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I PARTE: LE CITTÀ PERSE

4.2 Sopravvivere all’urbicidio

Silvija Jestrović, studiosa e docente presso l’Universit{ di Warwick, nel suo studio Performance, Space, Utopia. Cities of War, Cities of Exile (2013) spiega che al fine di sopravvivere i cittadini di Sarajevo erano spesso forzati a ‘usare’ la citt{ come se fossero in una landa selvaggia:

Instead of meandering in and out of shops and cafes, these citizens venture out on a dangerous quest for even the barest of essentials – water and fire. The complexity, modernity and a certain degree of excess that have shaped the notion of the contemporary city are reduced and replaced by another set of imagery: flesh, debris and the basic elements – water, fire, air and earth. (2013: 139).

Questo fatto ha messo in questione lo status ontologico della citt{, la sua urbanit{, minacciando di trasformarla nel suo contrario. Sebbene non esista una definizione univoca di

177 Per una lettura del romanzo Mentre Alma dorme nella chiave del mito di Edipo nel contesto della politica europea,

117 citt{, il famoso sceneggiatore macedone Goran Stefanovski (1952) nel testo teatrale Sarajevo (Tales from the City) (1994) è riuscito a cogliere l’essenza stessa della citt{ in netto contrasto con la sopraccitata descrizione. Inoltre, il suo testo spiega quanto in quel momento e date le circostanze fosse difficile pensare Sarajevo in quella maniera, cioè riconoscere in essa la sua essenza urbana:

the city is a place/ where you can have/ tea and toast/ in the morning/ think about it/ a city is a place/ with shops/ where you can buy/ the tea/ have a home to take it to by/ bus, taxi or underground/ where you have electricity or gas/ to boil some water on/ and where you have water/ in the first place/ coming from a tap/ and miles and miles of pipes/ and if you want to drink the tea/ in a warm room/ the heating should be on/ there should be people working/ to get it on and send it to you/ through miles and miles of pipes/ and to get the toast/ is up to the bakeries/ and the bakers working there/ in sleeveless shirts all night./ You need all that/ in a city/ if you want to have/ tea and toast in the morning/ One little thing missing/ and there’s no tea/ no toast/ and no city. (1994: 254-255).

Poiché la citt{ “è il punto di massima concentrazione dell’energia e della cultura di una comunit{” (Mumford 2007: LXXI), la sua distruzione è il modo più efficace per distruggere la comunit{ stessa, la sua cultura di convivenza pacifica, la sua multiculturalit{ storica. La sopraccitata Silvija Jestrović confessa di aver vissuto la distruzione di Sarajevo come la perdita della Jugoslavia: “more than any other place in the Balkan bloodbath, I equate Sarajevo’s destruction with the loss of Yugoslavia – not the communist state, but its multicultural spaces” (Jestrović 2013: 3).

Il basso livello della cultura degli occupatori di Sarajevo e degli assassini delle citt{ bosniache e croate in generale, è dolorosamente evidente nella spiegazione della distruzione di Vukovar barocca fornita da Veselin Šljivančanin (uno dei responsabili nella battaglia di Vukovar), secondo il quale avrebbero costruito una Vukovar più bella e più antica (citato secondo: Jestrović 2013: 1). Ciò nonostante il tentativo di urbicidio di Sarajevo trova una spiegazione comprensibile dal punto di vista strategico attraverso il fatto che la citt{ quando “cessa d’essere un simbolo di arte e di ordine essa agisce negativamente, essa esprime e contribuisce a diffondere la disintegrazione” (Mumford 2007: LXXXIV). Tuttavia, la citt{ di Sarajevo è sopravvissuta grazie ai suoi cittadini, i quali sin dall’inizio erano contro la guerra,

118 anche se non erano unanimi nelle loro richieste espresse durante la protesta del 5 aprile 1992178.

Non a caso, il primo spettacolo teatrale nella Sarajevo assediata, messo in scena dal regista Haris Pašović nel 1993, era intitolato Grad. Le opere teatrali e in generale le opere di arte che sono state prodotte in seguito, cercavano di rispondere alle domande come “cosa what makes a city a city?”, “what does it mean to be a citizen in a city under siege?”, ecc. (Jestrović 2013: 129-130). Dževad Karahasan testimonia la vitale importanza della vita culturale nella Sarajevo assediata per la sopravvivenza dei cittadini, ma anche della citt{ stessa:

Fino a quando continuiamo a pensare alla letteratura, fino a quando continuiamo a salutarci come richiede la buona educazione e a pranzo ci serviamo delle posate; fino a quando desideriamo scrivere o dipingere qualcosa, o cerchiamo di elaborare la nostra situazione e i nostri sentimenti con il teatro: fino a quel momento abbiamo la possibilit{ di esistere come esseri culturali, di difendere la nostra citt{ e la tolleranza che vi regna, di conservare il nostro diritto a una vita in comune di nazioni, religioni e convinzioni diverse. (Karahasan 1995: 47).

Secondo un riassunto offerto da Darko Diklić nel volume Teatar u ratnom Sarajevu 1992-1995 (Il teatro nella Sarajevo assediata 1992-1995) a Sarajevo durante l’assedio sono stati organizzati 3.102 eventi artistici e culturali, ovvero una media di 2,5 eventi al giorno (Jestrović 2013: 112). Nonostante ciò, solo poche di queste iniziative sono riuscite ad attirare l’attenzione del mondo esterno, per cui la rappresentazione mediatica dominante di Sarajevo è quella della citt{ “of passive suffering where very little was going on aside from destruction and the day-to-day struggle for survival” (ibid.). Uno dei rari esempi che sono riusciti a superare i confini della citt{ isolata è l’adattamento teatrale di Susan Sontag Aspettando Godot. Malgrado lo spettacolo fosse stato accolto calorosamente dalla maggior parte dei sarajevesi179,

178 “On 5 April, as barricades were being erected and heavy artillery was being assembled in the hills surrounding the

city, thousands of panicstricken Sarajevans took to the streets to hold their last big anti-war protest. Documentary footage of the protest is a record of public worry and political confusion. Anti-war slogans and chants revealed a diversity of approaches: some called for an independent, but multicultural Bosnia, others evoked the notion of the „brotherhood and unity‟ of Tito‟s Yugoslavia, while still others insisted on a multi-ethnic and cosmopolitan Sarajevo. Whatever their understanding of current politics was, one thing remained clear – the citizens of Sarajevo did not want war.” (Jestrović 2013:. 112-113).

179 La fine della prima Muhamed Kreševljaković, all'epoca il sindaco di Sarajevo, ha consegnato la cittadinanza onoraria

119 Silvija Jestrović disapprova, riconoscendo comunque le migliori intenzioni di Sontag, il discorso creato intorno ad Aspettando Godot il quale ripete “the notion of the city as a passive, lethargic and depressed dystopia of Balkan multiculturalism” (2013: 119). Inoltre, data la fama internazionale della scrittrice americana, questa pièce teatrale è emersa come l’evento cruciale dell’intervento culturale, invece di essere considerato solo una delle espressioni di normalit{ nella citt{ (ibid.)180. Quest’ultima è stata trascurata dai media stranieri perché, come spiega Silvija Jestrović in maniera convincente: “The suffering of Sarajevo was undeniable and easy to understand, anticipate and feel. Its ‘normalcy’ and its pleasures were much harder to fit into Western imaginaries of a suffering city” (2013: 125).