei coniugi Eames. La novità di una sedia completamente in materiale plastico si rivelò però un’arma a doppio taglio; il poliestere non si dimostrò essere il materiale più idoneo, soprattutto per i bordi inferiori che dovettero essere rinforzati e ispessiti per reggere il peso di un potenziale utente, complicando parecchio la produzione in fabbrica. La versione finale delle

                                                                                                               

Panton Chair fu disponibile al pubblico dal 1968, prodotta da Vitra per conto

della Herman Miller Furniture Company. Il materiale utilizzato fu il “Baydur”, una schiuma poliuretanica prodotta dall’azienda Bayer che abbinava qualità di resistenza con la possibilità di essere colorata in numerose tonalità. Introdotto nel catalogo della Herman Miller, il progetto di Panton subì negli anni delle piccole modifiche strutturali, quali il posizionamento di rinforzi sotto la seduta o sui bordi inferiori; venne inoltre utilizzato il metodo dello stampaggio per iniezione43 per produrre un singolo pezzo in un’unica volta. Queste piccoli

aggiornamenti tecnici dimostrano come la Panton Chair sia entrata nella memoria collettiva come pezzo di design, legato anche al filone della Pop Art, per i suoi colori accesi e i materiali innovativi per l’epoca. La produzione di questo prodotto vide fasi alterne di fortuna e sfortuna commerciale. Fino al 1979 la Vitra si occupò della produzione e della vendita, cessata la quale i diritti tornarono al designer danese. Attualmente la seduta di Panton è stata reintrodotta nel catalogo Vitra, riscuotendo un costante successo di vendita; dal 2003 l’azienda ha progettato una versione adatta ai bambini, disponibile in colorazione sempre più vaste44.

Dopo questa breve parentesi sul furniture design americano, in particolare sulle prime sedute realizzate in materiali plastici, credo sia interessante quanto necessario approfondire la situazione italiana. Dal secondo dopoguerra, l’Italia si impose sempre più sul panorama internazionale nel campo del disegno industriale grazie alla nascita delle prime ditte che affidarono la progettazione

                                                                                                               

43 Lo stampaggio ad iniezione è il metodo principale usato per la lavorazione delle termoplastiche. Le

presse a iniezione sfruttano la proprietà che hanno le resine termoplastiche di rammollire a caldo per riacquistare il loro stato normale quando vengono nuovamente raffreddate. Nella pressa, per la pressione esercitata da un pistone o da una vite e per il calore, i granuli di plastica sono portati allo stato fluido e iniettati tramite un ugello, in un stampo mantenuto a freddo. A contatto con le pareti fredde dello stampo, il materiale solidifica e il pezzo può essere estratto senza deformazioni. L. Scacchi Gracco, Pensieri di plastica, op. cit., pp. 46-47.

delle proprie collezioni aziendali a personalità che nel tempo divennero i “maestri” del design italiano. Alberto Alessi, identifica queste aziende con la dicitura di “Fabbriche del Design Italiano”:

Quando parlo delle “Fabbriche del Design Italiano”, mi riferisco a un gruppo di industrie per le quali il design è una missione, un’attività che ha gradualmente infranto il suo significato originario di semplice progetto formale di un oggetto, divenendo una disciplina creativa globale, una “weltanschauung” che pervade ogni singolo passo di queste imprese […] Un laboratorio di ricerca, il ruolo del quale è di mediare continuamente tra le più avanzate e stimolanti espressioni della creatività culturale internazionale da una parte e i bisogni e sogni del pubblico dall’altra45.

Continua Alessi

le Fabbriche del Design Italiano possono essere consideratele ultime eredi spirituali di quei movimenti intellettuali e creativi del passato (dalle Arts & Crafts inglesi della metà ‘800, alle Wiener Werstaette dell’inizio ‘900, dal De Stijl olandese al Bauhaus tedesco degli anni’20 alla Hochschule di Ulm degli anni ’50…) tutti contraddistinti dall’avere, sì, un orientamento generale verso la produzione di oggetti ma anche una forte connotazione culturale e intellettuale. […] il ruolo che svolgiamo è un ruolo di mediazione artistica. […] le Fabbriche del Design Italiano sono essenzialmente dei mediatori artistici nell’ambito della produzione industriale46.

Alessi e altre aziende che dagli anni Cinquanta son diventate sinonimo del design made in Italy riconosciuto e apprezzato in tutto il modo, faranno da contesto dal quale l’elaborato intende partire per un’analisi delle materie plastiche nel design italiano. Lo scopo di quest’ultima sezione del capitolo è infatti tentare una ricostruzione storica cronologica delle principali icone del