• Non ci sono risultati.

Il lungo iter di formazione della legge comunale e provinciale

CAPITOLO SECONDO

L’UNIONE DEI COMUNI NEL SISTEMA REGIONALE ITALIANO

2. LA FORMAZIONE DEL MODELLO ITALIANO DI AMMINISTRAZIONE LOCALE

2.2 Il lungo iter di formazione della legge comunale e provinciale

La prima legge comunale e provinciale italiana, All. A della legge 20 marzo 1865, n. 2248, confermò definitivamente l’adozione, da parte del nuovo Stato nazionale, di quel sistema accentratore, di imitazione francese, che già con la restaurazione napoleonica era stato recepito, con poche varianti, da vari Stati italiani preunitari.126

Il sistema italiano di amministrazione locale si è formato infatti nel solco della legislazione piemontese risalente all’ultima fase dell’assolutismo, richiamata in vigore dalla monarchia sabauda dopo il dominio napoleonico, e si è stabilizzato verso la metà dell’800 in conformità al modello che ha contraddistinto la Francia moderna.127

Si presupponeva che la produzione della ricchezza spettasse ai privati. Era ammesso che lo Stato potesse prelevare, con imposte e tasse, una quota dei mezzi finanziari dei privati per far fronte ai propri bisogni, ma vi era consapevolezza che ciò rappresentava un trasferimento di ricchezza da impieghi produttivi ad altri improduttivi. Il prelievo quindi doveva essere effettuato nella misura strettamente indispensabile; la destinazione di ciascuna quota delle somme prelevate doveva essere certa; e bisognava soprattutto controllare che tale destinazione venisse in concreto rispettata e che alcuna parte, anche se minima, di tale somma venisse distratta a fini diversi”. G. Guarino, Efficienza e legittimità dell’azione dello Stato: le funzioni della Ragioneria dello Stato nel quadro di una riforma della pubblica amministrazione, in Id. Scritti di diritto pubblico dell’economia, seconda serie, Milano, 1970, pag. 170.

126 F. Staderini, op. cit., pag. 35.

Nello specifico, il criterio della totale uniformità delle amministrazioni locali, formate e dotate di competenze uguali per tutto il territorio statale, e il principio dell’accentramento, per il quale gli enti erano rigidamente governati dall’apparato statale (Ministro dell’Interno e prefetti), hanno costituito i tratti tipo del sistema francese, diffusosi dopo la Restaurazione in una vasta area geografica.

La provincia dello Stato italiano cominciò ad esistere come ente locale solo negli anni fra il 1841 e il 1843 sotto Carlo Alberto.

Essa venne creata per atto di autorità: ossia affiancando ad uffici statali periferici insediati nel rispettivo capoluogo un corpo di notabili locali scelti su liste compilate dal governo e da questo designati: il Consiglio provinciale, chiamato a esprimere il proprio giudizio sui programmi di lavoro pubblici per ponti e strade e a dare il parere sull’intero bilancio.

La provincia piemontese era peraltro di dimensioni troppo piccole per dar vita a un efficiente ente locale, intermedio tra i Comuni e lo Stato.

Di qui l’avvio, già nel 1842-43, di un altro corpo consultivo, il congresso divisionale, formato allo stesso modo del consiglio provinciale, presso le Intendenze generali, cioè ampie circoscrizioni preesistenti che vennero trasformate da circoscrizioni militari a circoscrizioni amministrative e civili.

Il legislatore consolidò il nuovo istituto, subordinando le Province minori, opportunamente raggruppate, agli Intendenti generali delle rispettive Province, capoluogo di Divisione.

Le vecchie province, pur mantenendo il proprio corpo consultivo, vennero private di una propria amministrazione, venendo stabilito che non si faranno più bilanci per le singole province, ma “sarà formato un solo bilancio per le province dipendenti da ogni Intendenza generale ed un solo conto sarà renduto”.

Con la normazione del 1847-48 alla base dell’intero sistema venne collocato il corpo degli elettori: nell’editto del 1847 questi creano direttamente il solo corpo deliberante comunale e indirettamente gli altri; nella legge del 1848 li creano tutti direttamente.128

La legge 7 ottobre 1848, inserita in un contesto istituzionale caratterizzato dalla presenza dello Statuto, provocò, nel successivo decennio, un gran numero di progetti di modifica di varia provenienza, che furono oggetto di continui dissensi tra parlamento e governo, divisi tra ragioni delle autonomie e istanze unitarie.

La scelta di uniformare ogni ente locale ad un disegno generale e unitario fu una scelta dettata dallo spirito preunitario, ma difficilmente compatibile con la spinta autonomista insita nella realtà comunale italiana.

128 A. Petracchi, Le origini dell’ordinamento comunale e provinciale italiano, Storia della legislazione piemontese sugli

Infatti, l’estensione dell’ordinamento napoleonico o prefettizio a tutto il territorio nazionale non fu operata senza contrasti e riserve, né mancarono progetti di legge che propugnavano un’organizzazione amministrativa articolata su base regionale e che comprendesse nel suo seno, per un ulteriore decentramento e con significative autonomie, province, circondari e mandamenti e comuni.129

Va peraltro sottolineato che non fu soltanto l’influsso predominante del modello francese a spingere l’Italia verso una scelta centralista, ma l’indiscutibile esigenza di evitare che tendenze centrifughe e particolarismi, favoriti da ordinamenti autonomistici, mettessero in pericolo l’unità nazionale appena conquistata.130

129 F. Staderini, op. cit., pag. 34.

130 Sul punto Fontana, Il fascismo e le autonomie locali, Bologna, 1973 pag. 13“E’ noto che nella valutazione di tali

forze e, di conseguenza, nella valutazione del significato progressista e conservatore della scelta centralista allora compiuta, non c’è accordo nella storiografia, reputandosi, da una parte, che sia stata determinante la paura della rivolta contadina e replicandosi, da una altra parte, che non si temette tanto la rivolta contadina in se stessa, quanto l’uso antirisorgimentale e reazionario che ne avrebbero potuto e saputo fare certe classi dirigenti locali filo- borboniche e legittimiste. Senza entrare nel merito di questa discussione, si può notare che la seconda interpretazione, cioè quella della storiografia liberale, giudica la scelta centralista dell’unificazione positiva e progressista per l’assenza di una domanda di partecipazione politico-amministrativa della società civile più vasta del quadro istituzionale in tal modo posto, ma non prolunga indefinitivamente nel tempo siffatto giudizio. Anch’essa infatti, ritiene che verso la fine del secolo, con l’avvento di movimenti e partiti di massa, come i socialisti e i cattolici, il distacco fra l’Italia legale e l’Italia reale, per usare la celebre espressione di Stefano Jacini, sia ormai netto. A quel punto la rivendicazione dell’autonomia locale è sicuramente una rivendicazione progressista e democratica, se fosse accolta, attribuirebbe il potere locale, cioè trasferirebbe una parte del potere, dal livello centrale al livello locale, a favore di forze sociali e politiche più vaste di quelle che fino allora erano state alla guida dello Stato”.