I PARTE: LE CITTÀ PERSE
3.4 Il grande diluvio
Nonostante il secondo romanzo di Goran Mimica Svinado160 (2005) non abbia attirato
una grande attenzione della critica in Serbia e quindi le sue possibilit{ di attraversare il confine linguistico e di essere pubblicato all’estero siano modeste, lo ritengo interessante per questa analisi perché lo scrittore è strettamente legato all’Universit{ Ca’ Foscari, in veste di esperto linguistico per la lingua inglese presso il Centro linguistico dell’Ateneo (CLA). Inoltre, la sua storia sul ritorno a casa, che si scopre essere impossibile, mette quest’opera in relazione con il romanzo Kiša i hartija di Vladimir Tasić, pubblicato solo un anno prima.
Nel suo romanzo, Mimica, al contrario di Tasić, non chiama con il suo vero nome la citt{ natale a cui torna il protagonista/alter ego:
Il rapporto dei prosatori contemporanei di Novi Sad verso la propria citt{ è permanentemente strano, e all’interno dei loro libri cosa non faranno, ovvero non inventeranno, per nasconderla o camuffarla! O se ne vergognano oppure non sanno nemmeno loro cosa fare con una citt{ così ‘ordinaria’, come Novi Sad sembra prima di essere travestita dalla narrazione (by the way, Aleksandar Tišma, Milica Micić- Dimovska oppure Végel L|szlo, non avevano questi problemi, quindi, alla fine sar{ una questione puramente ‘poetica’)?lxxii (Pančić 2005).
In ogni caso, grazie al suo titolo Svinado (un toponimo inventato che contiene le lettere del nome di Novi Sad mescolate) e grazie ad alcuni particolari, il fiume Avdun (anche qui lo scrittore usa la stessa “strategia” per nascondere ma anche evocare il nome serbo di Danubio – Dunav) e la fortezza Dinvara (l’anagramma di Varadin, cioè Petrovaradin), chiunque “ci abita o almeno conosce relativamente bene la citt{ ‘reale’, la riconoscer{ facilmente”lxxiii (ibid.).
Tuttavia, la consapevolezza profonda dei cambiamenti avvenuti nella citt{ mentre il protagonista era assente, è una caratteristica che avvicina i due romanzi:
Vent’anni sono passati ma Svinado ha continuato a cambiare, crescere, allargarsi, a vivere la sua doppia, parallela vita: questa, nella Svinado odierna che contiene una trasformazione ancora sconosciuta e l’altra, nella Svinado dei miei ricordi, l’unica delle due che è effettivamente toccata, annusata, vista, sperimentata e ascoltata. Come
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un’incisione, l’altra è intagliata in me e lì ha continuato la sua trasformazione. I paragoni inevitabili (e inconsapevoli) che indubbiamente farò, non sono niente altro, se non l’evocazione delle similitudini dalla scorta di memoria.lxxiv (Mimica 2005: 18).
Inoltre, il legame tra l’esistenza della citt{ e il suo suono, o ritmo, nel caso di Kiša i hartija, è un altro tratto in comune tra questi due romanzi. “La citt{, che nel buio è ridotta alle sagome e la sua sporcizia alla puzza di origine sconosciuta, esiste solo come suono”lxxv, scrive Mimica (2005: 101), mentre i protagonisti di Tasić creano la musica, registrando i suoni e i ritmi della citt{, che servir{ per riappropriarsi della stessa nel loro happening che chiude il romanzo.
Mentre l’immagine finale nel romanzo di Tasić sfiora i limiti di utopia temporanea caratterizzata dall’unione transitoria tra i cittadini e la citt{ riempita con i luoghi eterotopici, che sono “assolutamente altro da tutti i luoghi che li riflettono e di cui parlano” (Foucault 2001-2002), il romanzo di Mimica si chiude con un’immagine distopica della citt{ che sta sparendo nel grande diluvio:
Svinado e la geometria caotica delle sue strade, da secoli lasciata a sé stessa, sono irriconoscibili. Al posto in cui, solo ieri, si trovava la parte più antica della citt{, piena di laboratori di artigianato e di porte profonde, adesso si vedeva l’arcipelago di tetti rosso scuro e in esso, senza ordine e senso, le cime e cupole delle chiese. La più alta torre della cattedrale, e la croce pesante in cima, ancora segnavano il centro cittadino, mentre il braccio del glorioso eroe di bronzo nella piazza principale, sollevato verso il cielo e insieme alla testa, l’unico sopra la superficie dell’acqua, adesso ha acquisito un significato completamente diverso: minacciava. O malediceva.lxxvi (Mimica 2005: 103)
Malgrado il diluvio, il protagonista riesce a trovare la casa dove è cresciuto, anche se al suo interno sono state cancellate tutte le tracce che indicavano che una volta anche lui ci ha vissuto. Comunque, aspettando che smetta di piovere e vagabondando per la casa, in soffitta riesce a trovare decine di scatoloni pieni di immagini e di documenti, grazie ai quali identifica la malattia di suo padre, motivo per cui, come Tanja la protagonista di Tasić, è tornato in citt{: elephantias memoriae. Questa malattia immaginaria il cui il nome è probabilmente stato ispirato dall’espressione serba ‘avere una memoria da elefante’ cioè ricordarsi tutto, aiuta il protagonista a capire suo padre, ma al contrario dei protagonisti di Kiša i hartija, che si potrebbero chiamare “tossicodipendenti da memoria”, lui lascia gli scatoloni in soffitta, perché “appartengono lì”lxxvii (ibid.: 107) e anche perché “la comprensione non porterebbe il sollievo, nemmeno le redini smetterebbero di conficcarsi nelle spalle”lxxviii (ibid.: 108).
108 Mentre la citt{ continua a sparire sotto l’acqua, al protagonista viene il dubbio che la citt{ possa essere una neoplasia crescente, che rappresenta la forma della sua paura, anch’essa in continua crescita. Questa visione onirica si chiude nella scena dove il protagonista, come un Robinson contemporaneo, inizia a coltivare piante161 dai semi che aveva nella dispensa, vivendo il momento del presente eterno, simboleggiato dall’orologio rotto sulla fortezza.
Infine, la narrazione torna ad essere realistica e la voce dello scrittore giustifica le visioni fantasmagoriche della citt{ e del ritorno non avvenuto e impossibile: “sono passati vent’anni da quando l’ultima volta ho visto Svinado. [...] Da allora, ogni volta che immaginavo il ritorno a Svinado, sentivo una certa ansia che la citt{ mi avrebbe aspettato, così ingannevole, inbevendo il nostro incontro di un sospetto reciproco”lxxix. Per questa ragione, lo scrittore raccoglie le informazioni che gli arrivano dalla citt{ e costruisce e distrugge “gli innumerevoli modelli di citt{”, mentre la lontananza rende l’immagine della citt{ “sfocata, difficilmente riconoscibile”. Nel frattempo, la citt{ continua a vivere lì dove era, dove, esposta alle “correnti di gente, continua a cambiare la geometria della sua circolazione”lxxx (ibid.: 123). La sua concretezza viene confermata tramite il trasferimento della citt{ dal mondo immaginario a quello solitamente considerato realedi fantasia al mondo solitamente considerato reale: “Svinado è reale. È reale nella stessa misura quanto questa citt{ – Venezia, catturata nella ragnatela di canali, che si trova dietro la mia schiena e il cui futuro è il futuro del mare aperto”lxxxi (ibid).
3.5 Conclusione
L’immagine di Novi Sad nei romanzi di Vladimir Tasić Kiša i hartija e Oproštajni dar e nel romanzo Svinado di Goran Mimica è data in “doppia esposizione”: il velo fatto di ricordi si sovrappone alla citt{ del presente, per cui l’effetto finale è ampiamente influenzato dalla nostalgia.
161 Questa immagine sembra una riaffermazione della radice etimologica del nome della città: Neoplanta/Novi Sad.
109 Al contrario del ritorno fisico della protagonista di Kiša i hartija a Novi Sad, il ritorno del protagonista di Oproštajni dar nella citt{ natale è solo virtuale, per cui anche la citt{ appartiene alla stessa sfera. La Novi Sad delle sue reminiscenze è la citt{ della nostalgia per la propria gioventù, strettamente legata al fratello scomparso più o meno contemporaneamente alla scomparsa dell’intero paese. Il tempo nella sua Novi Sad si è fermato, per cui l’immagine della citt{ corrisponde a quella degli anni settanta e la prima met{ degli anni ottanta, fatto che diventa evidente dai nomi delle strade che il protagonista usa, che sono stati cambiati negli anni novanta. L’immagine della citt{ è data in un’aura di nostalgia riflessiva: la visione è ‘sumatraistica’, perché la nostalgia prende la forma di un labirinto composto da molte citt{ visibili e invisibili, inclusa quella natale (Boym 2001: 288) che in questa maniera diventa onnipresente. Infine, essendo legata alla storia familiare, la Novi Sad di Oproštajni dar possiede una particolare intensit{ mnestica, e come nella leggenda di Simonide, il protagonista si ricorda di tantissimi particolari delle avventure vissute con il fratello, anche grazie alla loro precisa localizzazione nello spazio della citt{.
Nel romanzo Kiša i hartija invece la trama è ambientata a Novi Sad nei primi anni duemila, per cui la sua immagine incorpora diversi elementi di transizione – i cambiamenti politici ed economici comportano anche modifiche fisiche della citt{ che sta cercando di adattarsi ai nuovi imperativi del neoliberalismo, soffrendo allo stesso tempo una confusione di valori e una graduale perdita della memoria urbana. La nuova gente che si è arricchita in vari modi illegali, la loro aggressivit{ e insensibilit{ completa, la privatizzazione degli edifici e dello spazio della citt{, la demolizione che non considera il valore architettonico o simbolico dei luoghi, sono le ragioni per cui la Novi Sad di questo romanzo è tra l’altro una citt{ di (auto)esclusione: sono esclusi tutti coloro che alla storia oppongono la propria memoria del gruppo, ricostruendo in questa maniera anche quella della citt{. I fenomeni di trasformazione urbana, sia fisica sia culturale, sono tipici per tutte le citt{ che hanno vissuto la transizione dal socialismo al capitalismo, quindi le citt{ centroeuropee. Invece, l’intervento finale dei protagonisti dimostra la possibilit{ di riacquisire almeno temporaneamente il “diritto alla citt{”, quello che da’ ai cittadini il potere di partecipare ai cambiamenti della propria citt{. L’immagine di Novi Sad grazie a questo happening tradisce un possibile ‘orizzonte di
110 aspettative’162 dei lettori stranieri che, invece di trovare una citt{ esotica e distrutta dalla guerra, trovano una citt{ altamente tecnologica, ma anche leggermente hippy e utopistica, che di sicuro non corrisponde al discorso sul balcanismo, analizzato nel precedente capitolo.
Il romanzo di Mimica, invece, si distingue dagli altri due analizzati perché lo scrittore, nel costruire l’immagine della citt{, fa solo sporadici riferimenti allo spazio reale, anche se non c’è nessun dubbio di quale citt{ si tratti. Inoltre, Novi Sad qui è uno spazio fantastico il quale è condannato, dalla paura dello scrittore di affrontarlo durante un (im)possibile ritorno, a essere annegato. Comunque, la forza vitale della citt{, anche se si tratta di una citt{ costruita esclusivamente dai ricordi, vince e il protagonista inizia una nuova civilizzazione coltivando la terra sulla fortezza.
Poiché tutti e tre romanzi sono scritti in serbo e pubblicati in Serbia, per cui principalmente si iscrivono allo stesso campo letterario ovvero quello nazionale, le differenze nell’immagine di Novi Sad in linea di massima dipendono dalle poetiche individuali163. Sarebbe, invece, interessante esaminare il rapporto tra le immagini di Novi Sad nei romanzi di Tasić e le strategie di resistenza al mercato e ai centri del potere che regolano il campo letterario internazionale propagate da questo scrittore, che opta per una scrittura emancipata nella propria lingua, senza guardare con invidia il successo mediatico nella metropoli (Tasić 2009: 110). In tal senso, il modo in cui sono costruite queste immagini potrebbe essere considerato una delle strategie di resistenza, perché incarna il suo rifiuto di prendere il ruolo del rappresentante della propria cultura letta in chiave etnografica, che presume un’immagine fissa dei Balcani. Infine, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di un’interdipendenza proprio tra l’immagine della citt{ nei romanzi di Tasić, in primo luogo nel romanzo Kiša i hartija, e un
162 Il termine „l‟orizzonte di aspettative‟ originariamente proviene dalla teoria della ricezione di Hans Robert Jauss. Al
contrario della concezione diacronica dell‟orizzonte di aspettative di Jauss, qui mi riferisco in primis alle aspettative del pubblico contemporaneo al romanzo, che, come ha notato anche lo stesso Tasić a proposito della posizione della letteratura migrante (o molto più raramente della letteratura in traduzione) nel mercato letterario statunitense si aspetta da uno scrittore immigrato di rappresentare la propria cultura in modo che corrisponde agli stereotipi su questa cultura presenti nella cultura americana.
163 La quantità del capitale simbolico di Vladimir Tasić, vincitore dei due più prestigiosi premi in Serbia, NIN e Vital, è
indubbiamente molto maggiore rispetto a quella in possesso di Goran Mimica. Inoltre, Tasić esplicitamente promuove la poetica di resistenza al mercato (vedere: “Alegorija kolebljivog fundamentaliste”) si posiziona nel polo della produzione di qualità. Per poter determinare una potenziale influenza di tutto ciò sull‟immagine di Novi Sad nei romanzi di due scrittori, bisognerebbe indagare più dettagliatamente la posizione di Mimica.
111 scarso interesse164 per la traduzione di questo romanzo all'estero nonostante si tratti di un vincitore del più prestigioso premio nazionale NIN.
In ogni caso, proprio il fatto di essere destinati al pubblico nazionale, con il quale si condivide lo stesso contesto culturale, fa sì che i romanzi di Vladimir Tasić possano rappresentare i lieux de mémoire, fungendo da connessione tra il mondo in via di formazione e la memoria culturale collettiva, opposta alla storia e radicata nei luoghi fisici, in questo caso quelli della citt{. Inoltre, attraverso la lotta per lo spazio in Kiša i hartija sono visibili anche le dinamiche sociali e politiche, in quanto lo spazio ha un ruolo fondamentale nel sistema neoliberista, permettendogli di riprodursi. Infine, anche se Novi Sad nel romanzo di Goran Mimica esiste al limite tra reale e fantastico, distopico, l’immagine che il romanzo trasmette da un lato si fonda nell’archetipo e dall’altro suggerisce simbolicamente la crisi della citt{ reale, che sta annegando in un cambiamento e crescita continui.
164 Il romanzo Kiša i hartija è tradotto in francese. Ciononostante, in un‟intervista Tasić spiega che malgrado la
convinzione diffusa che in Canada gli scrittori che vivono lì e scrivono nelle proprie lingue siano accettati, in realtà, ci sono pochissime traduzioni – un segno dell‟egemonia culturale (ĐorĊević 2013).
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4 Sarajevo – La città in esilio
4.1 Introduzione
Sarajevo, la capitale della Bosnia, la repubblica geograficamente nel centro dell’ex- Jugoslavia, era considerata “the most Yugoslav of all Yugoslavian cities” (Jestrović 2013: 110). Con la sua popolazione mista dal punto di vista etnico e religioso, che nonostante ciò viveva in pace e armonia, Sarajevo una volta rappresentava “the pride and joy of Europe” (Stefanovski in: Labon 1994 : 226), l’Europa stessa (Rumiz 2016: 9). La citt{ di Sarajevo fu fondata nel 1440 dal bey Isa Ishaković, nel territorio dove, nel medioevo e prima dell’arrivo dei turchi, si estendeva lo Stato bosniaco indipendente. Questo stato, come anche la citt{ di Sarajevo, era l’unico tra gli stati europei per la sua accoglienza delle tre chiese cristiane: la chiesa bosniaca, separata da Roma nel tredicesimo secolo, la chiesa ortodossa e quella cattolica. Dževad Karahasan (1953), uno dei più importanti scrittori bosniaci contemporanei, descrive Sarajevo come il centro del mondo, il quale raccoglie in sé tutto quello che c’è nel mondo:
[…] Sarajevo è diventata ben presto metafora del mondo. Il luogo in cui differenti volti del mondo si sono raccolti in un punto come nel prisma si concentrano i raggi di luce dispersi. Un centinaio di anni dopo la fondazione, la Citt{ ha raccolto uomini di tutte le religioni monoteistiche e delle culture da queste derivate, innumerevoli lingue diverse e forme di vita che queste lingue contengono in sé. È diventata un microcosmo, centro del mondo che, come ogni centro secondo l’insegnamento degli esoterici, contiene tutto il mondo. [...] tutto ciò che nel mondo è possibile si trova a Sarajevo, in miniatura, perché Sarajevo è il centro del mondo [...]165. (Karahasan 1995: 18).
Guardato, invece, da un punto di vista imparziale e obiettivo, Sarajevo è entrata al centro dell’attenzione mondiale tre volte durante XX secolo. Il primo evento, il quale, secondo alcuni storici, rappresenta il vero inizio del secolo, è l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este nel 1914, un atto che simboleggiava la volont{ del popolo bosniaco di liberarsi e che ha innescato la Prima guerra mondiale. La seconda occasione sono le Olimpiadi invernali del 1984, quando la stabilit{ politica dello Stato federale jugoslavo ancora non era messa in crisi e quello che dopo sarebbe diventato il terzo grande evento non
113 era nemmeno una lontana idea. Infine, all’inizio degli anni novanta l’intera Jugoslavia è diventata tristemente famosa per le guerre, prima in Croazia (1991-1995), e dopo anche in Bosnia (1992-1995). In quel periodo la stessa citt{ di Sarajevo è entrata nella Storia per l’assedio più lungo nell’et{ contemporanea: l’assedio è durato dal 4 maggio 1992 fino al 19 marzo 1996, ossia 1.395 giorni. Sulle montagne che circondano la citt{ e che una volta fungevano da protezione dal mondo esterno, la Jugoslovenska narodna armija, con il sostegno delle forze dei serbi bosniaci, aveva posizionato 260 carri armati, 120 mortai e tante altre armi di diversi calibri: “Un anello di 60 chilometri si chiuse attorno alla citt{. 60.000 metri divisi per 2.100 pezzi d’artiglieria dispiegati sul territorio: 1 arma ogni 35 metri” (Kapić 2017: 12). Durante l’assedio di Sarajevo sono state lanciate 4.000 bombe ogni giorni, colpendo indifferentemente case, scuole, ospedali, biblioteche, musei. La fornitura d’acqua, elettricit{ e gas è stata interrotta subito dopo l’inizio del assedio. Per sopravvivere la gente usava l’acqua piovana, le fontane della citt{ e l’acqua del fiume Miljacka, l’elettricit{ si produceva con i generatori a gasolio o con vari generatori improvvisati, mentre per cucinare e scaldarsi si bruciava qualunque combustibile, vecchi libri, giornali, giocattoli, gomme, parquet, ecc. (ibid.: 12-13). Il sopraccitato Dževad Karahasan paragona l’assedio di Sarajevo alle guerre medievali:
L’assedio di Sarajevo ricorda, per molti aspetti, le guerre medioevali e gli assedi di quell’epoca a citt{ meglio preparate all’uso di certi metodi bellici. Ricorda queste guerre non solamente per il completo accerchiamento della Citt{ e la tattica della ‘terra bruciata’, ma anche per i ‘mezzi ausiliari’ con i quali si combatte. Con ‘mezzi ausiliari’ non intendo, naturalmente, le armi, che, in questo caso, sono del tutto moderne e molto più micidiali di quelle medioevali, ma il modo di utilizzarle e il tipo di guerra che si conduce; penso ai mezzi che non sono materialmente armi ma uccidono lo stesso. Caratteristica dei mezzi indiretti di guerra è l’uccisione della citt{ e dei suoi abitanti con la fame, la sete, la privazione dei presupposti fondamentali dell’esistenza. (Karahasan 1995: 61).
Nonostante queste condizioni estreme, i cittadini di Sarajevo riuscivano, quotidianamente, a sopravvivere, non solo mantenendo la ‘vita nuda’ nel senso greco di ‘zoé’, ma anche la sua specificit{ umana, quello che distingue l’essere umano da altri esseri viventi, ovvero il ‘bìos’, anche se privati sia della libert{ che di qualsiasi diritto166. Oltre alle attivit{ quotidiane, legate
166 Il filosofo italiano Giorgio Agamben, partendo dalla distinzione greca tra „zoé‟ (vita naturale) e „bìos‟ (esistenza
politica), sviluppa il suo concetto di „vita nuda‟ ovvero la vita di „homo sacer‟, alla quale non si applica la legge, e quindi può essere uccisa senza che questo sia considerato un crimine. La vita nuda si produce attraverso la decisione del potere sovrano di annunciare lo „stato di eccezione‟ nel quale si sospende la legge, ovvero si sostituisce con la decisione del sovrano, per cui tutto quello che lui fa è per forza legittimo. L‟importanza di questa analisi di Agamben è nel fatto
114 alle necessit{ fisiche (come ad esempio procurarsi dell’acqua o del cibo), i cittadini di Sarajevo continuavano a cercare di soddisfare anche i bisogni spirituali a volte rischiando la vita per arrivare a teatro, a un concerto o al cinema167. Durante l’assedio, la produzione artistica, tutta orientata contro il nazionalismo crescente del governo di Alija Izetbegović, era particolarmente viva, persino al punto di rimanere “one of its most recognisable brands, as well as a precious object of nostalgia that reminds of the worst and the best of times” (Kurtović 2012: 197). Tuttavia, l’immagine che arrivava al mondo esterno era quella di un luogo di sofferenza passiva, muto e congelato nella paralisi storica, di cui i portavoce erano i politici, i giornalisti e gli inttelletuali occidentali (Jestrović 2013: 143).
L’obiettivo di questo capitolo è di concentrare l’attenzione proprio sulle attivit{ quotidiane, sebbene la situazione a Sarajevo durante l’assedio superasse ampiamente quello