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La grande forma

2. Il Foro Bonaparte e la città

2.3 La grande forma

L’analisi delle questioni formali nell’opera antoliniana coinvolge la scala urbana e la scala architettonica della città. Nella prima la geometria elementare della circonferenza combinata e associata alla dimensione colossale della piazza manifesta la presenza della grande forma, mentre nella scala architettonica la geometria degli edifici e delle parti in rapporto alle preesistenze della città confermano l’indipendenza e l’autonomia formale del segno architettonico rispetto alla città consolidata.

Come già spiegato, a seguito dell’ideazione del Foro Bonaparte, Antolini si occupa della diffusione a stampa del progetto prima attraverso il prospetto associativo, poi nella pubblicazione edita da Bodoni e in seguito con nuovi progetti editoriali alcuni dei quali non troveranno attuazione. In tutte queste pubblicazioni i disegni descrivono un’idea generale del Foro Bonaparte, di tutti i dettagli degli edifici e delle parti che lo compongono. La diffusione a stampa del progetto non riguarda solamente l’episodica architettura del Foro, ma l’intera città di Milano. Nella già analizzata pianta del Pinchetti il Foro si misura con la città di Milano e con le sue grandi forme preesistenti. Dalla lettura di questo documento è possibile definire attraverso un’operazione di scomposizione il tessuto, il disegno della città e le sue macrostrutture.

Sono quattro le grandi forme più significanti: le mura intese come sistema continuo, la corte gigantesca del lazzaretto, il naviglio inteso come sistema naturale e il Castello Sforzesco.

Le mura con una linea spezzata definiscono il tracciato e il limite della città. Il lazzaretto nella dimensione geometrica e regolare si adagia, seguendo l’andamento delle mura al di fuori della città. Il naviglio con un andamento curvilineo e parallelo alle mura divide la città in due anelli concentrici stabilendo un dentro e un fuori, un centro e una periferia. Il Castello con le sue fortificazioni si pone come limite tra città e campagna.

Nell’area del Castello si incontra il tracciato delle fortificazioni e il percorso del canale navigabile. La convergenza e l’intersezione delle mura e del naviglio configurano l’area del Castello come polo alternativo al fulcro centrale della città.

Il Castello, le mura, il naviglio e il lazzaretto sono infrastrutture della città, la cui dimensione è generata da necessità funzionali. Le mura sono anche interpretabili come un sistema unitario alla grande scala concepito per racchiudere la città. Il naviglio è a servizio della città e utilizzato per il commercio. Percorre l’intera struttura urbana secondo un andamento pressoché circolare dividendola in due parti equivalenti. Il lazzaretto si configura come un grande recinto necessario per ospitare i malati, espulsi dalla città. Il Castello con le sue fortificazioni si mostra come permanenza e grande struttura difensiva. Ognuna di queste architetture è supportata da esigenze di natura distributiva e funzionale. Queste forme rappresentano un’eccezione rispetto all’edificato residenziale, non costituiscono tessuti urbani continui, ma si contrappongono al disegno della città consolidata e concorrono alla definizione di diversificazione e specificità della città.

Il Foro Bonaparte nella sua unitarietà architettonica non è invenzione formale, ma una reinterpretazione della grande forma presente nella città.

Alla fine del XVIII secolo le contingenti esigenze di viabilità, di igiene e la condizione miserevole in cui si trova la città di Milano influenzano le trasformazioni urbane. Il clima culturale, politico e sociale permette agli architetti di misurarsi con la città e di sollevare un rinnovato dibattito sulle possibili trasformazioni, che coinvolgono la struttura urbana, indirizzando le scelte verso una ridefinizione del tessuto urbano.

Nella città settecentesca i poli urbani tradizionali che rappresentavano il luogo di incontro tra potere e cittadini erano punti della città ben individuati: la piazza davanti al Duomo, la corte del Reale Arciduca, le piazze dell’Arcivescovado, del Capitano di Giustizia e

quella delle Corporazioni dei Mercanti26. Questi luoghi della città avevano un carattere

eccezionale. Il forte valore simbolico era legato sia al potere assoluto, sia al potere civile. Se agli occhi dei cittadini questi luoghi erano simboli del rinnovo della società, per gli architetti diventano gli ambiti più interessanti per sperimentare nuove forme di sviluppo della città, capaci di incidere in modo profondo e meno episodico sulla struttura urbana. L’intera città di Milano presentava un quadro disorganico, composto dalla successione di proprietà pubbliche e private. Numerosissimi erano ancora i proprietari di strade e di piazze ed era proprio a questi proprietari che le Ordinanze austriache del 1780, ‘81, ‘84 rivolsero sollecitazioni per le opere di manutenzione, pavimentazione, pulizia stradale e sgombero dagli impedimenti27. A seguito delle rinnovate esigenze di gestione della città,

lo spazio pubblico, la piazza per eccellenza, diventava patrimonio collettivo, il luogo eletto delle nuove funzioni collettive. La piazza si trasforma in luogo per sperimentare nuove idee compositive. Alcune parti della città vedono succedersi numerosi progetti da parte di più architetti, come accade ad esempio per la piazza del Duomo nel cuore della città storica e l’area del Castello quale nuovo sbocco per l’espansione urbana.

Agli architetti non è più sufficiente riferirsi ad architetture episodiche, ma è necessario rifarsi alle regole urbane e porle come base per lo sviluppo e del progresso della città. I tracciati delle strade sanciscono il limite dell’edificato, i grandi assi viari sono rettificati e l’architettura diviene quinta scenica. La maggior parte degli interventi nella città di Milano tentano di completare il tessuto urbano attraverso la definizione di un’architettura che si rapporta con l’edificato limitrofo. Le vie disegnano e ordinano la città, mentre le piazze scandiscono attraverso una sapiente articolazione i pieni e vuoti. In questo dibattito che coinvolge la trasformazione della città e il suo tessuto urbano, il Foro Bonaparte si inserisce come un episodio singolare, che non cerca di ricucire un tessuto urbano, ma si pone con carattere indipendente e autonomo.

L’indipendenza delle ragioni distributive e funzionali nella definizione del Foro Bonaparte manifestano l’autonomia compositiva e formale dell’architettura. Un nuovo modello estraneo e contrapposto alla città compatta, che rigenera la scena urbana attraverso nuove regole compositive.

Antolini dopo il 1815 pubblica le Osservazioni aggiunte ai Principi di Architettura Civile di Francesco Milizia28 fissando su carta i suoi studi teorici su Milizia. Nella redazione del

testo Antolini fa continuamente riferimento alle sue opere e ai suoi progetti, identificando questo scritto anche come un manifesto esplicito del suo pensiero progettuale.

La seconda parte dei Principj di architettura civile di Milizia è composta di tre libri. Nel primo si trattano le questioni generali dell’edificato relativo ai terreni, alla bontà dell’aria, dell’acqua, delle esposizioni, delle comodità del luogo e dell’amenità delle vedute; nel secondo l’aspetto formale dell’architettura e delle singole forme degli edifici; nel terzo libro della distribuzione generale delle città e dei singoli edifici pubblici e privati. Le questioni geometriche e formali sono illustrate in una parte a se stante, in quanto non si riferiscono all’articolazione interna dell’architettura, ma servono alla definizione dello spazio, sia esso inteso alla scala urbana o architettonica. Milizia classifica le forme in tre categorie: curve, rette e miste.

La forma, secondo Milizia, è riconducibile all’impianto planimetrico dell’edificio: 26 L. Patetta, Architettura e spazio urbano in epoca napoleonica in L’idea della magnificenza civile. Architettura a Milano 1770-1848, Catalogo della mostra (milano, ott-nov. 1978), Electa, Milano 1979, p. 21

27 Gride, Ordini, Editti, Avvisi di Sanità, Milano 1771-1801

28 G.A. Antolini, Osservazioni aggiunte ai Principii di Architettura civile di Francesco Milizia. Proposte agli studiosi ed amatori dell’architettura dal Prof. Giovanni Antolini, Stella, Milano 1817. Questo studio è da distinguersi dalle successive tre edizioni (Milano 1832, 1847, 1853) di F. Milizia, Principi di architettura civile, che oltre al testo integrale contengono le aggiunte dell’Antolini

è ammessa la variazione purché non sia compromessa la comodità, la solidità e la convenienza dei rispettivi edifici. La forma sia essa curva, retta o mista è prerogativa dell’impianto planimetrico e della distribuzione interna, la sua applicazione non è estesa al prospetto, né tanto meno alla sezione. La forma racchiude al suo interno le variazioni spaziali, le ripartizioni e le distribuzioni dei lumi. Declinata nell’impaginato planimetrico, ne dichiara la predominanza rispetto agli alzati architettonici.

La figura circolare, prosegue il Milizia, è la più fastidiosa per la ripartizione e la distribuzione interna, ma in questa è ben sintetizzata “l’appartenenza della maggior fortezza”29: in questa forma andrebbero mostrati i templi, gli anfiteatri, i mausolei, le

piazze e le fiere.

Raccomanda di servirsi del circolo “nella dimensione più ampia possibile per poter mostrare la sua maestosità al di fuori e al di dentro”30. La figura circolare nella sua

forma geometrica sintetizza simbolicamente la “maggior fortezza” quindi il carattere monumentale dell’architettura.

Antolini, aderendo alle indicazioni contenute nei Principj di architettura civile, ricorre alla figura circolare per associarla alla forma più conveniente per un monumento.

Nel Foro Bonaparte il segno circolare è assegnato all’architettura: due emicicli, i giardini, la strada esterna, il canale navigabile e il filare degli alberi che fiancheggiano il naviglio si organizzano in relazione a questa impostazione compositiva. La strada, l’edificato con i giardini e il naviglio con l’alberatura formano tre circonferenze concentriche, costituenti 29 F. Milizia, Principi di architettura civile, Remondini, Bassano del Grappa 1785, p. 15

30 F. Milizia, Pricipj di architettura…, Ibidem, p. 16

la grande forma dell’architettura del Foro.

Secondo Milizia la città deve avere numerose piazze, opportunamente distribuite e di forma e grandezza variabile. La dimensione deve essere proporzionata al numero di abitanti e ai suoi utenti, affinché non appaia troppo deserta o affollata. Per definire il dimensionamento e il giusto rapporto tra la piazza e gli edifici, Milizia ricorre alla regola proposta da Leon Battista Alberti vincolando l’altezza degli edifici ad un minimo di 1/6 fino ad un massimo di 1/3 della larghezza della piazza. Antolini nel progetto per il Foro Bonaparte trascura completamente tale indicazione. La dimensione dello spazio vuoto oltrepassa enormemente le dimensioni canoniche delle piazze, mentre l’altezza degli edifici conferma la misura ricorrente nei palazzi della città. Ampliando la piazza, Antolini nega le regole suggerite nella trattatistica e la necessità di un rapporto proporzionale tra vuoto ed architettura, aprendo a nuove sperimentazioni.

Esempio di utilità e magnificenza per Milizia sono le agorà greche o i fori romani. Antolini nelle Osservazioni include tra questi esempi il Foro Bonaparte31. Di forma

circolare e circondata da edifici pubblici e privati il Foro antoliniano si offre come modello alternativo ai fori antichi. Antolini come Milizia concorda nella identificazione della figura circolare quale forma più bella e perfetta per una piazza, ma non aderisce alle prescrizioni concernenti il suo dimensionamento, in quanto nel progetto milanese lo spazio vuoto raggiunge la dimensione colossale di 530 metri di diametro.

In numerosi passi tra i suoi scritti traspare il pensiero critico verso gli “edifici immensi” e le “enormi masse”. Ne Il tempio di Minerva in Assisi pubblicato nel 1803 Antolini critica gli edifici immensi esprimendosi così:

“… le masse enormi, e gli ornamenti messi alla rinfusa non formano la bellezza. Quegli edifizi che godono queste semplici prerogative, essendo prodotti piuttosto dal capriccio, dalla follia, che dall’avvedutezza, e dalla ragione, muovono semplicemente la meraviglia nell’ignorante, mentre fanno compassione nell’animo del savio, e dell’inteligente, i quali trovano il bello, non in queste superbe masse, o frivole idee, ma nelle buone proporzioni delle parti fra loro, e di queste col tutto”32.

L’attenzione di Antolini nelle proporzioni delle parti con il tutto sembra non riguardare la relazione tra l’architettura e il vuoto. Se dunque le proporzioni delle parti con il tutto sono prerogative dell’architettura costruita, nel vuoto urbano l’architetto romagnolo accetta il ricorso alla dimensione colossale: come se le regole di carattere proporzionale che governano l’architettura siano svincolate dalla restituzione dello spazio urbano, rompendo una tradizione accademica consolidata.

Nel maggio del 1813 è bandito per volere di Napoleone Bonaparte un concorso di architettura per l’esecuzione di un monumento di pubblica utilità che doveva celebrare la partecipazione dei popoli d’Italia e Francia alla creazione dell’Impero senza imposizione di modelli.

Tra la documentazione manoscritta di Antolini conservata nella collezione Piacastelli33

compaiono documenti che riportano alcune riflessioni sul progetto del Moncenisio. Riferendosi ad una grande piramide Antolini osserva: “Non avrebbe altro pregio che la grandezza; ed essendo imitazione Egiziana o Romana, non è Soggetto nuovo; tiene alla mestizia, e non alla giocondità”. Ancora una volta Antolini insiste sul tema, precisando che la grandezza dell’architettura non risiede nella sua amplificazione e monumentalizzatine. Il ricorso alla dimensione colossale non è applicabile alla scala architettonica dell’edificio, 31 G.A. Antolini, Osservazioni…, Ibidem, pp. 136-137

32 G.A. Antolini, Il tempio di Minerva in Assisi confrontato colle tavole di Andrea Palladio, Destefanis, Milano 1803, p. 17

ma solamente alla scala urbana del progetto.

Il ricorso alla grande dimensione nel Foro Bonaparte è suggerito anche dall’ispettore Bianchi d’Adda, che proponeva per la sistemazione dell’area del Castello una piazza di dimensioni simili a quello del Lazzaretto per poter celebrare in questo luogo riti e festeggiamenti pubblici34.

Il suggerimento di Bianchi d’Adda rappresenta per Antolini il pretesto per concretizzare il Foro Bonaparte e giustificare il ricorso alla dimensione immensa della piazza. Il ricorso alla dimensione colossale si suppone che non risiede nella creazione di uno spazio per festeggiamenti pubblici, ma si identifica in una volontà progettuale volta all’ideazione di una nuova architettura della città.

Rispetto alla città consolidata, il Foro Bonaparte costruisce un’altra idea di città. Antolini utilizza gli elementi di riconnessione esistenti come il naviglio, le mura urbane e la strada del Sempione. Un’altra preesistenza indicativa, attorno a cui è impostato il progetto per il Foro Bonaparte, è il Castello Sforzesco: sebbene il progetto si riconnetta ad alcuni elementi della città esistente il Foro mantiene la propria autonomia formale.