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L’iter attuativo delle Regioni La trasformazione dei poteri local

CAPITOLO SECONDO

L’UNIONE DEI COMUNI NEL SISTEMA REGIONALE ITALIANO

4. IL QUADRO COSTITUZIONALE

4.1 L’iter attuativo delle Regioni La trasformazione dei poteri local

Il rinnovamento dell’amministrazione locale divenne urgente dopo l’avvento delle Regioni, quanto più si acquisiva consapevolezza che l’adeguamento della legislazione alla realtà di un’amministrazione locale chiamata ad agire non tanto

153 F. Staderini-P. Caretti-Pietro Milazzo, Diritto degli Enti Locali, Cedam, Padova, 2014, pag. 46. 154 F. Migliarese Caputi, op. cit., pag. 67.

nell’esecuzione di leggi, quanto per il soddisfacimento di bisogni e quindi generalmente mediante l’apprestamento di servizi, era una tappa essenziale per la stessa riuscita della riforma regionale.

Ed è in questo contesto che a partire dalla metà degli anni ’70 la riforma dell’amministrazione locale è stata costantemente all’ordine del giorno in Italia, impegnando forze politiche, Regioni, associazioni nazionali di Comuni e Province, studiosi ed esperti.

Nonostante le previsioni della carta costituzionale, il decentramento regionale così come previsto dall’originario titolo V ha avuto un avvio tardivo e deficitario per quanto concerne la disciplina delle competenze spettanti agli enti locali.

Alle competenze legislative in ambito regionale non si era affiancato un fondamentale decentramento amministrativo che determinasse un regionalismo di tipo reale, sociale e dinamico.

Fino alla seconda metà degli anni ’60 infatti, l’unico intervento legislativo dedicato alle istituende Regioni fu la legge Scelba 10 febbraio 1953 n. 62, atta a disciplinare, per il futuro, la costituzione e il funzionamento degli organi regionali; una legge a tutti gli effetti anti regionale che disponendo sul funzionamento degli organi svuotava le stesse regioni del significato innovativo del quale si permeavano gli artt. 114 e seguenti del testo costituzionale.

Soltanto nel 1968, quando la classe politica intese come fondamentale l’attuazione delle Regioni, fu adottato il primo strumento legislativo indispensabile allo scopo: la legge 17 febbraio 1968, n. 108 contenente “norme per l’elezione dei consigli regionali delle Regioni a statuto normale” alla quale seguì, nell’imminenza della consultazione elettorale, la legge 16 maggio 1970, n. 281, recante “provvedimenti finanziari per l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario”, il cui art. 17 stabilendo i relativi principi e criteri direttivi, delegava il Governo ad emanare decreti aventi valore di legge ordinaria per regolare il passaggio alle Regioni, ai sensi della disposizione VIII della Costituzione, delle attribuzioni degli organi centrali e periferici dello Stato nelle materie indicate dall’art. 117 Cost. e del relativo personale dipendente dallo Stato.156

Nella formazione dei decreti delegati la regionalizzazione delle funzioni rientranti nelle materie elencate nell’art. 117 incontrò una forte resistenza delle burocrazie centrali, che attuarono il trasferimento alle Regioni nel più restrittivo dei modi possibili: sia, anzitutto, procedendo all’identificazione delle funzioni da trasferire partendo non già dalla definizione delle materie di intervento regionale ma dall’assetto organizzativo degli apparati che fino a quel momento avevano gestito gli interventi in parola; sia attraverso applicazioni dei limiti, variamente combinati, fissati dalla legislazione concorrente: dai principi fondamentali stabiliti dalla legge

dello Stato157, all’interesse nazionale, utilizzato per trattenere allo Stato non poche funzioni comprese nelle materie elencate.158

I decreti delegati sono stati quindi oggetto di numerose impugnazioni delle Regioni, che rivendicavano trasferimenti più ampi.

Le norme delegate furono emanate nel gennaio 1972 con l’adozione di undici decreti del Presidente della Repubblica, dopo che le regioni si erano dotate dello Statuto. Al coinvolgimento della amministrazione locale, principalmente dei comuni, si è provveduto solo nella c.d. seconda regionalizzazione avviata con la legge delega 22 giugno 1975, n. 382 e decreti delegati di attuazione, fra cui, in particolare, il decreto delegato 24 luglio 1977, n. 616.

La legge n. 382/1975, emanata su forte spinta delle Regioni, ha infatti delegato il Governo, oltre che a completare il primo trasferimento delle funzioni alle Regioni attraverso più ampie interpretazioni delle materie ad esse costituzionalmente spettanti, anche ad attribuire nuove funzioni alle province, ai comuni e alle comunità montane ai sensi dell’art. 118, comma 1, ultimo inciso della costituzione.

157“Nelle previsioni delle disposizioni transitorie VIII e IX della Costituzione, il trasferimento delle funzioni

amministrative avrebbe dovuto essere regolato da apposite leggi quadro destinate a predisporre, per ciascuna materia, la necessaria piattaforma normativa unitaria, venendo poi messo in atto attraverso deleghe al Governo a trasferire alle regioni le funzioni amministrative. La mancata emanazione delle leggi quadro ha portato a subordinare la legislazione regionale all’avvenuto trasferimento delle funzioni amministrative, traendo i principi fondamentali delle materie in via di interpretazione dalla legislazione vigente.”

158 Il cosiddetto ritaglio delle competenze nelle materie regionali si estrinsecò in “trasferimenti a macchia di leopardo,

caratterizzati da ritagli di materie e non dalla individuazione di complessi organici di funzioni”, G. Masciocchi, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 1995, pag. 170.

Secondo la legge di delega in esame il Governo era chiamato ad attuare un trasferimento “finalizzato ad assicurare una disciplina ed una gestione sistematica e programmata delle attribuzioni costituzionalmente spettanti alle Regioni per il territorio ed il corpo sociale” attraverso una identificazione delle materie “per settori organici, non in base alle competenze dei Ministeri, degli organi periferici dello Stato e delle altre istituzioni pubbliche, ma in base a criteri oggettivi, desumibili dal pieno significato che esse hanno e dalla più stretta connessione esistente tra funzioni affini, strumentali e complementari”.

Il d.p.r. n. 616 distribuiva le funzioni nei seguenti settori organici: ordinamento e organizzazione amministrativa; servizi sociali, sviluppo economico; assetto ed utilizzazione del territorio.

L’attribuzione diretta ai Comuni di funzioni di interesse esclusivamente locale ha trovato applicazione particolarmente per l’assistenza sociale e sanitaria, comprese entrambe nel settore organico intitolato “servizi sociali”, il quale comprendeva anche le funzioni inerenti alle materie: polizia locale urbana e rurale, beneficenza pubblica, assistenza sanitaria ed ospedaliera, istruzione artigiana e professionale, assistenza scolastica, musei e biblioteche di enti locali.159

159 Il d.lgs n. 112/1998 ha poi ridenominato con la locuzione servizi sociali le sole funzioni di assistenza sociale,

collocandole sotto il titolo “Servizi alla persona e alla comunità” (a sua volta comprensivo di tutela della salute, servizi sociali, istruzione scolastica, formazione professionale, beni e attività culturali, spettacolo, sport) nota tratta da F. Migliarese Caputi, op. cit., pag. 72.

Per entrambi i complessi organici di funzioni il decreto affidava ai comuni, singoli o associati, compiti di gestioni dei servizi per aree predeterminate dalle Regioni.

Alle Regioni, invece, il decreto intestava poteri di programmazione e di correlata individuazione, sentiti i Comuni, degli ambiti territoriali adeguati alla gestione locale dei servizi, nonché poteri di promozione ed eventualmente anche di imposizione di forme di cooperazione tra i Comuni negli ambiti di azione in cui erano compresi più Comuni.

Come forma di cooperazione idonea a gestire quei servizi il decreto delegato indicava l’associazione di Comuni, sembrando con ciò alludere a una figura istituzionale di tipo nuovo rispetto ai tradizionali consorzi, conformati dall’art. 156 e ss. del T.U. n. 383/1934 come strumenti per l’attuazione unitaria di opere o di servizi di interesse comune agli anti consorziati, con compiti strettamente esecutivi e sempre minori di quelli comunali.

Successivamente con la legge n. 833/1978 istitutiva del Servizio sanitario Nazionale l’associazione di comuni ha assunto connotati più definiti in relazione alla gestione del complesso dei servizi sanitari, da porre in essere obbligatoriamente attraverso le USL, organismi privi di personalità giuridica.

Nel caso delle associazioni di cui alla legge 833/1978 l’assemblea era formata dai rappresentanti dei Comuni della zona, nel numero fissato dalle leggi regionali ed eletti con criteri proporzionali.

Al di là dell’attribuzione delle funzioni ai Comuni, la disciplina del funzionamento delle USL era comunque tale da rendere alquanto evanescenti i legami coi titolari delle funzioni e da assoggettare le USL fondamentalmente a poteri di organizzazione e programmazione regionale.

Con l’ampliarsi delle funzioni dei comuni negli anni della seconda regionalizzazione si intensifica l’esigenza di una ristrutturazione dell’organizzazione di comuni e province che consenta differenziazioni aderenti alle diverse situazioni, spesso notevolissime per numero di abitanti, condizioni socio economiche, tradizioni, esistenti nelle realtà locali, specialmente fra i comuni, dando agli stessi gli strumenti per plasmare il proprio assetto organizzativo adattandolo alle diverse esigenze160,

mentre d’altra parte diveniva sempre più ineludibile il nodo dei rapporti enti locali- Regioni.

In linea con tali esigenze è stata emanata la legge 8 giugno 1990, n. 142, recante i principi del “Nuovo ordinamento delle autonomie locali” secondo le previsioni dell’art. 128 della Costituzione.

La legge si autoqualificava infatti come legge generale di soli principi ai sensi dell’art. 128 Cost. oggetto della legge era l’organizzazione dell’apparato comunale e provinciale e, solo di riflesso, le funzioni ad esso attribuite.

La legge si apriva con l’affermazione della autonomia di comuni e province, qualificando i primi come enti che rappresentano le proprie comunità, di cui curano gli interessi e promuovono lo sviluppo, e le seconde come enti intermedi tra Comune e Regione, chiamati a curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità provinciale.161

Nella legge n. 142/1990, che pure opera un rilancio delle province, ponendo la provincia come ente intermedio tra regioni e comuni, non si parlava ancora di enti che rappresentano una propria comunità, come invece se ne parla per i comuni.

La provincia riacquista in realtà vigore a seguito e nell’ambito del più vasto movimento che accompagna l’elezione diretta dei sindaci.

È in forza della nuova legittimazione popolare del presidente che le province iniziano in questi anni a chiedere il riconoscimento di maggiori competenze e una piena collocazione nel sistema delle autonomie locali.

La piena valorizzazione della provincia può dirsi raggiunta solo con l’art. 2 della legge 265/1999 che, per la prima volta delinea un sistema unitario dell’autonomia locale in cui comuni e province sono posti sullo stesso piano ed in cui la provincia sembra essere quasi una sorta di naturale prosecuzione del comune.162

161 F. Migliarese Caputi, op. cit., pag. 73.

La legge 142/1990, conferendo potestà statutaria e autonomia finanziaria agli enti locali, ha posto le basi per il riconoscimento dell’autonomia locale tout court163,

risultato del decennio di riforme che sfociò con la riforma del titolo V del 2001.

5. L’ASSOCIAZIONISMO COME STRUMENTO DI TUTELA