• Non ci sono risultati.

La globalizzazione come fenomeno culturale ed educativo dopo l’informatizzazione dei rapporti sociali.

La “rivoluzione informatica” ha ampiamente investito l’ambito dei rapporti economici e finanziari, però i suoi riflessi nelle diverse culture hanno promosso anche la formazione di una “cultura globale”.96 La facilità di diffusione dell’informazione attraverso il globo terrestre ha fatto sì che non soltanto i mercati finanziari del mondo possano stare in costante e intenso contatto tra di loro, come già succedeva dalla prima metà del ventesimo secolo, ma ha reso possibile anche l’approccio tra popoli e culture la cui comunicazione sarebbe difficile, forse impossibile, fisicamente.

96

È proprio nella formazione di un processo di globalizzazione culturale – simile all’idea di global village97 proposta da Marshall McLuhan – che noi vorremo delimitare il punto di riferimento a partire da dove è avvenuto il consolidamento della globalizzazione come fenomeno complessivo e non ristretto ad una sola dimensione dell’esistenza umana. Non si desidera qui discutere l’importanza della globalizzazione economica al proprio concetto lato

sensu di globalizzazione, però riteniamo che l’ambito socio-culturale è uno degli elementi

preponderanti per rendere possibile perché si possa parlare di globalizzazione nei più diversi settori della esistenza umana.

Senza l’integrazione tra le diverse culture occidentali e la riduzione – almeno nell’ambito culturale – della quasi insormontabile barriera storicamente esistente tra l’Occidente e l’Oriente, non sarebbe possibile approfondire le relazioni economiche e lo sviluppo dei mercati con tutta questa intensità che l’inizio del XXI secolo ci presenta. Pur’essendo la globalizzazione economica la più discussa e forse la più problematica, tanto dal punto di vista teorico che da quello pratico, e anche per quello che concerne il capitale – che è quello che inevitabilmente attribuisce espressione materiale all’attività produttiva –, non si deve dimenticare che il corso della storia umana ci mostra – specialmente nell’età del mercantilismo e delle grandi navigazioni – che non è possibile negoziare con chi non conosciamo; ossia, è imperioso che esista, o che si venga a creare, un livello minimo di approccio culturale con l’altra parte che ci consenta di stabilire scambi commerciali, poichè, caso contrario, soltanto l’uso della forza renderà possibile prendere quello che si desidera.

In questo senso, riteniamo che il punto a cui ci riferiamo del consolidamento della globalizzazione nel XXI secolo come fenomeno sociale irreversibile è l’avvenimento della ‘rivoluzione informatica’.

Nel parlare del lento processo storico che la globalizzazione ha trascorso durante i secoli, Amartya Sen sostiene che

la globalizzazzione non è un fatto nuovo e non può essere ridotta all’occidentalizzazione. Per migliaia di anni, la globalizzazione ha contribuito al progresso del mondo, attraverso i viaggi, il commercio, le migrazioni, la diffusione delle culture, la disseminazione del sapere (compreso quello scientifico e tecnologico) e della conoscenza reciproca. (....) Queste interazioni sono un’eredità mondiale, e la tendenza contemporanea è coerente con questo sviluppo storico.98

97

Marshall McLuhan, Understanding media, N. Y., Mentor Press, 1964. Si può rintracciare le origini della espressione global village anche in James Joyce, Finnegans Wake, N.Y., Viking Press, 1939, e P. Wyndham Lewis, America and Cosmic Man, N.Y., Doubleday & Company, 1949.

98

Roland Robertson, con una posizione simile a quella di A. Sen, considera la globalizzazione come non soltanto un mero processo di occidentalizzazione del mondo o una sorta di “imperialismo postmoderno”, ma sì lo sviluppo di una comprensione temporale e spaziale del mondo come unità complessa e che possiede agenti interni interdipendenti tra di loro.99 R. Robertson, cercando di dimostrare come la globalizzazione ha percorso la sua formazione storica verso il momento attuale di grande densità e complessità globale delle relazioni sociali, ha sviluppato ancor più la sua interpretazione sociologica quando divide questo percorso storico in cinque momenti successivi: fase I – la fase embrionale, dal XV al XVIII secolo, si caratterizza per l’affermazione dei concetti di individuo, umanità e Stato- nazione; fase II – la fase incipiente, dalla metà del XVIII secolo fino al decennio del 1870, quando il concetto di società internazionale, che fino ad allora era predominantemente un concetto europeo, cominciò ad adattarsi alla necessità di ammissione di società non-europee a tale concetto; fase III – la fase del decollaggio, dal 1870 al 1920, periodo in cui la creazione della Lega delle Nazioni rappresenta con chiarezza questo momento: fu soltanto dopo che questo modello di società di nazioni è apparso che il concetto di società internazionale lasciò la sua condizione di concetto esclusivamente europeo e iniziò la ricerca di un senso più complessivo e universale; fase IV – la fase della lotta per l’egemonia, dal 1920 fino alla metà del 1960, fu caratterizzata dalla Seconda Guerra Mondiale e dai conflitti tra paesi che cercavano di raggiungere la loro indipendenza politica – soprattutto i paesi africani – contro i loro antichi conquistatori; fase V – la fase dell’insicurezza, l’ultima citata da R. Robertson, si iniziò negli anni ’60 e culminò negli anni ’90, fu caratterizzata dalla fine della Guerra Fredda, dal multiculturalismo, dall’affermazione di una società civile mondiale, dai dibattiti sull’idea di cittadinanza mondiale e dal consolidamento del sistema globale di media, soprattutto dopo la rivoluzione informatica.100

Per quanto riguarda il sorgimento della globalizzazione, ci avviciniamo alle interpretazioni socio-storiche presentate da A. Sen e R. Robertson101 nel senso di dimostrare che l’approccio interculturale non è un fatto nuovo, una volta che gradualmente le migrazioni e le grandi spedizioni marittime hanno superato distanze e reso possibile che culture fino ad allora sconosciute tra loro potessero stabilire rapporti almeno di contatto cognitivo. Aggiungiamo soltanto che nei processi di interazione culturale descritti da ambedue gli autori,

99

Roland Robertson, Globalization. Social Theory and Global Culture, cit., pp. 08-09.

100

Ibidem, pp. 58-59.

101

David Held, Mike Featherstone, tra altri, soprattutto sociologi, seguono questa tendenza qui illustrata con A. Sen e R. Robertson.

le distanze fisiche si costituivano in ostacoli che, molte volte, rappresentavano le maggiori ragioni per la difficoltà d’interazione – oltre al fatto che tali distanze rappresentarono la principale causa dell’ignoranza che una cultura possedeva sulla altra. Il differenziale che il XX secolo ci ha presentato è la formazione di strutture comunicazionali formate in un ambiente virtuale e capaci di collegare persone di tutto il pianeta nello stesso tempo. Il fatto che le frontiere territoriali degli Stati-nazione e le distanze tra i popoli sono state superate dalla globalizzazione, rappresenta l’elemento decisivo per l’affermazione di questo processo dinanzi a qualsiasi altro già apparso, una volta che il suo effetto più generale è “quello di modificare la rappresentazione sociale della ‘distanza’, di attenuare il rilievo dello spazio territoriale e di ridisegnare i confini del mondo senza tuttavia abbaterli.”102

La relativizzazione morale successa nell’Occidente e la posizione della società dinanzi all’individuo sono i fattori preponderanti che collaborano decisamente per rendere il concetto di ‘società globale’ in un fatto reale, invece di una mera idea. Dopo che, a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, la difesa del multiculturalismo è divenuta quasi una conseguenza logico-razionale di ogni teoria filosofica che riconosca la verifica empirica di una globalizzazione culturale nell’attualità, l’assolutizzazione assiologica che la “società” aveva l’abitudine di fare in quanto riguarda una cultura, in speciale quanto ai princìpi morali di essa, si è resa incompatibile con l’attuale contesto di intensi rapporti interculturali. Z. Bauman arriva al punto di comparare l’atteggiamento della società “liquida-moderna” con l’atteggiamento che era attribuito all’idea di Dio francescano, del periodo tardomedievale, che Guglielmo di Occam e i nominalisti hanno creato: una entità di natura indeterminata, la quale lasciò gli uomini liberi da qualsiasi costrizione per decidire sulla loro natura e destino, in accordo con quello che loro ritengano migliore per loro vite. Così come sarebbe questo Dio francescano, Z. Bauman ritiene che oggi la società si presenta “indifferente al bene e al male”.103

Soltanto con il consolidamento, nell’inizio del secondo Dopoguerra, della televisione nel seno delle società occidentali come mezzo di diffusione e di informazione è che fu possibile accelerare il processo di conoscenza e anche di scoperta interculturale. Malgrado, inizialmente, la televisione abbia presentato soltanto un modello di cultura, cioè, il modello capitalista della società di consumo, con la diffusione della tecnologia attraverso il mondo e l’inizio della formazione di una rete globale di informazione, furono sormontate le limitazioni

102

Danilo Zolo, Globalizzazione, cit., p. 05.

103

Zygmunt Bauman, Community, Cambridge, Polity Press, 2000, trad. it. Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 130.

di interattività caratteristiche della televisione. Le condizioni tecniche create dai diversi nuovi mezzi di comunicazione hanno permesso che questa diversità di mezzi di informazione trasmettesse l’idea di società globale ai loro destinatari, cioè, a tutti popoli del mondo.

Le limitazioni presentate dalla prospettiva unilaterale che è tipica della televisione, ossia, partendo soltanto dall’emittente dell’informazione al destinatario, senza che fosse conferita a questi l’opportunità di interagire d’immediato col mezzo, furono superate dopo l’affermazione globale dell’Internet, nel corso degli anni 90. La rete mondiale di computer rese possibile le relazioni dialogiche e interattive, diversamente dal modello comunicativo presentato dalla televisione.

Anthony Giddens, nel definire la globalizzazione come un processo di intensificazione, a livello globale, delle relazioni sociali tra località situate a migliaie di chilometri di distanza, afferma che questo è “a dialectical process because such local happenings may move in an obverse direction from very distanciated relations that shape them.”104 Gli approcci tra culture geograficamente lontante sono diventati possibili a partire dal momento in cui si sono estinte le barriere fisiche dell’interazione multiculturale e che il ritardo nella comunicazione tra loro si è ridotto a pochi secondi. L’interattività in real time a disposizione di tutti quegli agenti che desiderassero – e potessero – collegarsi fisicamente alla rete mondiale di computer rappresentò il momento definitivo nell’avvento della globalizzazione: la possibilità di intercollegare tutto il mondo in un ambiente virtuale dove le distanze geografiche sono irrilevanti.

Nonostante la globalizzazione sia un fenomeno che a priori è sostanzialmente vuoto, poichè si costituisce soltanto di istanze di mediazione dei rapporti tra popoli distinti, questi che saranno dei veri responsabili per attribuire contenuto al fenomeno, l’approccio interculturale promosso dalla globalizzazione ha avuto come primo risultato l’affermazione del modo di vita occidentale come supposto punto di riferimento universale. Risultato di tutto ciò fu la crescita delle intoleranze da parte di alcuni movimenti sociali e politici estremisti, di diverse parti del mondo, che hanno fatto che la parola “globalizzazione” fosse stigmatizzata come um mero artificio neoliberale che l’Occidente, più esattamente gli Stati Uniti, avrebbero utilizzato per espandere il proprio dominio sul mondo.

Malgrado tali questioni politiche siano già state analizzate precedentemente (1.3,

supra), è opportuno, in questo momento, attirare l’attenzione anche sul fatto che è tipico

dell’essere umano il compito di dividire, distinguere, separare, classificare, tutto che è portato alla sua cognizione. Lo stesso succede con le culture, poiché:

104

Culture is the activity of making distinctions: of classifying, segregating, drawing boundaries – and so dividing people into categories internally united by similarity and externally separated by difference; and of differentiating the ranges of conduct assigned to the humans allocated to different categories.105

Sono le nozioni di distinzione e separazione che permettono di mantenere vive le culture, poichè senza le categorizzazioni e le classificazioni che ogni cultura fa verso sè stessa, non sarebbe possibile, agli individui che la compongono, distinguere quali alternative scegliere quando si deve agire, quali valori optare e, infine, come fare per decidere tra il giusto e lo sbagliato, tra il bene e il male. L’assenza di distinzioni comporta l’assenza di distinzioni deontologiche tra il giusto e lo sbagliato. Sono le culture che devono fare distinzioni, una volta che è al loro interno che i concetti morali verranno formati. Però, alla società globale non spetta una tale prerogativa, poichè lei deve mantenersi indifferente al bene e al male, come il Dio tardomedievale citato da Z. Bauman, perché le culture che interagiscono al suo interno non perdano la loro originalità e la loro capacità di rappresentare la loro particolarità.

L’unificazione culturale, oltre a essere indesiderabile, è contraria al processo naturale di distinzione culturale che si può rintracciare in tutti i processi di formazione delle civiltà.106 La propria nozione di cultura implica nell’affermare la necessità di fare distinzioni come misura perché gli individui possano autoriconoscersi come membri di una comunità oppure come individualità. Nei prossimi capitoli, svilupperemo l’idea che soltanto in un ambiente con Stati nazionali conservati, ma adattati ai richiami sociali apparsi con la globalizzazione, è che le culture potranno continuare a mantenere le loro caratteristiche e, soprattutto, le loro capacità di autoriprodursi.

Tra le questioni che sono risultato della globalizzazione culturale, l’approccio formativo-educativo sembra essere il punto in cui i risultati positivi sono incontestabilmente maggiori che quelli negativi.

105

Zygmunt Bauman, The Individualized Society, cit., p. 32.

106

La diversità come fenomeno naturale trova in Claude Lévi-Strauss, Race et Histoire; Race et Culture, Paris, Albin Michel et UNESCO, 2001, p. 43, una precisa definizione: “Et pourtant, il semble que la diversité des cultures soit rarement apparue aux hommes pour ce qu’elle est: un phénomène naturel, résultant des rapports directs ou indirects entre les sociétés; ils y ont plutôt vu une sorte de monstruosité ou de scandale; dans ces matières, le progrès de la connaissance n’a pas tellement consisté à dissiper cette illusion au profit d’une vue plus exacte qu’à l’accepter ou à trouver le moyen de s’y résigner.” Nello stesso senso, si veda anche Ulf Hannerz,

Transnational Connections. Culture, People, Places, London, Routledge, 1996, trad. it. La diversità culturale,

Dal periodo di formazione delle Università, nel XI secolo – sotto il controllo della Chiesa cattolica –, fino all’inizio del XX secolo, la produzione della conoscenza scientifica di alto livello era ristretta agli europei, agli statunitensi e canadesi. Gli individui appartenenti al “resto del mondo”, caso volessero studiare in alcune delle istituzioni europee di grande prestigio, avrebero dovuto affrontare gli altissimi costi dei viaggi transcontinentali e l’assenza di strutture adeguate da parte delle università per ricevere tali studenti – senza considerare il proprio fastidio di ricevere stranieri che per molto tempo caratterizò il sistema universitario europeo e statunitense.

Qui si può trovare il punto in cui, a partire dalla seconda metà del secolo XX, un insieme di fattori positivi ha reso possibile la semplificazione del processo di accettazione di stranieri nelle università tradizionali della Europa e degli Stati Uniti, il che ha stimolato, di conseguenza, l’interscambio scientifico. Nuovi e ogni volta meno costosi mezzi di locomozione, la creazione di accordi internazionali, bilaterali e multilaterali, trattando specificamente della collaborazione internazionale dell’interscambio di studenti, insieme alle politiche pubbliche, da parte dei paesi in via di sviluppo, di stimolo e sussidio agli studi di quei cittadini che desiderassero – e presentassero delle condizioni accademiche – per perfezionare loro formazione in università di grande prestigio, tanto nel Vecchio Continente quanto negli Stati Uniti, furono le principali caratteristiche che hanno fatto arrivare la globalizzazione anche all’ambito dell’educazione.

Inoltre, all’inizio di questo processo di integrazione formativa tra paesi in via di sviluppo e paesi che ospitano le tradizionali università, la democratizzazione della conoscenza stava avvenendo soltanto per creare una cooperazione internazionale tra paesi che, per quanto riguarda l’integrazione formativa, erano totalmente distanti. Però, dal punto di vista dei paesi in via di sviluppo, l’inizio di tale integrazione ha avuto come caratteristica la mancanza di divulgazione dell’informazione in tutte le fasce della popolazione, l’offerta troppo bassa di possibilità e di posti di studio, e i processi di “selezione” guidati dalla necessità di permettere che soltanto l’elite della classe dominante arrivasse alle università straniere. Fu lo sviluppo dei mezzi di informazione e la propagazione dell’Internet anche tra le fasce più povere delle popolazioni che ha consentito, insieme alla crescita delle opportunità di studio e l’avvento di nuove entità per finanziare gli studi, alla “globalizzazione formativa”, la possibilità di portare gli effetti positivi di questo fenomeno a livelli di alta complessità e diffusione sociale all’interno delle società dei paesi in via di sviluppo.

Il XX secolo è caratterizzato per l’alto – e crescente – grado di interazione e interscambio tecnologico e formativo tra popoli e culture di tutti i confini del mondo. Tale

situazione permette agli individui di seguire i loro studi e, anche vivere e lavorare, in culture che si avvicinano più alle necessità e alle peculiarità che ogni individuo richiede. Il fatto che le risorse di informazioni per conoscere popoli e culture diverse siano ogni volta più numerose, diversificate e accessíbili, ha fatto in modo che il cittadino dell’età dell’informatica non abbia più bisogno di restringere le prospettive della sua vita soltanto a quello che il suo popolo di origine, la sua comunità, la sua cultura e il suo paese di origine gli presentano, dato che gli è appena aperta una crescente varietà di possibilità di posti per studiare, lavorare, vivere. Dinanzi a questo nuovo contesto, Z. Bauman afferma che “globalization may be defined in many ways, but that of the ‘revenge of nomads’ is as good as if not better than any other.”107

Tuttavia, in questo nuovo contesto di globalizzazione culturale gli effetti della ‘rivoluzione informatica’ presentano una realtà che è peculiare per quei popoli che non hanno avuto l’opportunità di entrare nell’era digitale: il problema dell’apartheid digitale. L’altra faccia della medaglia trova nella precarietà di condizioni primarie di infrastruttura, la caratteristica più presente e, allo stesso tempo, più crudele. J. Stiglitz sottolinea che “[W]hat separates developed countries from less developed countries is not just a gap in resources but a gap in knowledge, which is why investiments in education and technology – largely from government – are so important.”108

Mentre agli Stati Uniti, Europa e alcuni paesi asiatici, come il Giappone, l’India e la Cina, il prezzo dei prodotti di informatica di ultima generazione si trova nella fascia media di prezzi di qualsiasi elettrodomestico, ossia, senza produrre grandi ostacoli alla sua acquisizione da parte del consumatore, nei paesi in via di sviluppo la tecnologia offerta dal mercato è, quasi sempre, di seconda o terza generazione, ma i prezzi sono, quando paragonati all’impatto finanziario che lo stesso prodotto rappresenta per le finanze di un nordamericano o di un europeo, eccessivamente elevati. In questo senso, il mero fatto di possedere un computer si trasforma già in un investimento di grande impatto sulle finanze familiari. Oltre a ciò, l’accesso a Internet costituisce, spesso, un ostacolo alla possibilità dell’individuo di collegarsi alla rete mondiale di computer.

Quando osserviamo la situazione della Africa e del Medio Oriente i problemi sono ancor più gravi. Secondo dati dell’ottobre 2008 dell’istituto di statistica Internet World Stats, tra 1,464 miliardi di persone che hanno accesso alla rete, soltanto 51.065 migliaia si trovano in Africa (la quale possiede una popolazione di 955.206 migliaie di abitanti) e 41.939 migliaia

107

Zygmunt Bauman, op. cit., p.35.

108

in Medio Oriente (che possiede una popolazione di 197.090 migliaie di abitanti), e che, in percentuale, tutte e due le regioni rappresentano, rispettivamente, il 3,5% e il 2,9 % del totale delle persone che hanno accesso in tutto il mondo.

Oltre alle ragioni sopraccitate, esiste, in particolare in Medio Oriente, una forte censura da parte dei leader politici di paesi, come Libia, Iran, Siria, Arabia Saudita, tra gli altri, che considerano l’Internet come una fonte di possibili minacce alle loro politiche interne e anche alla struttura religiosa dei loro paesi. In alcuni paesi del continente africano il problema è somigliante, ma si aggrava a causa delle grandi distanze fisiche e soprattutto dalla precarietà dell’infrastruttura – è ridondante menzionare che la mancanza di energia elettrica e di linee telefoniche sono ostacoli materiali all’accesso a Internet, però nel caso dell’Africa ciò è una realtà. Malgrado il fatto che tutte le capitali dei paesi africani abbiano accesso a