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Il Decreto Lavoro convertito in Legge 78/2014. Al via una parte del Job Act

Nel documento DEL LAVORO 2013 - 2014 RAPPORTO SUL MERCATO (pagine 142-145)

A maggio di quest’anno il Decreto legge sul lavoro è stato definitivamente convertito in legge (L. n. 78/2014). È stata così attuata una prima parte del piano di riforma del mercato del lavoro proposto dall’attuale governo e denominato Job Act.

La legge nella sua forma definitiva modifica la disciplina dei contratti a termine e dell’apprendistato, dopo gli irrigidimenti operati dalle legge Fornero e i primi correttivi varati dal precedente ministro Giovannini, e mira in sostanza ad aumentare la flessibilità in entrata per stimolare la creazione di nuova occupazione. Le nuove regole si applicheranno in ogni caso solo ai contratti stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto stesso.

Per quanto riguarda i contratti a termine si è intervenuti sull’acasualità del contratto che è stata portata da uno a tre anni, con la possibilità di rinnovare il contratto per 5 volte nell’arco dei tre anni. Fino ad oggi, dopo le modifiche apportate dalla legge 92 e dal decreto Giovannini, la possibilità per il datore di lavoro di non specificare le motivazioni tecniche-produttive-organizzative che lo portano ad apporre un termine al rapporto era infatti prevista per il solo primo contratto e aveva una durata massima di 12 mesi. Con la nuova disciplina questo termine si porta a 36 mesi, facendo così coincidere l’assenza di causale con la durata massima (tre anni) del contratto a temine. In questo modo viene nella sostanza liberalizzato l’accesso a questa forma contrattuale, ed eliminato l’elemento (la causale appunto) che era il principale motivo di contenzioso tra impresa e lavoratore. La legge ha cancellato anche gli intervalli di tempo che devono trascorrere tra un rinnovo e l’altro del contratto con lo stesso lavoratore, e che erano stati invece allungati dalla legge Fornero.

Per controbilanciare la flessibilità introdotta, si è poi posto un limite all’utilizzo del contratto a termine, ovvero i dipendenti a tempo determinato non potranno superare il 20 per cento dell’organico complessivo27 (corrispondente al numero di lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione); con una speciale menzione però per le aziende che occupano fino a 5 dipendenti che potranno comunque assumere un lavoratore a tempo determinato.

Nel caso in cui si superi tale soglia il legislatore ha previsto una sanzione economica a carico del datore di lavoro, che non incide sulla validità del termine apposto al contratto: la multa sarà pari al 20 per cento della retribuzione per il primo “sforamento”, ed aumenterà al 50 per cento per i casi successivi. Questo rappresenta una “rottura” rispetto a quanto previsto in precedenza, in quanto prima il rimedio per la stipulazione irregolare era costituito dalla conversione in contratto a tempo indeterminato.

Ciò che è rimasto in vigore rispetto al passato è invece la maggiorazione contributiva dell’1.4 per cento a carico delle imprese introdotta dalla Legge 92/2012: una misura che secondo alcuni commentatori aveva reso onerosa per le imprese l’attivazione di questo contratto, e che si auspicava potesse essere eliminata dato il difficile quadro economico e occupazionale.

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Relativamente all’apprendistato si è voluto puntare alla semplificazione e al potenziamento di questo contratto tramite una riduzione degli adempimenti, particolarmente complessi, che fino ad oggi ne hanno frenato l’utilizzo da parte delle imprese. Da quando la disciplina dell’apprendistato è stata completamente azzerata e riscritta (decreto legislativo 167/2011) si sono succeduti tre governi (Monti, Letta, Renzi) e ognuno ha apportato al decreto modifiche più o meno significative con l'obiettivo dichiarato, ma finora non raggiunto, di farlo diventare veramente la tipologia contrattuale attraverso la quale tutti i giovani entrano nel mondo del lavoro. Le ultime novità sono contenute nell'articolo 2 della legge n.78/2014. Il primo gruppo di modifiche riguarda la registrazione del contratto, per il quale resta l'obbligo della forma scritta del piano formativo individuale, ma in forma semplificata (con l’eventuale utilizzo di formulari e moduli predisposti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali). È stata poi ridotta la quota di stabilizzazione obbligatoria: mentre prima l’assunzione di nuovi apprendisti era condizionata alla conferma in servizio di almeno il 30 per cento degli apprendisti dipendenti giunti a fine contratto, con le nuove regole questa quota è scesa al 20 per cento ed è valida solo per i datori di lavoro con almeno 50 dipendenti28.

Con riferimento alla seconda tipologia di contratto di apprendistato, quello cosiddetto di mestiere o professionalizzante, maggiormente utilizzato dai datori di lavoro, la modifica apportata riguarda la formazione di base. Le nuove disposizioni subordinano l'obbligo della formazione a una comunicazione che la Regione dovrà fare al datore di lavoro entro 45 giorni dall'assunzione, proponendo le attività formative organizzate, compresa l'indicazione delle sedi e dei relativi calendari. Viene in pratica riproposta quella che era la regola vigente all'epoca del pacchetto Treu. In aggiunta, però, viene previsto che la Regione può «avvalersi» dei datori di lavoro o delle «associazioni», se «disponibili». Questa previsione dovrebbe intendersi nel senso che per garantire l'erogazione della formazione, la Regione che non dispone di propri mezzi può chiedere allo stesso datore di lavoro o alle associazioni di categoria a cui aderisce se sono disponibili a erogare direttamente i corsi di formazione.

C'è più di una modifica invece che riguarda il contratto di apprendistato di primo tipo, cioè quello per la qualifica e per il diploma professionale finalizzato al completamento dell'obbligo scolastico e disciplinato dall'articolo 3 del Testo Unico. Un primo intervento riguarda la retribuzione delle ore di formazione. Fino ad oggi la legislazione affermava chiaramente che nell'apprendistato le ore di formazione sono ore di lavoro e di conseguenza devono essere retribuite come tali. Va però tenuto conto che la regolamentazione regionale della formazione nella prima tipologia di apprendistato prevede un numero di ore che varia in media da 400 a 800 all'anno. Forse è per questo che finora i datori di lavoro, con la prospettiva di pagare tutte queste ore di mancata prestazione, non sono stati molto incentivati a stipulare questi contratti. Si giustificherebbe così la misura adottata e cioè che i contratti collettivi potranno rideterminare il trattamento economico del tempo di formazione, fermo restando che la

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Questo vuol dire che le aziende che soddisfano il requisito dimensionale dei 50 dipendenti, prima di stipulare un nuovo contratto di apprendistato dovranno verificare che almeno il 20 per cento dei contratti stipulati nei 36 mesi precedenti sia stato confermato e cioè sia proseguito come normale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Rimangono comunque salve le eventuali deroghe previste dalla contrattazione collettiva, che prevalgono sul nuovo limite legale.

retribuzione non potrà essere inferiore a quella corrispondente al 35 per cento del livello contrattuale di inquadramento.

Inoltre, per questa tipologia di apprendistato, così come per l'apprendistato professionalizzante, è stata introdotta la possibilità che i contratti collettivi prevedano, per lo svolgimento di attività stagionali, forme speciali di utilizzo dell'apprendistato, compreso quello a termine.

Questi in sostanza sono i punti cardine della riforma Poletti, per la quale è prevista anche una fase di monitoraggio: a distanza di un anno il Ministero del Lavoro dovrà infatti presentare una relazione al Parlamento sugli effetti delle nuove norme su contratti a termine e apprendistato che servirà per una valutazione complessiva.

Il dibattito sul Decreto si è soffermato soprattutto sul “nuovo” contratto a termine (lungo e a-causale) evidenziando che, qualora questo venisse reso sistemico e duraturo, rischierebbe di diventare un’alternativa di assunzione normale e ordinaria al contratto a tempo indeterminato, secondo il discusso modello spagnolo; e in violazione delle norme e dei vincoli europei29.

A questo punto l’unico modo per ridare spazio alle assunzioni a tempo indeterminato sarebbe quello di rendere anche questa forma di contratto molto più flessibile, magari attraverso l’istituzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Occorrerebbe cioè concentrare i maggiori sforzi progettuali sul cantiere aperto del contratto di inserimento che dovrebbe rappresentare il fulcro della riforma del lavoro prevista nel 2015, quando si dovrebbe tradurre in legge la delega contenuta nel disegno di legge approvato dal governo a marzo 201430. Secondo le diverse proposte in campo, si tratta di un contratto che – sin dalla sua origine – si profila come di lavoro a tempo indeterminato; durante il primo anno esso sarebbe assolutamente libero da vincoli di recesso (salva l’ipotesi estrema del licenziamento discriminatorio), ma anche non sostenuto da incentivi di sorta. Superato il primo anno subentrerebbero alcuni vincoli soft (un firing cost minimo per il licenziamento economico), insieme ad alcuni incentivi economici promozionali, mirati a sollecitare il consolidamento del reciproco affidamento; così pure al terzo anno, ma in maniera crescente (sia in termini di tutele che di incentivi); oltre il terzo anno si passerebbe invece all’applicazione integrale delle tutele normali di un contratto standard e all’erogazione, per una certa durata, di un

bonus occupazionale finale a vantaggio del datore che prosegua il rapporto oltre la

soglia temporale massima triennale.

Tanto più la riforma del contratto standard sarà quindi in grado di “assorbire” il sovraccarico funzionale (in termini di stimolo occupazionale) che la legge 78/2014 finisce per attribuire al contratto a termine, tanto più si sdrammatizzerà l’impatto della legge di cui oggi si discute (in termini di maggiore precarizzazione del lavoro).

29

Ci si riferisce in particolare alla normativa comunitaria che vieta le reiterazioni dei contratti a termine (Dl. 368/2001).

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Disegno di Legge “Delega al governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità e alla conciliazione”.

2.3 La tutela dei disoccupati in Italia

Un altro versante importante delle politiche del lavoro è relativo al grado di tutela di cui godono i lavoratori disoccupati. Nel corso degli ultimi anni a seguito della grave crisi dell’economia si è registrato un notevole aumento delle interruzioni dei rapporti di lavoro da parte delle imprese; le conseguenze di carattere sociale della crisi si sono quindi prodotte soprattutto a seguito dell’aumento delle persone senza lavoro.

Il legame tra il grado di protezione dell’impiego e la spesa per

Nel documento DEL LAVORO 2013 - 2014 RAPPORTO SUL MERCATO (pagine 142-145)