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L’Hymn Ap e l’Hymn Orph 36: le frontiere dell’epiteto Apollo atasthalos tra solarità e teoria armonica.

Intertestualità dell’Hymn Ap.

P. Oxy 841, Oxy 2240 + 2442, Oxy 1792, Louvre E 7734 + 7733).

4. Ultime note intertestuali: l’Apollo solare nel fr 134 DK e nell’Hymn Orph 36.

4.2 L’Hymn Ap e l’Hymn Orph 36: le frontiere dell’epiteto Apollo atasthalos tra solarità e teoria armonica.

L’immagine dell’Apollo solare in Empedocle, condivisa in termini più velati dai tragici, è stata ereditata dagli orfici, che, nel definire Apollo πανδερκής e ϕωσφόρος, non possono non rievocare il Sole πανόπτης di Aesch., Prom. 91 (~ fr. 192.5 Radt) e lo φωσφόρ’Ἑκάτη in Eur., Hel. 569.310

Nell’Hymn. Orph. 36 a Apollo si riscontra, per di più, una curiosa reminiscenza dell’Hymn. Ap.:311

l’inno appare diviso in due sezioni, la prima interamente concentrata sull’aspetto solare di Apollo (onorato come Menfita, assimilato dunque all’Horus egizio secondo l’henosis del fr. 29 Kern);312

la seconda, destinata alla sublimazione cosmica della solarità del dio (vv. 16-25), tramite un discorso esteso all’armonia cosmica e al tono dorico,313 parafrasato in seguito da Claudio Tolomeo in piena epoca imperiale (Harm., 3.12).314 La composizione dell’Hymn. Orph. (36) ha presupposto quindi la conoscenza dell’Hymn. Ap., insieme all’Hymn. Orph. (6) a Protogonos e all’Hymn. Orph. (31) a Helios.315

Sarebbe stato interessante trattare nei prossimi capitoli gli impieghi e le reminiscenze della formularità dell’Hymn. Ap. nella produzione orfica. Un analisi dei testi non ha tuttavia consegnato dei risultati a mio avviso soddisfacenti (nel capitolo relativo alle formule dell’Hymn. Ap. ho però indicato i pochi nessi dell’Inno omerico rimasti negli Inni e nelle Argonautiche orfici). Uno studio dell’inno orfico ad Apollo, che coinvolga in qualche modo lo stesso Hymn. Ap., è possibile tentando altre vie.

310 Per πανδερκής cfr. anche Bacch., Dithyr. XVII 70 e Eur., El. 1177 riferito a Zeus; per il ϕωσφόρος,

Plat., Tim. 45b; Arist., Tesm. 858; Eur., Ion. 1157.

311

Cfr. Athanassakis 1977, pp. 135-36.

312

Procl., Theol. Plat. VI 12, pp 376, 21; Serv., ad Verg. Aen, III 98. Ma anche Hdt II.156.5; Plut., De Is.

et Osir. 356a, 375f; PMG 4.455, 988-89. Cfr. Vanderlip 1972, p. 29 n.8. 313 Il tema dell’armonia cosmica ritorna in HO 8.9 e 11.6.

314

Cfr. Barker 1989, pp. 419-20. West 1992b, pp. 179-80.

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Per quanto non sia stato ancora chiarito quali dovevano essere i contesti di fruizione degli Inni orfici, il consenso sembra essersi invece stabilito sul loro statuto di preghiera.316 Sviluppata è infatti la vera e propria sezione della εὐχή, varia nei contenuti e introdotta da un κλῦθί μου, da un ἒρχεσθαι o da un μολεῖν, corredati talvolta da un participio o avverbio (ἒλθοις εὐμενέουσα, ἐλθεῖν εὐάντητον).

In quanto preghiera, ciascun inno può per questo analizzarsi come un’istanza di comunicazione, che mette in rapporto il locutore (la maggior parte dei casi il μυστής) e il destinatario (la divinità invocata) in vista dell’ottenimento di un favore (da cui la funzione conativa dell’inno).317

È stato fatto notare proprio di recente, tramite nuove ricerche sull’organizzazione dell’epiteto negli Inni, 318

che nel testo orfico più che in quello omerico e callimacheo la veste formale è prevalentemente determinata nella sua efficacia rituale dal linguaggio.319 Nelle preghiere orfiche, come anche nelle descrizioni geografiche delle Argonautiche, salta all’occhio la povertà delle sezioni narrative, con una riduzione al minimo della cosiddetta pars epica (o argument, come vuole Bremer)320 a fronte della ricchezza eccezionale di aggettivi, participi e proposizioni relative.321 Quella che è una tendenza propria alla produzione innografica, ovvero un’alta concentrazione di attributi qualificanti la figura del dio, diventa quindi negli Inni

orfici una tecnica di composizione predominante, in grado – come si vedrà più avanti –

di determinare l’efficacia della preghiera.322

316Dopo Kern 1911, il consenso si è stabilito sulla funzione rituale degli inni, che doveva avvenire molto

probabilmente in una comunità dell’Asia Minore (Pergamo?) nell II d.C. Cfr. Calame 2000, pp. 58-69.

317 Calame2000, n. 25 parla di chants incantatoires, senza per questo presupporre una forma di magia

coercitiva.

318

Sugli effetti eufonici di una simile organizzazione, si veda Morand 2005.

319

Hopman Govers 2001 e Morand 2005; prima di loro ho notizia solo di Guthrie 1933, pp. 216-221. Per uno studio più generale sulla produzione orfica, cfr. Rudhardt 1991b e Morand 1997, pp. 169 – 181. Le edizioni di riferimento, testimonia inclusi, sono Ricciardelli 20003 e Bernabé 2005. Prima di loro, si segnala l’edizione Quandt 19623

. Dello stesso Bernabé è la concordanza (Orphei hymnorum

concordantia) del 1988. Oltre a quello di Ricciardelli, rimangono preziosi i commenti di Hunsucker 1973

e Alderink 1997 su alcuni degli inni della silloge (quello di Alderink è sull’inno orfico 13 a Kronos). Quanto invece ai rapporti tra gli Inni e il Vicino Oriente, Galjanic 2010 e gli interventi critici di Graf 2009 e Morand 2010.

320 Si usa qui la terminologia di Ausfeld 1903, pp. 505-537 (invocatio, pars epica, precatio) ripresa da

Calame 2012 per le sue nuove analisi. Bremer 1981 p. 196 rifiuta la definizione di pars epica, per lui adatta alla sola produzione omerica.

321

Pagine essenziali per il Partizipalstil der Prädikation e il Relativstil der Prädikation in Norden 1956,

pp. 166-76.

322 Per una lista degli epiteti, Bruchmann 1893, con delle interessanti osservazioni in Festugière 1949, pp.

313-16 (in particolare per l’Inno a Zeus di Cleante) e Robert 1971, pp. 610-19 sull’oracolo di Enoanda (per cui vd. anche l’essenziale Robinson 1996, pp. 1-52). Per la tipologia degli epiteti, segnalo invece Henrichs 1976, pp. 253-86, e Graf 1996, pp. 1823-37.

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La selezione degli epiteti e la loro riorganizzazione sintagmatica potrebbero, allora, essere rivelatrici del funzionamento della preghiera orfica, dal momento che l’efficacia della preghiera è delegata alla stessa tecnica di giustapposizione degli attributi e, più in generale, delle forme del contenuto. La stessa tecnica è d’altronde presente anche in altri testi d’età imperiale (come negli oracoli apollinei di Claro e Didima, in Gregorio di Nazianzo e nel monumentale poema di Nonno), in misura talvolta esasperata come nella lista innografica di epiteti per Apollo e Dioniso contenuta nell’Antologia Palatina.323

Come si qualifica, allora, l’Apollo degli Orfici?

Del nome del dio si hanno nella produzione orfica tre casi, declinati nelle due forme del genitivo e del dativo, e non particolarmente innovativi sul piano della qualificazione degli attributi divini: Ἀπόλλωνι ἄνακτι, in coppia col nome di Calliope, Καλλιόπηι σὺν μητρὶ (Hymn. XXIV, 12 alle Nereidi); Φοίβου Ἀπόλλωνος ad apertura di verso, declinato anche qui al genitivo per indicarne la paternità su Asclepio, κρατερὸν θάλος ἀγλαότιμον (Hymn., LXVII 6, a Asclepio); Ἀπόλλωνος ἄνακτος a fine del verso e in coppia con Dioniso, Βακχοῖο, col quale condivide l’estro da cui il poeta muove, κέντρῳ ἐλαυνόμενος, per mostrarne i dardi agli iniziati (Arg., 9);324 Ἀπόλλωνι ἄνακτι, sempre a fine verso ma variato nel caso per specificarne la paternità rispetto a Idmone (Arg., 188).

Quanto alla definizione del dio tramite epiteti, i primi sette versi dell’inno a lui dedicato non sono altro che una lista di attributi vari quanto a origine e attinenza con le versioni del mito,325 chiusi da una proposizione participiale che ricorda nella struttura quella riferita a Pan in HO 11, 5-6 (ἂρμονίαν κόσμοιο κρέκων φιλοπαίγμονι μολπῆι):326

πανδερκὲς ἔχων ϕαεσίµβροτον ὄµµα, 8.

Se alcuni epiteti dell’Hymn. Orph. 36 rimandano direttamente alla sfera omerica e esiodea (Φοῖβε,327 Πύθιε, Σµινθεῦ,328 δαῖµον, ἑκηβόλε, ἑκάεργε per

323

Anth. Pal. IX 524 (Dioniso) e 525 (Apollo).

324 la forma al genitivo si trova anche nell’Hymn. ID (ad Dactylos Idaeos, 10): [πρ]ῶτος

δένδ[ρα] φ[ύτευσε] /Φοίβου Ἀπόλλων ο[ς] /[Ε]ὐρυθέου δὲ καὶ [. Cfr. Hymn. Byz. 21, 110, con una paretimologia del nome d’ Apollo: Ἀπόλλωνι ψυχὰς προσαπολλύοντι / θυσίαν οὐ προσένειμας.

325 Così è per il Τιτυοκτόνε al v. 1, che rinvia alla versione del mito per cui Leto sarebbe stata rapita da

Tityos subito dopo avere partorito Apollo e Artemide (Od., II 576-81; [Apollod.], I.4.1-2.

326

Diversi sono i casi di assimilazione di Apollo a Pan nella produzione orfica, il che non dovrebbe stupire alla luce sia del funzionamento sincretistico della religione degli orfici sia per una vicinanza storica tra i due dèi. Per la condivisione di uno stesso santuario sul monte Kotillion in Arcadia, vd. Larson 2007, p. 99.

327

Anche in HO 35.4; 67.6; 79.6.

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Apollo),329 altri sembrano inoltre essere stati forgiati, indipendentemente dalla tradizione, come forma di narrazione condensata per l’occasione (così è per Apollo ἀρότριε, Γρύνειε, ἐράσµιε, τοξοβέλεµνε, πανδερκὲς ἔχων ϕαεσίµβροτον ὄµµα; così διδυµατόκε per Leto nell’Inno orfico successivo).330

Negli epiteti dell’Hymn. Orph. 36 viene a concentrarsi, insomma, il contenuto di miti esprimibili in una proposizione intera (Rudhardt ha per questo parlato di syntaxe che è latente sous la parataxe).331 Nella maggior parte di questi si vogliono rievocare vicende di uccisione che nell’Hymn. Ap. sono all’origine di fondazioni: così è per Τιτυοκτόνε 1, Πυθοκτόνε 4, τοξοβέλεµνε 6 (il caso di Τιτάν al v. 3 rimanda all’episodio, sconosciuto all’Hymn. Ap., delle carni di Dioniso Zagreus,332

straziato dai Titani e a cui Apollo dà degna sepoltura sul Parnaso).333

Dalla disamina delle formule dell’Hymn. Orph. Ap., nella produzione orfica in esametri ho rivelato una simile condotta per quanto riguarda le formule, il cui impiego è nondimeno riadattato tramite questa tecnica di sostantivazione all’interno di versi composti principalmente da gruppi nominali e da preposizioni aggettivali (o in alternativa participiali). La ricucitura delle formule come tecnica su cui ricade la riuscita della preghiera finale potrebbe pertanto fungere da buon specimen d’analisi per capire come l’inno degli orfici realizzasse la sua natura di preghiera.

Ecco le formule dell’Hymn. Orph. 36, individuate tramite la loro frequenza in altri inni della silloge: καθαρὰς ϕήµας χρησµούς τ’ἀναφαίνων, 9; λεύσσεις τὸν ἀπείριτον αἰθέρα πάντα, 11; ὑπ’ ἀστεροόµµατον ὄρφνην, 13; ἔχεις δέ τε πείρατα κόσµου, v. 15; ἐπὶ τέρµατα βαίνων, 17; βιοθρέµµονα ϕῦλα, 19; σώζων µύστας ἱκετηρίδι ϕωνῆι, 27. E’ interessante notare come la maggior parte di queste si basino su moduli espressivi usati in tragedia, soprattutto da Euripide, piuttosto che nell’epos arcaico e ellenistico: il λεύσσεις τὸν ἀπείριτον αἰθέρα πάντα rievoca così il πάντῃ δὲ πόρον σχιστὸν ἀμείβων λεῦσσε in Eur., IA 145 (cfr. Greg. Naz., Carm. mor. 536, 4:

329

HO 36 1, 3, 4, 5, 6. Cfr. HO XXVIII 3; HO I 8. Per Παιάν del v. 1, segnalo il passo più vicino alla sostanza dell’invocazione iniziale dell’HO 36 Παιὰν ἔλθοι in Eur., Hipp. 1373.

330 HO 36 3, 4, 5, 6, 8; HO 35 1. Cfr. HO XII 2 per Physis. 331 Rudhardt 1991b, (I) p. 267.

332

Il nome Zagreus ha origini minoiche e indica il “cacciatore di selvaggina viva”. La più antica testimonianza letteraria, databile al VI sec. a.C., è un frammento del poema epico del ciclo tebano Alcmeonide (fr. 3, Kinkel I, p. 77; cfr. anche Euripide, fr. 472 e Callimaco, fr. 171) in cui viene invocato insieme a Gea come il più grande degli dei. E’ verosimile che il culto estatico di Dioniso-Zagrèus abbia assimilato gli elementi di enthousiasmòs dell’originario culto della Meter Oreia. A questa tradizione cultuale si era ispirato Euripide nel coro dell’Elena (vv. 1301-1365). Vd. Pugliese Carratelli 2001 e Festugière 1935, pp. 372-381.

333 Clem., Protr. II 18.1.2 = fr. 35 Kern. L’epiteto si trova nella produzione tragica riferito sempre a

Prometeo: Eur., Phoen. 1122; Soph., OC 56. Sul Βράγχιε del v. 7 la tradizione manoscritta non è concorde: rinvio per questo a Nisetich 2001, pp. 105, 127-9, che discute Call., frr. 194, 24-31; 229.

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νοῦς μερόπων τυθὸν λεύσσει σέλας), con l’attributo ἀπείριτον attestato solo, prima del I a.C., in Esiodo (Th., 878) e successivamente in Gregorio (Carm., 1273, 3). Allo stesso modo, l’impiego di ὄρφνη richiama la χθονὸς μέλαινα ὄρφνη in Eur., Herc. 46 (cfr.

Ion., 955; Rh. 69 e 587; Heracl., 857). Il solo uso di ἀναφαίνων nelle ultime sedi del

verso, che riflette la tendenza alla sostantivazione dell’iconografia tarda, è desunto da

Il., XX 411; il suo impiego resta identico in Gregorio (Carm., 1251, 3: ξυνὸν σέλας, ἣν

ἀναφαίνων; Carm., 1574, 11: μύθοιο θεμείλια πάντ ἀναφαίνων). Per la variazione degli ἀθέσφατα φῦλα nell’Hymn. Ap. in βιοθρέµµονα ϕῦλα del v. 19, bisogna presupporre una unicità del calco orfico, dal momento che l’unico precedente che valga la pena citare per affinità, ferma restando la diversità degli intenti comunicativi, è Aristoph.,

Nub. 570 αἰθέρα σεμνότατον βιοθρέμμονα πάντων.

Quanto alla seconda parte dell’Inno, essa si distingue per il suo contenuto tecnico, adattato nel contesto della preghiera in esametri tramite delle immagini desunte da passi platonici altrettanto metaforici nel descrivere la costruzione musicale della δικαιοσύνη della polis (Resp., 443d6: συναρμόσαντα τρία ὂντα, ὥσπερ ὃρους τρεῖς ἁρμονίας ἀτεχνῶς, νεάτης τε καί ὑπάτης καὶ μέσης).334

Il significato

dell’attributo χρυσολύρη al v. 3 si risolve così nel fotogramma di Apollo che accorda un

diapason (l’allusione del διάκοσµον al v. 18 credo sia voluta) col quale armonizza il

corso delle stagioni (πάντα…ἁρµόζεις, 16-17) attraverso il tocco ora della ὑπάτη, la corda più alta della lira e a cui corrisponde l’inverno, ora della νεάτη, quella più acuta, ovvero l’estate (ὁτὲ µὲν νεάτης… ἄλλοτε δ’ αὖθ’ ὑπάτης, 17-18): da qui si genera l’equilibrio cosmico, la primavera ovvero il tonos dorico (ποτὲ ∆ώριον εἰς διάκοσµον /πάντα πόλον κιρνὰς, 18-19).

Questi versi sarebbero stati oggetto di riflessioni nella scuola astronomica egiziana del III d.C. Non è da sottovalutare la portata storica della parafrasi di Claudio Tolomeo ai versi, indizio del fatto che lo stacco tra la prima parte e la seconda parte dell’Inno orfico si dovette percepire già in epoca imperiale. Non credo sia fortuita la negligenza dei commentatori tardo – antichi rispetto ai passi di teoria armonica in HO 8.9 a Helios e HO 11.6 a Pan, i due che insieme a HO 6 a Protogonos più sono vicini al nostro Hymn. Orph. 36.335

In conclusione, nell’Apollo dell’Hymn. Orph. 36 è riflessa la tendenza sincretistica dell’orfismo, che ha permesso l’elaborazione ufficiale di una

334 Hagel – Lynch 2015 (cfr. Aristot., Met. 1057a 22; Probl., 919b, 1 e 920, 29). 335

Sulla parafrasi del passo in Claudio Tolomeo, Salomon 1999, pp. 160-61; Barker 1989, pp. 386-87. West 1992, pp. 184-89; Van derBerg 2001, pp. 168-69.

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figura divina dai tratti di terribilità misti a quelli demiurgici della solarità, già presenti in Empedocle. I primi, presenti per la maggior parte anche nell’Hymn. Ap. omerico, sono quelli su cui più si insiste nella parte propriamente cletica dell’Hymn. Orph., come se ricordare le soppressioni precedenti a una fondazione potesse meglio garantire il riconoscimento di Apollo nella divinità invocata e, dunque, il suo intervento nella felicità dell’adepto. L’uso erratico dell’epiteto – ragione per cui parlo di “frontiera” nell’intitolare questo paragrafo – procede dunque in un unico senso: qualificare Apollo come protettore di realtà da lui stesso creato dopo atti di soppressione. Gli unici epiteti non riferiti all’atasthalia del dio sono quelli in cui è espressa l’attributo di onniscienza solare, che viene meglio spiegata nella seconda parte dell’Inno, più estesa della prima (10-25) e ricca di riferimenti alla teoria armonica peripatetica. Il lessico con cui si descrive Apollo all’atto di modulare un diapason – l’immagine in filigrana, a mio parere, dell’inno – è attinto dalla produzione tragica euripidea e dalla prosa platonica, passata direttamente ai Problemata aristotelici.

Seguirà nel prossimo capitolo lo schema dei relazioni dell’Hymn. Ap. con le fonti discusse sino ad ora, chiarendo quali tra queste sono in rapporto di certa dipendenza o interdipendenza e quali solo potenzialmente discendenti dalle singole parti dell’Hymn. Ap.

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