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Una storia del design delle materie plastiche: da Alessi a Plust.

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea magistrale

In Storia delle arti e

conservazione dei beni artistici

Tesi di Laurea

Una storia del design delle materie

plastiche: da Alessi a Plust

Relatore

Prof.ssa Stefania Portinari Correlatore

Prof. Nico Stringa Laureando Francesco Allegro 850497 Anno Accademico 2014/2015 Ca’ Foscari Dorsoduro 3246 30123 Venezia

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Indice

Introduzione

………..……….p. 5

Capitolo 1 - I materiali plastici: una breve storia

dall’origine ai giorni nostri

1.1 La scoperta di un nuovo materiale: la plastica………...p. 8

1.2 Plastiche pre-sintetiche: tra imitazione e nuova identità…....p. 14

1.3 Le materie plastiche e il design italiano……….…..p. 34 Illustrazioni al capitolo………p. 69

Capitolo 2 - Il design italiano incontra le materie plastiche

2.1 Le aziende italiane si confrontano con un nuovo materiale……….……….p. 82

2.2 Kartell: innovazione e sviluppo di un’azienda italiana….…...p. 83

2.3 Kartell e gli anni Sessanta……….………….p. 95

2.4 Gli anni Settanta………..……….p. 103

2.5 Gli anni Ottanta: nuove strade all’orizzonte……….…………p. 111

2.6 Gli anni Novanta: un nuovo approccio al design……...……p. 117

2.7 Gli anni Duemila: Kartell e il nuovo millennio……….……..p. 126

Illustrazioni al capitolo………...………...p. 145

Capitolo 3 -

Guzzini, “infinito design italiano”

………p. 174

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Capitolo 4 -

Alessi. La fabbrica dei sogni

4.1 La Ditta F.lli Alessi. Articoli e casalinghi in metallo nichelato e argentato………...p. 192

4.2 Alberto Alessi e i “grandi maestri”………p. 197

4.3 Alessi: molti autori, molti progetti……….……….p. 225

4.4 Il Centro Studi Alessi (CSA) e i giovani designer…………..p. 232

Illustrazioni al capitolo………….……….p. 249

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Introduzione

Plastica, un nome che purtroppo non è affatto preciso nell’indicare una grandissima categoria di prodotti, spesso sconosciuti o banalmente accomunati sotto questo nome.

Spinto dalla curiosità di indagare questo settore ho deciso di affrontare uno studio più approfondito, sotto il duplice aspetto storiografico e tecnico, dei materiali plastici, sostanze che dalle prime indagini di fine Ottocento sono state oggetto di uno sviluppo notevole.

La parte iniziale dell’elaborato è stata completamente dedicata a ricreare un quadro storico, cercando di raccogliere le informazioni e le vicende storiche dei principali materiali plastici creati tra la fine del XIX secolo e la prima metà del successivo.

Le informazioni sull’argomento sono molto numerose, spesso di natura chimica, ma tuttavia queste non si presentavano all’interno di un volume organico ma raccolte in diverse pubblicazioni, a volte discordanti tra loro. Si è cercato quindi di dare uniformità ai dati raccolti, tramite la consultazione di numerosi manuali e la stesura di un testo il più possibile preciso per quanto riguarda dati storici e tecnici.

Questa prima fase costituisce di fatto un’introduzione al tema specifico del lavoro: la presenza delle materie plastiche nel design italiano. La motivazione che ha suggerito l’approccio a questo argomento è stata la mancanza di studi specifici sul settore. Partendo dall’analisi e confronto di alcuni testi dedicati al design italiano, si riconosce che è di fatto assente una storia del disegno industriale italiano analizzata attraverso l’evoluzione dei materiali plastici. Il tema è stato dapprima affrontato prendendo in esame lo sviluppo del design italiano, cercando di cogliere le principali aziende che si sono interessate ai materiali plastici, successivamente sono state prese in esame tre realtà

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industriali che hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo di questi materiali. Lo studio dei tre esempi è stato stimolante sotto molteplici punti di vista: spesso infatti la carenza di testi monografici ha reso indispensabile la consultazione dei cataloghi aziendali e dei siti internet specifici. Questi dati sono stati poi integrati con confronti personali stabiliti con altri oggetti di design al fine di contestualizzare opportunamente l’articolo stesso con l’ambiente storico artistico nel quale è stato sviluppato.

La prima azienda affrontata è la Kartell, fondata nel 1949 da Giulio Castelli: caratterizzata fin dalla costituzione dalla scelta di dedicarsi al mondo del design utilizzando esclusivamente le materie plastiche, oggi è una delle principale aziende del settore, con collaborazioni con i più grandi designer internazionali. L’attenzione poi si sposta sull’azienda Fratelli Guzzini: partendo da una dimensione artigianale, lavorava infatti il corno di bue, approda a una dimensione industriale occupandosi della produzione di articoli per la tavola in plexiglas.

L’elaborato poi si interessa delle vicende aziendali della ditta Alessi, azienda che dal 1921 si occupa della lavorazione dei metalli per la produzione di casalinghi. L’importanza di Alessi all’interno del percorso di studio è testimoniata dalla scelta fatta a partire dal 1990 di utilizzare le materie plastiche nella produzione di una nuova linea di oggetti. Partendo dallo studio dei testi redatti da vari studiosi e collaboratori dell’azienda in occasione dei workshop anteriori alla produzione vera e propria, si può capire come Alessi abbia accostato il concetto di ironia al materiale “plastica” giungendo a produrre articoli nei quali umorismo e funzionalismo sono caratteristiche comuni. Lo studio delle vicende aziendali dell’Alessi è stato agevolato dalle numerose pubblicazioni, spesso frutto di collaborazioni tra Alberto Alessi, attuale direttore dell’azienda, e i grandi designer che fin dagli anni ’50 collaborarono attivamente nella ricerca estetica.

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L’analisi di queste “Fabbriche del design italiano” espressione utilizzata da Alberto Alessi per designare quelle realtà industriali che vantano una stretta collaborazione con designer per quanto riguarda la progettazione dei prodotti, ha permesso di capire che sempre più spesso le aziende si affidano a personalità esterne per elaborare i propri prodotti.

Alla luce di queste riflessioni, l’ultima sezione dell’elaborato vuole proporre un confronto con tre aziende che oggi si stanno approcciando al mondo del design, utilizzando i materiali plastici come materiale principale nella produzione. Queste realtà sono state individuate anche seguendo il principio secondo il quale gli oggetti hanno anche un valore ironico e ludico.

Magis, PLUST Collection e My Your, queste le tre aziende prese in esame, sono inoltre un esempio da seguire per tutte quelle aziende che decideranno di intraprendere la produzione di oggetti di design in materiali plastici.

Attualmente il panorama del design italiano è in continuo mutamente; l’elaborato non deve essere considerato quindi un punto fermo quanto piuttosto una base di partenza per approfondire il rapporto tra materiali plastici e design.

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Capitolo 1

I materiali plastici: una breve storia dall’origine ai giorni

nostri

1.1 La scoperta di un nuovo materiale: la plastica

Il Novecento è stato spesso definito il “secolo della plastica” seguendo l’usanza che associa a ogni periodo storico la materia che è stata più innovativa in un periodo. Con questo nome tuttavia si è soliti indicare un materiale che, a partire dagli anni Cinquanta è entrato a far parte della vita di molte persone, soprattutto nella sfera del quotidiano.

Il sostantivo “plastica” viene fatto derivare dal sostantivo greco plastiké (téchnē) con il significato di “arte della modellazione”; successivamente il termine entra nel lessico latino con il significato di plasmare e modellare. Già in Plinio è presente plastice, in Tertulliano si trova plastica e in Vitruvio compare l’aggettivo

plasticus: tutti termini che, partendo dalla radice plastic- si possono rendere con il

significato di modellare. Il lemma plastica compare nel secoli XVI negli scritti di Ferrante Imperato (1559), in Michelangelo Florio (1563) e nell’opera Il Riposo di Raffaele Borghini (1584); ripreso da Gian Paolo Lomazzo nello stesso anno, si ritrova successivamente in Filippo Baldinucci (1681): è da notare che nella lingua francese la voce plastique è attestata già nel 1556 ed è assai probabile che sia penetrata nel lessico italiano del periodo1. Questa breve introduzione

intende fare chiarezza a livello lessicale, poiché spesso i termini materie plastiche e plastiche sono usati impropriamente come sinonimi mentre per quanto concerne i materiali di cui si intende trattare nella tesi, è necessaria, una breve

                                                                                                               

1 A. Morello, Cultura materiale e cultura dei materiali, in A. Morello, A. Castelli Ferrieri, Plastiche e design,

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disanima che spieghi a sommi tratti che struttura chimica componga le plastiche.

In campo scientifico è bene indicare le plastiche con il termine di materie plastiche o, meglio ancora, con la parola polimeri; con quest’ultima voce si indica una macromolecola composta da molte unità singole, denominati monomeri, unite tra loro tramite un processo chiamato polimerizzazione. I singoli monomeri infatti, se messi in condizione di reagire tramite opportuni catalizzatori o tramite agenti fisici come il calore, si uniscono tra loro creando delle macromolecole, o polimeri appunto. Le proprietà di ciascun polimero dipendono dal tipo e dal numero di molecole utilizzate per la sua creazione; in questo modo si possono creare svariati tipi polimeri, con proprietà fisico chimiche diverse. I polimeri sono caratterizzati da una struttura base molecolare: essa può essere lineare, ramificata o reticolata. Se la molecola è costituita da una serie di unità diverse tra loro e ripetute, come gli anelli di una catena, presenta una struttura lineare; il polimero presenta una struttura ramificata se l’unità costitutiva dello stesso è formata da una catena principale con alcuni rami lineari innestati in punti diversi. L’ultima conformazione fisica del polimero, quella reticolata, presenta invece una catena con vari rami che si intrecciano tra loro dando, a livello microscopico, una struttura a gomitolo. Il tipo di ramificazione e il grado di polimerizzazione, cioè il numero di volte che l’unità base del polimero si ripete nella catena, influenza le caratteristiche fisico chimiche della macromolecola.

I polimeri più utilizzati in campo industriale derivano da quattro prodotti chimici che a loro volta sono sottoprodotti della raffinazione del petrolio; l’etilene, il propilene, il butadiene e lo stirene2.

                                                                                                               

2 L’etilene è un prodotto ricavato dal cracking del petrolio, si presenta sotto forma di gas incolore non

tossico. Molto sfruttato dall’industria chimica, questa sostanza è il punto di partenza per la sintetizzazione di prodotti quali l’alcol etilico, il polietilene o solventi di vario tipo. Il propilene (o propene) è un idrocarburo etilenico derivato dalla raffinazione del petrolio. Si presenta come gas incolore e inodore, se miscelato con l’aria abbassa il livello di ossigeno e con il rischio di esplosioni. Il

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Per comprendere meglio è necessario introdurre i principali additivi che vengono miscelati al polimero affinché questo presenti determinate caratteristiche prestazionali richieste dal mercato. Grazie all’introduzione di additivi quali riempitivi, plastificanti, coloranti, lubrificanti, stabilizzatori e agenti rinforzanti, la versatilità delle materie plastiche è notevolmente aumentata.

Al fine rendere più chiare le caratteristiche di ogni tipo di polimero plastico, è opportuno illustrare brevemente le tipologie di additivi disponibili nel mercato per le materie plastiche3. Tra gli additivi più utilizzati dalle industrie i riempitivi

sono sicuramente i più utilizzati a livello strutturale: queste sostanze, aggiunte al polimero, migliorano la rigidità e la lavorabilità del prodotto. Tra i reagenti più sfruttati in questo campo è presente il carbonato di calcio, ma sono usati anche l’argilla, la silice e il talco. Un ulteriore vantaggio dei riempitivi è rappresentato dalla loro impossibilità di legarsi chimicamente alle macromolecole, sono infatti inerti. Esistono poi alcune sostanze che impediscono l’adesione del manufatto allo stampo nel quale viene formato; agenti antibloccanti come talco o gesso e additivi distaccanti quali cere polipropilene sono spesso spruzzati direttamente negli stampi per facilitare il distaccamento del manufatto dallo stampo stesso. Gli agenti di scivolamento invece riducono la viscosità del materiale plastico fuso, al fine di agevolarne lo stampaggio; tra questi additivi sono presenti amidi, esteri, cere e oli minerali o silicone fluido, utilizzato nel processo di iniezione del poliuretano. Per la

                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

butadiene è in idrocarburo insaturo derivante dalla lavorazione del butano. Gas incolore, non è tossico ma molto inquinante per l’ambiente. Viene utilizzato principalmente nella produzione di gomme sintetiche; nelle industrie viene ricavato, oltre che dal butano, anche dalla sintesi dell’acetilene, dell’alcol etilico. Lo stirene (chiamato anche stirolo) è il monomero dal quale si ottiene per polimerizzazione il polistirene. Quando viene miscelata con l’aria, questa sostanza risulta pericolosa e tossica, specie se inalata; è inoltre poco solubile in acqua. A. Trifoglio, Plastica un materiale per il futuro, Alinea, Firenze 2007, pp. 31-32.

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produzione di determinati materiali plastici come il polistirene, vengono utilizzati inoltre agenti di espansione che, al momento dell’iniezione della materia plastica nello stampo agiscono espandendo il polimero all’interno della matrice. Nella grande famiglia degli additivi plastici vengono inseriti anche agenti stabilizzanti impiegati per ostacolare la degradazione dei polimeri causata dall’ossidazione, fattore molto importante nell’ottica della conservazione museale di manufatti plastici. Tra questi è possibile ricordare particolari sostanze, quali il benzofenone, e gli esteri di acido salicilico, in grado di assorbire i raggi ultravioletti, responsabili ad esempio, dell’ingiallimento di materiali come il policarbonato, solitamente trasparente. Considerati additivi sono anche tutti gli agenti coloranti utilizzati per dare una certa sfumatura alle materie plastiche, che di norma hanno una colorazione variabile tra il trasparente e il bianco opaco. Fin dall’origine i materiali plastici sono stati utilizzati per imitare una certa sostanza naturale, ad esempio il corno, l’avorio, la tartaruga; per ottenere una determinata colorazione o sfumatura si utilizzano pigmenti organici e inorganici, perfettamente solubili nelle materie. La scelta della tipologia dipende dalle esigenze del produttore e dalla sfumatura che si desidera ottenere poiché i pigmenti inorganici sono più stabili alla luce e alla temperatura, mentre con quelli organici si ottengono colorazioni più vividi e brillanti. Per quanto riguarda invece la gamma cromatica disponibile questa è tra le più vaste e dipende dalla disponibilità delle aziende produttrici; di fatto però è possibili ottenere svariati effetti utilizzando agenti coloranti fluorescenti come il solfuro di zinco, polveri metalliche o sbiancanti ottici. I coloranti vengono distribuiti dalle aziende produttrici sotto forma di polveri, solitamente poco utilizzate a causa del loro costo elevato, o con pigmenti concentrati che verranno successivamente distribuiti nel legante e incorporati alla materia plastica.

La famiglia degli additivi è molta vasta; tra queste sostanze i chimici hanno elaborato agenti chimici in grado di migliorare alcune caratteristiche delle

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plastiche, che dipendono dalla destinazione d’uso del manufatto. Sono quindi disponibili sostanze che riducono la resistenza elettrica superficiale del materiale, evitando, ad esempio, il deposito di polvere sulla superficie di uno stampo; da molti anni sono stati sviluppati in laboratorio agenti ritardanti di fiamma, adottati sia nelle materie plastiche utilizzate nella costruzione di edifici a rischio di incendi, sia in filati sintetici di capi d’abbigliamento ignifughi quali tute per automobilismo e indumenti per le forze dell’ordine.

Molto importanti a livello tecnico-strutturale sono gli agenti plastificanti e flessibilizzanti, responsabili rispettivamente della plastificazione esterna ed interna del manufatto. La qualità particolare di questi additivi di origine organica risiede nella possibilità di interagire a livello molecolare e causare la transizione del polimero dallo stato vetroso a quello gommoso, decisamente più sfruttabile nelle operazioni di formatura industriale. Altri additivi utilizzati nella produzione di oggetti quotidiani sono agenti antibatterici o fungicidi che, una volta incorporati nel materiale plastico, migrano verso la superficie del manufatto per contrastare l’azione nociva di batteri o funghi. Fino a qualche anno fa era molto usato a livello industriale l’ossido di tributilstagno, attualmente viene accuratamente evitato per la sua tossicità ambientale.

Dopo questa breve introduzione alla nozione di polimero plastico e additivo, si rende necessaria un’ulteriore precisazione. I polimeri che compongono le plastiche possono avere origine diversa; in base a questo aspetto i principali polimeri sono classificati in polimeri naturali se sono ottenuti con particolari procedimenti chimici da materie effettivamente presenti in natura. Sono presenti inoltre polimeri semisintetici se sono il risultato di un processo chimico su una sostanza di origine naturale come ad esempio avviene per la celluloide, plastica ottenuta combinando chimicamente la canfora con il nitrato di cellulosa. L’ultima tipologia è invece quella delle plastiche totalmente sintetiche, prodotte quindi da polimeri derivanti dalla raffinazione del petrolio; il primo esempio storico di plastica sintetica venne prodotto nel 1907 dal

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chimico belga Leo Baekeland combinando fenolo e formaldeide e dal suo inventore prese il nome di Bakelite4.

La famiglia delle plastiche si divide in due grandi categorie distinte per le diverse proprietà fisiche delle materie plastiche. La prima tipologia comprende i polimeri chiamati termoplastiche; materiali di questo tipo si possono rimodellare dopo averle rammolliti: la struttura molecolare infatti resta identica anche se il materiale viene riscaldato nuovamente dopo il processo di stampaggio; di conseguenza resta inalterato anche il colore e potenzialmente questo tipo di plastiche può essere utilizzato un numero indefinito di volte. Tra le più comuni termoplastiche troviamo l’ABS – Acrilonitrile Butadiene Stirene –, l’acetato di cellulosa, il policarbonato, il polietilene, le poliammidi, usate nella fabbricazione di filati sintetici come il conosciutissimo nylon, il polipropilene, il polivinilcloruro e la categoria dei poliuretani.

La seconda grande categoria viene denominata plastiche termoindurenti e, come si deduce, comprende quelle materie plastiche che dopo lo stampaggio e la solidificazione non possono più essere rammollite , mantengono quindi una struttura molecolare interna permanente. Fanno parte di questa categoria le resine epossidiche, le resine ureiche e melamminiche, i poliuretani e il poliestere insaturo5.

Questa breve presentazione si rende necessaria per poter comprendere agevolmente il paragrafo successivo che tratterà dello sviluppo delle plastiche nel secolo scorso. Partendo dai primi esperimenti avvenuti a metà ‘800, le materie plastiche hanno subito un notevole sviluppo, spinto dall’innovazione tecnologica e dalla versatilità che questo prodotto offriva a livello industriale e non. Con il XX secolo la ricerca chimica e tecnologica si spinse sempre più avanti nella ricerca di nuovi polimeri e furono sintetizzati un notevole numero di nuovi materiali plastici.

                                                                                                               

4 R. Verteramo, The age of plastic: beni artistici e industriali, Il Prato, Saonara 2013, pp. 33-43. 5 A. Trifoglio, Plastica un materiale per il futuro, op. cit., pp. 33-38.

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1.2 Plastiche pre-sintetiche: tra imitazione e nuova identità

“Il materiale più diffuso che popola il paesaggio culturale contemporaneo, il più amato e il più odiato della nostra epoca: la plastica”6: con queste parole

Cecilia Cecchini introduce le materie plastiche, oggetto di una recente mostra “Plastic Days” curata proprio dalla studiosa in collaborazione con Marco Petroni e allestita al museo Ettore Fico a Torino. Oggetto della mostra, allestita per aree tematiche, è la storia dei polimeri plastici, dalla loro primo utilizzo sul finire dell’800 fino all’analisi di alcuni manufatti firmati dai grandi designers del secolo scorso, passando per qualche pezzo rappresentante del cosiddetto “design anonimo”. Seguendo in parte le orme della pista tracciata dalla Cecchini, lo scopo di questo paragrafo sarà quello di approfondire la storia delle materie plastiche, dalle prime scoperte dal sapore quasi alchemico fino agli ultimi polimeri sviluppati per tenere il passo con la ricerca.

Scrive Sergio Antonio Salvi:

nel secolo scorso furono molte le sostanze plastiche che vennero impiegate tanto artigianalmente che industrialmente nella produzione di svariati oggetti. L’industrializzazione portò ad intensificare il prelievo dall’ambiente di sostanze polimeriche naturali che, inizialmente impiegati tal quali, previe lavorazioni di ”formatura”, furono poi modificate sia in modo fisico che con l’ausilio di sostanze chimiche aprendo la strada alla ricerca di materiali sintetici la cui scoperta avvenne molti anni più tardi7.

                                                                                                               

6 Plastic Days: materiali e design, catalogo della mostra a cura di C. Cecchini, M. Petroni (Torino, MEF –

Museo Ettore Fico), Silvana, Milano 2015, p. 20.

7 S.A. Salvi, Plastica tecnologia design: le materie plastiche, i loro compositi, le tecnologie trasformative: dal petrolio al

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In effetti, è storicamente accertato che i primi materiali di origine naturale ad essere riprodotti con materiali plastici furono il corno, l’avorio e la tartaruga. Già dal 1770 sono attestati manufatti quali pettini o piccoli oggetti domestici realizzati in corno o tartaruga con un processo di stampaggio a compressione o di laminazione in lastra sottili.

Altre sostanze di origine naturale quali la gommalacca, sostanza termoplastica ricavata dall’insetto tropicale Kerria lacca, o l’ambra furono utilizzate per la produzione di oggetti quali bocchini per sigarette, dentiere o dischi da fonoriproduzione8. Si nota quindi che, soprattutto sul finire dell’800, quella

che R. De Fusco chiama plastica storica “non imitò tanto i vecchi oggetti quanto i materiali coi quali erano costruiti.”9

Il processo che diede avvio alla sintetizzazione delle prime materie plastiche risale al 1839 e fu inventato dall’americano Charles Goodyear. Questo inventò il processo di vulcanizzazione aggiungendo al lattice naturale ottenuto dall’Hevea brasiliensis, una pianta tropicale originaria del Sud America, polvere di zolfo; successivamente il prodotto veniva scaldato e raffreddato rapidamente: in questo modo la sostanza ottenuta chiamata gomma vulcanizzata o gomma elastica risultava resistente, elastica, impermeabile all’acqua e facilmente

lavorabile10. Sfruttando gli studi sulla vulcanizzazione della gomma naturale, i

fratelli Nelson e Thomas Hancock aumentarono la percentuale di zolfo nel processo; ottennero così, quasi inconsapevolmente, l’ebanite, una nuova materia molto rigida, fragile, dal colore scuro e lucente come l’ebano dal quale prese il nome. Il nuovo materiale, i cui primi studi risalgono al 1843, fu subito utilizzata nella produzione di penne stilografiche, bocchini per sigarette e come materiale odontotecnico grazie all’ottima capacità di essere lavorata in stampi a due impronte per compressione o tramite l’estrusione di pezzi semilavorati,

                                                                                                                8 Ivi, pp. 2-3.

9 R. De Fusco, Fondazione Plart: plastica, arte, artigianato e design, Quodlibet, Macerata 2014, p. 112. 10 Plastic Days: materiali e design, catalogo della mostra a cura di C. Cecchini, op. cit., p. 29.

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rifiniti in un secondo momento. Nel 1851, all’Esposizione Universale tenuta al Crystal Palace di Londra, sono testimoniati alcuni oggetti in questo nuovo materiale, simbolo del nuovo progresso tecnologico raggiunto durante la Belle

Époque11.

Nell’arco di pochi anni vennero sintetizzate nuove materie plastiche, partendo sempre da polimeri naturali, caratteristica questa tipica dei primi materiali plastici, almeno fino alla scoperta e successiva produzione della Bachelite, la prima sostanza plastica completamente sintetica. Dal 1843 venne identificato un nuovo polimero naturale, molto simile alla gomma naturale per caratteristiche e venne chiamato Gutta-percha, vocabolo che deriva dal malese

jetah percáh e significa appunto “gomma di percha”, poiché la sua estrazione

avviene da alcuni alberi dell’ordine delle Sapotacee come la Palaquium gutta. Molto simile al caucciù anche per le caratteristiche di impermeabilizzazione ed elasticità venne usata principalmente per realizzare cavi impermeabili per le comunicazioni.

Tra i polimeri utilizzati in questo periodo viene ricordato il Bois Durci, frutto delle ricerche di François Charles LePage e brevettato in Francia nel 1856. Questo materiale ottenuto dalla miscela di sangue vaccino e segatura di legno era impiegato in sostituzione del legname nella produzione di articoli da scrivania, placche, pettini e altri piccoli oggetti per la casa realizzati dalla Societé

du Bois Durci fino agli anni venti del Novecento quando venne soppiantato dal

crescente utilizzo della Bachelite.

Tra le materie plastiche più conosciute e utilizzate a partire dalla seconda metà dell’Ottocento ci fu la Parkesina, appellativo che deriva dal nome dell’inventore, l’inglese Alexander Parkes. Nato nel 1813 a Birmingham, cresciuto con una solida educazione scolastica nel campo della chimica e della fisica iniziò ad interessarsi della lavorazione della gomma naturale in un momento storico durante il quale brevetti di nuovi materiali e innovazioni

                                                                                                               

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tecniche avevano una cadenza quasi quotidiana. Venuto a conoscenza degli studi di Christian Friedrich Schönbein, il quale aveva prodotto nel 1845 il nitrato di cellulosa, nuovo polimero simile all’ambra ottenuta dalla reazione chimica di cellulosa, acido solforico e acido nitrico, Parkes scoprì che miscelando questa pasta con sostanze oleose, otteneva una pasta che, essiccata somigliava al corno e all’avorio per caratteristiche cromatiche e di resistenza12.

Questa nuova sostanza, brevettata nel 1861, venne pubblicizzata in occasione dell’Esposizione Internazionale di Londra nel 1862 tramite un foglietto illustrativo posto accanto ai primi prodotti in Parkesina che chiariva come questa nuovo materiale “usato allo stato solido, plastico o fluido, si presentava di volta in volta rigido come l’avorio, opaco, flessibile, resistente all’acqua, colorabile e si poteva lavorare all’utensile come i metalli, stampare per compressione, laminare”13.

La produzione industriale di questa sostanza fu affidata alla Parkesine Co. Ltd. fondata nel 1866 con stabilimento a Hackney Wick, poco fuori Londra. Con questo materiale furono effettivamente realizzati braccialetti e altri oggetti di “arte applicata” poiché l’aspetto estetico era molto simile all’avorio e al corno, tuttavia i prezzi erano notevolmente minori. Oggetti d’artigianato non erano i soli prodotti realizzati in Parkesina: cavi telegrafici, pannelli per veicoli, rivestimenti di lamiere navali erano realizzati in questo materiale in virtù delle sue qualità isolanti (Fig. n. 1). Pochi anni dopo il brevetto della Parkesina, il chimico americano John Wesley Hyatt incuriosito da un bando di concorso promosso dalla ditta Phelan and Collander di Albany – stato di New York – produttrice di palle da biliardo decise di mettersi alla prova. L’oggetto del bando era un premio di diecimila dollari all’inventore di un nuovo materiale che andasse a sostituire l’avorio utilizzato nelle palle per biliardo poiché l’avorio naturale cominciava a scarseggiare. Dopo alcuni tentativi fallimentari

                                                                                                               

12 R. Verteramo, The age of plastic: beni artistici e industriali, op. cit., p. 13. 13 L. Scacchi Gracco, Pensieri di plastica, Mondadori, Milano 1986, p. 12.

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causati dall’utilizzo di materiali non adatti come lino pesante e gommalacca o polpa di cellulosa e gommalacca, riuscì ad individuare le giuste componenti: nitrato di cellulosa (utilizzato anche nella sintesi della Parkesina) e canfora. Era il 1863 e il nuovo materiale venne chiamato Celluloide; sette anni dopo il nome “Celluloide” venne depositato e brevettato in data 12 luglio. Immediatamente J.W. Hyatt fondò la Albany Dental Plate Company, la fabbrica responsabile della produzione della nuova plastica; il nome si spiega col fatto che il nuovo materiale venne fin da subito sperimentato dai dentisti che sostituirono la costosa gomma vulcanizzata con la nuova sostanza per ottenere le impronte dentarie. L’azienda cambiò nome in Celluloid Manufacturing Company e venne spostato lo stabilimento in New Jersey nel 1872. Facilità di lavorazione, possibilità di essere colorata e decorata a piacimento, resistenza: queste le caratteristiche principali che decretarono il successo di questo nuovo polimero. La produzione industriale su vasta scala venne avviata, merito anche delle capacità imprenditoriali di Hyatt. Nel 1929 la produzione mondiale raggiunse le 40 mila tonnellate grazie anche alla nascita di fabbriche che producevano questo materiale sfruttando la concessione dei brevetti Hyatt14.

Grazie alle fabbriche ormai sorte in tutti i paesi industrializzati, gli oggetti in Celluloide divennero ben presto i protagonisti della vita domestica fino alla prima metà del Novecento: occhiali, bigiotteria, borsette e trousse da signora, penne stilografiche, bottoni e anche la prima pellicola fotografica e cinematografica, sviluppata dal 1889 dalla Eastman Kodak in sostituzione delle vecchie lastre di vetro e collodio.

Celluloide, Ebanite e Parkesina cominciarono a diffondersi, essere conosciute e soprattutto apprezzate per le loro qualità tecniche, crebbe di conseguenza la

                                                                                                               

14 La prima fabbrica sorse in Francia nel 1875 a Stains, vicino a St Denis, ad opera della Compagnia

Franco Americana; successivamente fu fondata in Gran Bretagna la British Xylonite (1877) e in Germania venne iniziata la produzione di Celluloide in uno stabilimento a Offenbach am Main (1878). In Italia la Società Italiana della Celluloide iniziò la produzione della nuova plastica nel 1924 presso lo stabilimento di Castiglione Olona (Va). L. Scacchi Gracco, Pensieri di plastica, op. cit., pp. 14-15.

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richiesta di nuovi materiali plastici in grado di sostituire sostanze naturali. Adolph Spitteler e Wilhelm Kirsche, due ingegneri chimici tedeschi, cominciarono a studiare una nuova sostanza plastica che prese il nome di

Galalith15, lemma composto dalle parole “latte” e “pietra”. Questo nuovo

polimero plastico venne brevettato nel 1897. Successivamente il brevetto venne esteso agli Stati Uniti, all’Inghilterra, dove venne commerciato sotto il nome di Erinoid dalla Critchley Brothers Ltd a partire dal 1913. Con il nome

Galalite, questo materiale fu prodotto anche in Italia e nelle principali nazioni

europee fino agli anni Quaranta. Il nuovo polimero, disponibile su scala

industriale a partire dal 1913 circa, era ottenuto partendo dal siero di latte e dalla formaldeide, grazie all’azione chimica di un enzima. Per le sue proprietà di durezza e lavorabilità venne chiamata anche “corno artificiale” e utilizzata per articoli di gioielleria, manici di ombrelli, tasti di pianoforti; grazie alla porosità del materiale, questo poteva essere colorato a piacimento tramite immersione dell’oggetto in un bagno di colore e quindi era perfettamente adatto a riprodurre artificialmente il corno, il guscio di tartaruga, l’avorio o il legno. La fortuna di questa plastica non fu di lunga durata; a causa infatti della sua facile deformabilità se scaldata ad alte temperatura venne soppiantata dalla nascente Bachelite, la prima plastica sintetica della storia, nonché la prima materia termoindurente che conserva la propria forma anche se riscaldata dopo il primo processo di formatura.

Finora la storia delle materie plastiche ha sfruttato nella produzione stessa di queste sostanze esclusivamente materiali di origine naturale, puri o miscelati opportunamente con elementi chimici. La svolta in questo settore produttivo avvenne quando il chimico d’origine belga, ma statunitense d’adozione, Leo Hendrick Baekeland16 riuscì a sintetizzare la prima plastica composta                                                                                                                

15 Ivi, pp. 16-17.

16 Leo Hendrick Baekeland nasce il 14 novembre 1863 a Gand, in Belgio. Di umili origini ma con un

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esclusivamente da materie chimiche. La resina ottenuta dalla sintesi tra formaldeide e fenolo venne brevettata nel 1907 mentre la comunicazione ufficiale della nuova scoperta venne tenuta il 9 febbraio 1909 presso la sezione di New York della American Chemical Society. La nuova plastica ottenuta dal chimico belga, grazie alla sua composizione chimica, era ideale per essere lavorata in stampi; la resistenza meccanica e le caratteristiche di isolante termoelettrico, vennero fin dall’inizio sfruttate per la realizzazione dei primi elettrodomestici, di giocattoli, lampade, cruscotti di automobili, bocce e punte delle stecche da biliardo (Fig. n. 2).

La vendita dei brevetti della società di Baekeland diffuse la Bakelite in tutto il mondo; nel 1936 la produzione mondiale di questo prodotto superava le 90 mila tonnellate l’anno, quantità che raddoppiò al momento della morte dello scienziato, avvenuta nel 1944. La prima sostanza completamente sintetica aprì decisamente le porte alla ricerca tecnologica di nuovi materiali; fu subito chiaro che, combinando opportunamente molecole chimiche diverse, era teoricamente possibile realizzare materiali con caratteristiche precise. Nel prossimo paragrafo si cercherà di illustrare le principali materie plastiche che hanno rivoluzionato il mondo tecnologico e del design nel primo Novecento. Tra le prime sostanze completamente sintetiche il polimetilmetacrilato, conosciuto con la sigla PMMA, è il più importante tra i polimeri derivati dall’acido acrilico. Prodotto industrialmente a partire dagli anni ’30, fu sintetizzato dalla società Röhm and Haas dal 1928 tramite la polimerizzazione

                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

Gand presso la quale si laurea in chimica nel 1882. Nel 1889 si trasferisce negli Stati Uniti dove lavora dapprima presso la Anthony & Co., un’industria di materiale fotografico, e successivamente fonda nel 1893 la Nepera Chemical Co. attiva sempre nello stesso settore, produceva infatti carta fotografica, e acquistata per una notevole cifra dalla Eastman Kodak. Nonostante l’agiatezza economica garantita dalla vendita della società e dei brevetti, continuò la ricerca nel campo chimico giungendo alla produzione di una nuova plastica, ottenuta per condensazione tra fenolo e formaldeide nel 1907. Dopo le prime esigue quantità prodotte nel piccolo laboratorio di Yonkers (New York) fondò la General Bakelite Company il 10 ottobre 1910 con l’obiettivo di produrre quantità sempre maggiori della nuova sostanza. L. Scacchi Gracco, Pensieri di plastica, op. cit., pp. 17-18.

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del metilmetacrilato. La materia ottenuta, dall’aspetto vetroso, fu utilizzata dapprima come materiale spalmabile o come adesivo. Studi successivi compiuti nel 1934 dai ricercatori Rowland Hill e John Crawford, resero possibile la polimerizzazione del polimetilmetacrilato: questa nuova materia all’apparenza simile al vetro per la sua notevole trasparenza, aveva tuttavia una densità minore combinata con un’ottima resistenza, motivo per cui fu utilizzata spesso come sostituto delle parti in vetro di automobili e mezzi di trasporto.

Dalla fine degli anni ’30 il polimetilmetacrilato (PMMA) suscitò l’interesse dell’industria aeronautica inglese e tedesca, la quale adottò questo nuovo polimero nella costruzione delle parti trasparenti delle fusoliere dei velivoli. Lo sfruttamento di questo materiale, almeno all’inizio, avvenne da parte dell’industria bellica, ricordo infatti che siamo attorno al 1930, anni durante i quali tutte la nazioni europee cercavano di potenziare l’apparato militare di ogni stato. Il polimetilmetacrilato possiede un’ottima capacità di trasmissione della luce, motivo per cui fu utilizzato anche per la costruzione delle primissime fibre ottiche, che com’è noto, trasmettono dati sotto forma di impulsi luminosi; gradualmente i cavi coassiali utilizzati per le comunicazioni in tutto il mondo verranno sostituiti da questa nuova tecnologia. Per le sue caratteristiche di trasparenza, resistenza e leggerezza, il PMMA17 venne

utilizzato in moltissimi campi; dall’arredamento all’industria automobilistica, dalla nautica alla realizzazione di parti di piccoli elettrodomestici, fino alle apparecchiature per laboratorio (Fig. n. 3).

L’innovativo materiale destò fin da subito l’attenzione di artisti quali Naum Gabo (Brjansk, 1890 – Waterbury, 1977) o László Moholy-Nagy (Bácsborsód, 1895 – Chicago, 1946) il quale sfruttò le proprietà ottiche del

                                                                                                               

17 Il polimetilmetacrilato fu commerciato a partire dal 1936 con il nome di Plexiglas, mentre dal 1937

la produzione di PMMA negli Stati Uniti fu affidata alla DuPont che vendette il prodotto con il nome di Lucite. L. Scacchi Gracco, Pensieri di plastica, op. cit., pp. 25, 48.

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polimetilmetacrilato nella costruzione dell’opera Lichtrequisit, una macchina cinetica luminosa realizzata dall’artista ungherese tra il 1922 e il 1930. Sempre durante gli anni ’30 vennero condotti i primi esperimenti per ottenere un nuovo polimero plastico: si tratta del polietilene. Sviluppato in Inghilterra e successivamente negli Stati Uniti dalla DuPont e dalla Union Carbide, è oggi una delle plastiche più diffuse sul continente per la facilità di lavorazione, l’atossicità, la trasparenza che ne fanno una tra le materie più versatili nel campo dei polimeri plastici. Questo nuovo polimero fu scoperto, quasi accidentalmente nel 1933, quando due ricercatori della Alkali Division dell’azienda inglese ICI – Imperial Chemical Industries – Eric W. Fawcett e Reginald O. Gibson stavano lavorando a un progetto di ricerca sulla reazione chimica di alcune sostanze in condizione di alta pressione. Sottoponendo l’etilene e il benzene a una pressione di 1400 atmosfere a una temperatura di 170°, notarono che sulle pareti dell’apparecchio si era formata una sostanza biancastra dall’aspetto ceroso. Proseguendo gli studi e le analisi scoprirono che si trattava di un polimero dell’etilene, e nel 1935 riuscirono a sintetizzare il polietilene sottoponendo l’etilene ad altissima pressione in presenza di ossigeno. Fin da subito fu compresa l’importanza tecnica del nuovo materiale e l’ICI decise la costruzione di un impianto industriale nel 1939 dove proseguire la ricerca; contemporaneamente la richiesta aumentava e furono passate le informazioni tecniche di produzione alle aziende americane DuPont e Union Carbide Chemicals che iniziarono a produrre il nuovo polimero nel 1941, spinti anche dalle necessità belliche. Per una diffusione a livello mondiale bisognerà aspettare la fine del conflitto; oggetti di ogni forma, dimensione e colore entreranno nelle abitazioni, prima americane successivamente europee, grazie anche ad aziende quali Tupperware Corporation18, tra le prime ad

utilizzare il polietilene per produrre contenitori alimentari. La Tupperware Corporation fu fondata da Earl Silas Tupper nel 1944. Utilizzando il

                                                                                                               

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polietilene, materiale introvabile in quegli anni, soprattutto per usi diversi da quelli bellici, progettò il contenitore Wonderbolls, di fatto una ciotola tonda con tappo ermetico a strappo, ideale per conservare i cibi. Nel 1951, E.S. Tupper, insieme a Brownie Wise, vicepresidente della compagnia, concepirono il “Tupperware Party” ovvero una dimostrazione dei prodotti dell’azienda effettuata a domicilio, sicuro che l’illustrazione delle qualità dei prodotti fosse più utile rispetto alla vendita al dettaglio nei grandi magazzini. Il successo fu immediato e contribuì ad un deciso incremento nella produzione del

polietilene, oltre che del successo aziendale della Tupperware Corporation.Gli

anni ’30 del Novecento furono caratterizzati dalla scoperta, spesso seguita dal successivo brevetto, di materiali plastici nuovi, ottenuti dalla polimerizzazione di diverse molecole chimiche.

Nel 1934 furono individuate le resine melamminiche, prodotto della polimerizzazione tra formaldeide e melammina, i cui primi utilizzi nel mondo industriale risalgono al 1939, quando la formula per realizzarle fu brevettata dalla tedesca Henkel e dalla svizzera CIBA. Resistente all’acqua, agli agenti chimici e alle alte temperature, questa sostanza si presenta come resina incolore e inodore; è un materiale termoindurente e mantiene la forma anche se riscaldata, caratteristica grazie alla quale questa materia plastica è stata utilizzata per realizzare stoviglie e altri articoli da cucina19.

Nello studio dei polimeri sintetici spesso ci si imbatte in vicende particolarmente lunghe. Molte volte infatti un polimero sintetico viene sintetizzato già a partire da metà ‘800, quel che invece non si riuscì a realizzare in quell’epoca è la polimerizzazione, vale a dire l’unione delle singole molecole al fine di ottenere un materiale utilizzabile nella produzione industriale. La storia del polivinilcloruro, chiamato anche PVC, e quella del polistirene seguirono proprio questa sorte. Il monomero cloruro di vinile, sostanza di partenza per la realizzazione del PVC, fu sintetizzato già nel 1845 da Henri

                                                                                                               

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Victor Regnault. Il chimico francese esponendo involontariamente il nuovo composto alla luce del sole provocò una polarizzazione che causò la nascita del PVC, scoperta alla quale lo scienziato non fece caso. Eugen Baumann proseguì gli studi sulla sintesi del monomero e nel 1872 riuscì a comprendere il processo di polimerizzazione tramite il quale era possibile ottenere il polivinilcloruro. Gli studi procedettero grazie al contributo del tedesco Fritz Katte e dello scienziato russo Ivan I. Ostromislensky, tuttavia la produzione industriale non avvenne prima del 1939, nonostante ulteriori studi portati avanti dall’azienda statunitense Union Carbide Chemicals nell’anno 1927. Questa materia plastica fu sintetizzata anche in Germania prima del secondo conflitto mondiale dall’azienda I.G. Farben, che diversamente dalla produzione statunitense di PVC, sintetizzava la macromolecola con un procedimento di emulsione e non di condensazione20.

Una sorte analoga alla scoperta del PVC avvenne con il polistirene. Ottenuto per caso da E. Simon per polimerizzazione spontanea dello stirene esposto alla luce solare nel 1839, si dovette attendere almeno fino al 1922 affinché si passasse alla produzione industriale di questo materiale. In quell’anno infatti gli scienziati C. Dufraisse e C. Mureau scoprirono gli inibitori della polimerizzazione dello stirene; in questo modo fu possibile conservare la nuova sostanza allo stato liquido. La produzione industriale venne anche spinta dalla crescente richiesta di questo polimero da parte dell’industria bellica. A causa del suo utilizzo come sostituto della gomma naturale, la produzione industriale venne potenziata poiché il caucciù, proveniente dalla Malesia e dalle Filippine, era inaccessibile a causa dell’occupazione dei due

paesi da parte delle forze armate giapponesi21. Roberta Verteramo nota che

                                                                                                               

20 L. Scacchi Gracco, Pensieri di plastica, op. cit., pp. 24, 49. 21 Ivi, pp. 24-25, 49.

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la prima metà del ventesimo secolo venne profondamente segnata dalla tragica e paradossale parentesi delle guerre mondiali. Se, da un lato, esse rallentarono la produzione, dall’altro agirono considerevolmente sullo sviluppo e la ricerca di nuovi materiali che rispondessero alle esigenze belliche22.

Il poliuretano conferma esattamente questa riflessione; sviluppato tra il 1937 e il 1939 nei laboratori della AG Farben da Otto Georg Wilhelm Bayer, dipendente dell’azienda nonché parente del suo fondatore Friedrich Bayer, la sua produzione industriale cominciò solo negli anni cinquanta. L’aspetto più innovativo del processo di polimerizzazione di questa sostanza è che questo avviene tra componenti liquidi, senza bisogno di fonti di calore o pressione. Questa caratteristica, unita all’ottima lavorabilità – il poliuretano si può infatti lavorare per iniezione, estrusione o soffiaggio – lo ha reso una tra le plastiche più sfruttate e diffuse al mondo. Dagli anni ’40, le ricerca su questo tipo di polimero continuò; si ottenne così un poliuretano che poteva essere utilizzato come collante grazie alle sue qualità adesive. Aggiungendo invece piccole quantità di acido durante il processo di formazione del materiale, gli scienziati riuscirono a farlo espandere ottenendo così un materiale leggero e flessibile che, a partire dal decennio successivo venne largamente utilizzato come imbottitura per sedute e divani23.

Polistirene, cloruro di polivinile, polimetilmetacrilato, polietilene possono essere considerate esiti della ricerca promossa indirettamente dall’industria bellica. Non fa eccezione il Nylon24, nome commerciale dato dalla DuPont de                                                                                                                

22 R. Verteramo, The age of plastic: beni artistici e industriali, op. cit., p. 17.

23 R. Verteramo, The age of plastic: beni artistici e industriali, op. cit., p. 17. L. Scacchi Gracco, Pensieri di

plastica, op. cit., p. 49. Plastic Days: materiali e design, catalogo della mostra a cura di C. Cecchini, op. cit., p. 34.

24 L’origine del nome Nylon è piuttosto confuso, al limite dell’aneddotica. Alcuni sostengono che le

lettere “nyl”, scelte a caso, furono aggiunte al suffisso “–on” già presente nei nomi di alcune fibre tessili. Altri pensano derivi dalle città New York e Londra. L. Scacchi Gracco suggerisce che il nome del nuovo polimero derivi dai nomi Nancy, Yvonne, Lonella, Olivia, Nina, iniziali dei nomi delle

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Nemours alle resine poliammidiche ottenute nel 1938 dall’ingegnere chimico Wallace Hume Carothers. Fin dal 1928 Carothers era stato assunto dalla DuPont come direttore di un reparto di ricerche aziendale situato a Wilmington, in Delaware; il suo team aveva l’obiettivo di individuare una sostanza sintetica con caratteristiche affini alle fibre vegetali e animali, come la cellulosa o la seta. Facendo reagire esametilendiammina con acido adipico lo scienziato e la sua équipe ottennero il poliammide 66, una nuova sostanza che poteva essere utilizzata sia per produrre ingranaggi e pezzi per l’industria bellica, sia per realizzare filati di grande resistenza e durevolezza. Il 18 ottobre 1938 la DuPont comunicava l’entrata in produzione del nuovo polimero nello stabilimento di Seaford, sempre in Delaware; risale al 1939 l’acquisizione dei brevetti per la fabbricazione e vendita da parte della Montecatini Edison, passati poi alla Società Elettrochimica del Toce. La produzione italiana del Nylon cominciò nel 1942; le principali aziende che producevano questo materiale furono la Rhodiatoce nata da una collaborazione tra la Montecatini e l’azienda francese Rhône-Poulenc, la Châtillon-Società Anonima Italiana Fibre Tessili Artificiali S.p.a con stabilimenti nelle zone di Ivrea e Vercelli, e infine la Snia Viscosa (Fig. n. 4). Dagli anni ’40 questo nuovo prodotto rivoluzionò praticamente ogni settore industriale, in particolare l’ambiente della moda25.

Dalla metà degli anni Quaranta, complice l’interesse da parte di molti gruppi industriali statunitensi ed europei nel settore delle materie plastiche, furono

                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

mogli dei ricercatori coinvolti nel progetto. L’idea più fantasiosa e discutibile fa della parola Nylon l’acrostico della frase “Now You Lose Old Nippon” con un evidente disprezzo per il popolo giapponese che durante la seconda guerra mondiale avrebbe interrotto le esportazioni della seta per realizzare paracadute negli Stati Uniti, costringendo di fatto la potenza americana a sviluppare un materiale sostitutivo. Impossibilitati a verificare l’autenticità di queste deduzioni, l’origine della parola Nylon resta in bilico tra ambigue ipotesi e leggende metropolitane. L. Scacchi Gracco, Pensieri di plastica, op. cit., p. 27. A. Trifoglio, Plastica un materiale per il futuro, op. cit., p. 15. Plastic Days: materiali e design, catalogo della mostra a cura di C. Cecchini, op. cit., p. 34.

25 L. Scacchi Gracco, Pensieri di plastica, cit., pp. 27-28. A. Trifoglio, Plastica un materiale per il futuro, op.

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sviluppati nuovi polimeri, con caratteristiche diverse, studiate appositamente da chimici e ingegneri. Seguendo questa logica produttiva, nel 1947 apparvero in commercio le prime resine epossidiche, materiale termoindurente abbinato spesso a materiali fibrosi per rinforzare manufatti dell’industria elettrica, meccanica e chimica. Sono anni nei quali le scoperte in campo chimico si susseguono con l’introduzione nel mercato di nuovi polimeri con i quali produrre i primi manufatti per la grande distribuzione. Nel 1948 venne introdotta la resina ABS, ottenuta miscelando una resina appunto con un elastomero e ottenendo di conseguenza un prodotto con caratteristiche intermedie, tra le quali spiccano la resistenza all’urto e la durezza superficiale. Commercializzato a partire dagli anni cinquanta, l’ABS fu sfruttato specialmente nella produzione di mobilio, nell’industria automobilistica e per realizzare le scocche dei primissimi elettrodomestici che facevano la prima timida comparsa nelle case degli italiani26.

In questo “viaggio” nella storia dei materiali plastici, non può certamente essere tralasciato il primo polimero sviluppato da una mente italiana. Si tratta del polipropilene, ottenuto dal chimico Giulio Natta nel 1954. Nel taccuino di laboratorio di Natta, che all’epoca era professore al Politecnico di Milano, in data 11 marzo 1954 viene annotata la frase “fatto il polipropilene”: era ufficialmente nata una delle plastiche più utilizzate dall’industria per produrre gli oggetti più diversi. Sfruttando i catalizzatori organometallici scoperti da Karl Zieger, professore all’epoca del Max Plank Institute di Mülhein in Germania, Natta riuscì ad attuare la polimerizzazione del propilene, ottenendo un nuovo polimero a struttura molecolare cristallina regolare: il polipropilene isotattico. L’importanza di questa scoperta fu enorme, sia dal punto di vista chimico che, di conseguenza, sotto l’aspetto economico. Il nuovo polimero termoplastico era estremamente leggero, galleggiava quindi sull’acqua, resisteva

                                                                                                               

26 R. Verteramo, The age of plastic: beni artistici e industriali, op. cit., p. 18. L. Scacchi Gracco, Pensieri di

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fino a temperature di 176° quindi poteva essere sterilizzato con vapore a 100° e, grazie alle ottime proprietà dielettriche era adatto ad applicazioni in campo elettrico ed elettronico. Queste caratteristiche chimiche rendevano facilmente lavorabile la nuova sostanza plastica; poteva infatti essere estruso, formato sotto vuoto, stampato in spessori sottili, filato e colorato senza alcun problema27. É necessario puntualizzare in questo momento che Natta non

lavorò da solo; fin dall’inizio della sua carriera di docente universitario, lo scienziato italiano capì l’importanza del lavoro di squadra. Dal 1954 era infatti a capo della “Scuola di Natta”, una scuola di chimica molecolare composta da un team di assistenti universitari e ricercatori della società Montecatini con lo scopo di condurre ricerche nel campo dei polimeri. A partire dal 1957, il nuovo polimero venne messo in produzione su vasta scala dalla Montecatini di Ferrara con il nome di Moplen; a questo prodotto vennero affiancati altri polimeri con le denominazioni commerciali di Meraklon e Moplefan praticamente si trattava del polipropilene isotattico filato per ottenere fibre sintetici o lavorato in pellicole trasparenti. La diffusione di queste materie a livello nazionale avvenne anche grazie alle fiere dedicate al disegno industriale (Fig. n. 5).

Per quanto riguarda il polipropilene, la Montecatini allestì il primo stand con prodotti in Moplen all’esposizione “L’era delle materie plastiche” durante la II Mostra dell’estetica industriale, curata da Mario Ballocco nel 1957. L’allestimento, curato da Achille e Pier Giacomo Castiglioni con i quali la Montecatini collaborava fin dal 1953, prevedeva il posizionamento dei manufatti sul fondo scuro di vetrine continue interne alle pareti del padiglione. Gli oggetti esposti erano corredati da apposite descrizioni con riportate le caratteristiche tecniche della sostanza, immagini delle fasi produttive e,

                                                                                                               

27 C. Cecchini, Mo…moplen. Il design delle plastiche negli anni del boom, Rdesignpress, Roma 2006, p. 20.

Giulio Natta l’uomo e lo scienziato. Documenti e immagini, a cura del Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “Giulio Natta” del Politecnico di Milano, AIDIC Servizi, Milano 1998.

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all’interno dell’ambiente, erano presenti voluminosi manufatti semilavorati28.

La promozione del Moplen grazie alle fiere nelle quali era presente lo stand della Montecatini, società produttrice del polipropilene isotattico, era affiancata dalle prime pubblicità trasmesse in televisione. Dalla fine degli anni ’50, il comico Gino Bramieri elogiava le qualità delle nuove bacinelle in Moplen dagli schermi tv durante la trasmissione Carosello, antenata delle moderne pubblicità. I tormentoni “E mò e mò e mò… Moplen” o “Ma signora badi ben, che sia fatto di Moplen” riempirono le case degli italiani, complice l’autoironia dell’attore alle prese con le fatiche delle faccende domestiche, abbandonato dalla moglie architetto, fuori casa per lavoro (Fig. n. 6).

Per le ricerche nel campo della polimerizzazione dei polimeri plastici Giulio Natta fu il primo italiano a ricevere nel 1963 il premio Nobel per la chimica. Il professor Arne Fredga, membro della commissione Nobel per la chimica, presentò così Natta alla platea riunita per la premiazione:

La Natura sintetizza molti polimeri stereoregolari, per esempio la cellulosa e la gomma. Si è pensato per lungo tempo che questa capacità fosse un monopolio della Natura. Ma ora il professor Natta ha rotto questo monopolio.

Professor Natta. Lei ha avuto successo nella preparazione, attraverso un nuovo metodo di macromolecole che possiedono una struttura spaziale regolare. Le conseguenze scientifiche e tecniche della sua scoperta sono immense e non possono ancora essere pienamente stimate…29

Il 10 dicembre re Gustav VI di Svezia consegnò nelle mani di Natta il riconoscimento, grazie al quale il professore del Politecnico di Milano vide riconosciuti i suoi sforzi in campo scientifico.

Dalla seconda metà del Novecento la ricerca chimica fece progressi notevoli in tutti i campi, anche per quanto riguarda la chimica dei materiali. Dopo le

                                                                                                               

28 Ivi, pp. 34-49. A. Pansera, Storia del disegno industriale italiano, Laterza, Roma 1993, pp. 120-123. 29 C. Cecchini, Mo…moplen…, op. cit., p. 40.

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scoperte di Natta le reazioni alla base della polimerizzazione divennero oggetto di studi sempre più approfonditi. Scrive Verteramo

Negli anni, la felice prospettiva avveniristica sulle materie plastica, ebbe il sopravvento. Essa era frutto dell’intima convinzione di chi operava nel campo e credeva, con fermezza ed entusiasmo, nella qualità dei prodotti che costituivano il suo mondo e nella loro ipotetica longevità30.

I nuovi polimeri che comparvero sul mercato erano sempre più specifici: spesso infatti queste sostanze erano sviluppate per rispondere a una precisa caratteristica tecnica con il risultato che, nel giro di un decennio fu disponibile un numero esorbitante di “tecnopolimeri” degni di sostituire perfino i metalli grazie alle loro proprietà intrinseche. Della famiglia fan parte il policarbonato, disponibile dagli anni ’60 per produrre manufatti molto resistenti agli urti e al calore, le resine acetaliche, il polifenilene ossido, i polisolfoni, il polibutilentereftalato. I campi d’interesse ovviamente sono molti, soprattutto perché ogni nuovo polimero sintetizzato risponde a determinate esigenze tecniche produttive. Questi materiali, conosciuti anche con il nome di

engineering plastics o engineering polymers, sono utilizzati principalmente nel settore

automobilistico e aereonautico; trovano inoltre impiego anche nel comparto elettronico, nel settore medicale o dell’edilizia31.

A partire dalla crisi petrolifera del 1973, si cominciò a riflettere, soprattutto in Italia, sull’impatto ambientale delle materie plastiche. Concluso il periodo del cosiddetto boom economico del ventennio ’50 - ’60, gli oggetti di plastica cominciarono a perdere quell’aura sacra che li aveva resi quasi indispensabili nell’universo domestico. La maggior parte dei polimeri sintetici che costituivano la struttura chimica di tutti quegli oggetti presenti in ogni casa

                                                                                                               

30 R. Verteramo, The age of plastic: beni artistici e industriali, op. cit., p. 17.

31 L. Scacchi Gracco, Pensieri di plastica, op. cit., pp. 33-34. Plastic Days: materiali e design, catalogo della

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italiana del dopoguerra, derivava dal petrolio e veniva prodotta con fonti di energia non rinnovabile. Dagli anni ’90 si può assistere a una nuova presa di coscienza del problema ambientale legato all’inquinamento causato dall’eccessivo utilizzo di materie plastiche. Queste convinzioni spinsero alcune aziende, tra le quali ricordiamo l’italiana Novamont32, a investire fondi nella

ricerca di polimeri naturali dai quali realizzare materiali plastici, evitando così l’utilizzo del petrolio. È il concetto di bioplastica, una sostanza sintetizzata partendo da biopolimeri ricavati soprattutto da amidi quali l’amido di mais, dal frumento dalla patata, dal riso o dalla tapioca. L’aspetto interessante, o la sfida tecnica, che questi nuovi materiali pongono è duplice: se da un lato è necessario ricercare polimeri naturali idonei alla produzione di bioplastiche, dall’altro indispensabile che questi polimeri siano lavorabili con gli stessi procedimenti tecnici industriali che hanno caratterizzato i polimeri plastici “tradizionali”. Come accennato poco sopra i polimeri dai quali partire per poi sintetizzare bioplastiche sono principalmente amido di mais, di frumento, di patate, di granoturco, siero di latte, alghe o, in alcuni casi, collagene idrolizzato proveniente da scarti dell’industria del cuoio. Lo scopo principale delle bioplastiche è appunto la loro capacità di essere attaccate e, nel tempo, decomposte da microrganismi, in tempi relativamente brevi; anche la plastica sintetica può essere scomposta però in tempi così lunghi che non è ammissibile un confronto con la decomposizione organica che interessa le bioplastiche. Bisogna infatti partire dal presupposto che la distanza tra i tempi di consumo del prodotto imballato con materiali plastici e la durata del

                                                                                                               

32 La Novamont spa è un’azienda italiana fondata a Novara nel 1990. Nata all’interno del gruppo

Montedison, si occupa di produrre bioplastiche. Il principale prodotto aziendale è il Mater-Bi, una bioplastica costituita da amido di mais, patata e grano. Grazie alla sua composizione questo materiale è totalmente biodegradabile ed è lavorabile esattamente come qualsiasi materia plastica tramite stampaggio, estrusione o laminazione. Prodotto nello stabilimento di Terni, il Mater-Bi si presta per la produzione di imballaggi, stoviglie, oggettistica varia e sacchetti completamente riciclabili. Nel 2007 l’azienda è stata insignita del premio Inventore dell’Anno. www.novamont.com.

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