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GLI ENTI LOCALI PRIMA DELLA COSTITUZIONE (1888-1948)

CAPITOLO SECONDO

L’UNIONE DEI COMUNI NEL SISTEMA REGIONALE ITALIANO

3. GLI ENTI LOCALI PRIMA DELLA COSTITUZIONE (1888-1948)

Nonostante l’ascesa al potere della sinistra nella seconda metà degli anni 70 non si ebbe quella apertura verso il problema dell’amministrazione locale e i conseguenti tanto auspicati mutamenti della suddetta. Solo sotto il governo Crispi venne varata una superficiale riforma della legge del 1865.

Con la legge 30 dicembre 1888, n 5865 (poi fusa nel T.U. 30 dicembre 1889, n. 5291) si ebbero le seguenti modifiche:

- L’ampliamento del suffragio amministrativo, adeguandolo a quello politico136;

- la riorganizzazione della provincia come corpo a sé stante, dotato di un presidente espresso dal consiglio provinciale, con correlativa sottrazione al prefetto della presidenza della deputazione provinciale e della rappresentanza della provincia;

- l’elettività dei sindaci dei comuni maggiori; l’elettività dei sindaci divenne generale solo nel 1896137;

136 Introdotto dal governo De Pretis nel 1882 e caratterizzato dall’allargamento del suffragio per l’elezione della Camera

dei Deputati e la sostituzione del sistema del collegio uninominale con quello dello scrutinio di lista.

137 “Nelle idee di Crispi la differenziazione tra grandi e piccoli comuni rappresentava un inizio di quell’abbandono del

- il perfezionamento dei metodi di unione dei comuni in consorzi per la erogazione di certi servizi;

- l’istituzione di un nuovo organo presso la prefettura: la Giunta provinciale amministrativa, cui venne affidato il controllo di merito sugli atti di comuni e province. Tale organo a composizione mista (comprendente quattro membri eletti dal Consiglio provinciale, e due funzionari del Consiglio di prefettura) era presieduto dal prefetto e fu subito considerato come organo statale. Le nuove misure, ispirate a principi di autonomia e di rappresentatività democratica, vennero così controbilanciate dal rafforzamento del sistema del controllo sugli atti, che venne distribuito, nelle sue forme tipiche, tra il prefetto (controllo di legittimità) e la Giunta provinciale amministrativa (controllo di merito).138

Non si rilevarono cambiamenti di rilievo fino al 1903 quando con la legge 29 marzo n. 103 il ministro Giolitti cercò di disinnescare il pericolo autonomista e di mantenere salda l’integrità del regno anche a livello di enti locali, attraverso la municipalizzazione dei servizi di pubblico interesse.

Tuttavia, la deliberazione di municipalizzazione doveva comunque essere approvata dalla Giunta provinciale amministrativa, accompagnata dal parere del prefetto, trasmessa al Ministero dell’Interno e confermata da referendum popolare.

La giovane, fragile, neonata Italia necessitava, agli inizi del ‘900, di un costante controllo che la proteggesse dalle spinte centrifughe; controllo che si tradusse in un sistema di vigilanza sugli enti locali che consentiva una vasta ingerenza governativa sulle amministrazioni locali.

Gli enti locali degli albori dello Stato italiano unitario erano organi di amministrazione indiretta dello Stato, a base territoriale, che perseguivano interessi coincidenti con quelli statali e quindi da assoggettare ad un penetrante controllo, di legittimità e di merito, in ossequio al principio dell’unitarietà dell’azione amministrativa.

Di qui una estesa funzione di vigilanza, quale controllo di legittimità, per la verifica della regolarità formale di tutte le delibere dei Consigli e delle Giunte, attribuita al Prefetto (o al sotto prefetto), che si esprimeva con il visto di legittimità o l’annullamento.

Il primo decennio del nuovo secolo si determina per una politica “espansionistica” da parte del sistema centrale nei confronti del sistema amministrativo locale e delle sue competenze.

Lo stato si sovrappose gradualmente alla legislazione comunale restrinse sensibilmente i campi nei quali il comune poteva statuire.139

139 Sul punto riferendosi al sistema centrale: “disciplinando or questo or quel settore, tolse praticamente ai Comuni la

possibilità di municipalizzare, se non in alcuni e assai ristretti campi. Formalmente la norma della legge del 1903 non era abrogata; materialmente era svuotata dall’interno di pratica possibilità di applicazione”. M. S. Giannini, i

L’avvento del regime fascista determinò una pericolosa estremizzazione dei principi autarchici già vivi nel primo decennio del secolo e la legislazione statale soppresse definitivamente ogni velleità normativa e governativa degli enti locali. Il sistema centrale al fine di ridurre al minimo qualsivoglia velleità dei comuni italiani prima li svuotò di competenze per poi, in molti casi, sopprimerli fisicamente.

Di conseguenza, pur rimanendo ancora distinti dallo Stato e dotati di personalità giuridica, sia i comuni che le province divennero soggetti al controllo dei poteri centrali, come mai era accaduto in precedenza nell’ordinamento italiano.140

La prima legge fascista in materia di ordinamento comunale e provinciale, il R.D.L. 20 dicembre 1923, n. 2839, introdusse soltanto perfezionamenti tecnici della precedente legislazione.

Ciò non impedì che in pratica, sul piano dell’applicazione legislativa, si usassero degli strumenti forniti dall’ordinamento vigente per perseguire fin da allora intenti antiautonomistici: basti pensare che nel solo 1923 furono sciolti 561 consigli comunali.141 142

Comuni, ID. (a cura di), Atti del congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione. L’ordinamento comunale e provinciale, vol. I, ISAP, Vicenza, Neri Pozza, pag. 35.

140 Sul punto, descrivendo l’involuzione dell’ordinamento giuridico italiano nel ventennio fascista: “sono soppressi tutti

gli istituti democratici e di pluralismo politico. Il sindaco, il presidente della provincia, i consigli comunali e provinciali sono sostituiti da uffici di nomina del governo; si inasprisce ulteriormente il regime dei controlli, fino a potersene contare centrotrenta diversi tipi; si addossa ai comuni una pluralità di altri oneri finanziari” G. Vesperini, Gli enti locali, op. cit., pag. 19.

141 E. Rotelli, Le trasformazioni dell’ordinamento comunale e provinciale durante il regime fascista, in Il fascismo e le

autonomie locali, Bologna, 1973, pag. 80.

142 Sul punto: “questo dimostra, come anche a quel tempo esistesse, da parte del governo, la percezione del problema

della eccessiva frammentazione dei comuni in unità di esigue dimensioni e si avvertiva l’esigenza di porvi rimedio. La soluzione attuata, tuttavia, fu di tipo autoritario e antidemocratico”. M. S. Giannini, op. cit., pagg. 35 e ss.

Senza adottare alcun criterio selettivo e senza alcuna consultazione delle popolazioni furono soppressi coattivamente circa 2000 comuni di piccole dimensioni.

Il primo passo fu rappresentato dalla trasformazione del Comune di Roma in Governatorato, con R.D. 28 ottobre 1925, n. 1949.

Dopo vari interventi normativi le funzioni amministrative e legislative municipali furono affidate ad un governatore e ad un vice governatore nominati con decreto reale, coadiuvati da una consulta di 12 membri nominati anch’essi con decreto reale, su proposta del Ministro dell’Interno, di concerto con quello delle corporazioni.

La prima vera riforma, peraltro, in senso fascista dell’ordinamento comunale fu l’introduzione dell’istituto podestarile, che significava, come proclamavano i suoi fautori, la sostituzione al sistema elettivo, scaturente dal dogma della sovranità popolare, quello della designazione dall’alto, fondato sulla sovranità nazionale.

La riforma podestarile fu attuata per gradi: dapprima nei comuni più importanti (L. 4 febbraio 1926, n. 237) e poi in tutti gli altri comuni (R.D.L. 3 settembre 1926, n. 1910 e L. 2 giugno 1927, n. 957).

Nelle mani del podestà si riunirono anche le attribuzioni e i poteri del consiglio e della giunta; una figura forte mutuata dal podestà medievale con la sensibile differenza che se il primo veniva scelto liberamente dai cittadini del municipio il suo surrogato fascista era imposto dallo Stato centrale.

Si mutò in tal modo e radicalmente l’assetto delle amministrazioni locali, con un ritorno al passato e cioè con il capo dell’amministrazione nominato dall’alto, ma con l’aggravante della mancanza della preventiva elezione degli amministratori e della concentrazione di tutti i poteri in un’unica figura.143

Per effetto delle nuove norme, tutte le funzioni in precedenza attribuite al Sindaco, alla Giunta e al Consiglio erano conferite, quindi, ad un unico organo, il Podestà, nominato con regio decreto reale per cinque anni e revocabile dal Ministro dell’Interno.

Il podestà era coadiuvato da una consulta municipale composta da un numero di consultori non inferiore a 6, nominati con decreto prefettizio per 1/3 e per i restanti 2/3 su designazione degli enti economici, dei sindacati e delle associazioni locali. Il sistema podestarile fu progressivamente esteso a tutti i Comuni del Regno, con facoltà in capo al Ministro dell’Interno di nominare uno o due vice-podestà a seconda che la popolazione fosse superiore o meno ai 100.000 abitanti.

Il Testo Unico delle leggi comunali e provinciali, approvato con R.D. 3 marzo 1934 n. 383, diede atto delle rilevanti modifiche introdotte all’organizzazione ed al funzionamento degli enti locali della legislazione fascista e fotografò una situazione

143 Sulla relazione alla legge 237/1926 si spiega che: “l’abbandono del sistema elezionistico è il risultato della

convergente azione di due fattori. Da un lato la constatazione delle condizioni miserevoli in cui versano i piccoli comuni e della incapacità assoluta dei medesimi a darsi delle amministrazioni appena rispondenti allo scopo. Dall’altro lato, il convincimento dottrinale che la rappresentanza debba essere intesa come una designazione di capacità e nulla più, e che quindi il sistema elezionistico, che ne è la conseguenza, sia da applicare soltanto nei casi nei quali esistono le condizioni per poter raggiungere quel risultato. Ma da scartarsi dove tali condizioni non esistono.”

in cui i dipendenti, anche di livello più alto, avevano solo funzioni esecutive, le funzioni deliberative erano riservate in toto ai vertici politici. In particolare ai sensi dell’art. 33 del T.U., fu elevata a 3000 abitanti la soglia minima per l’istituzione di nuovi Comuni.

La legislazione del periodo fascista creò un ordinamento degli enti locali nel quale all’aumento quantitativo dei compiti comunali e provinciali faceva riscontro una costante e continua diminuzione qualitativa del grado di autonomia ad essi accordato.144 145