Univocità del concetto di ente: le collationes 4,
2.1 Il dibattito medioevale su analogia / univocità
2.1.1 Introduzione
Il tema della collatio 4 è l’univocità del concetto di ente505, quello della collatio 12 la possibilità di una conoscenza naturale di Dio506. Il dibattito presente nella q. 12 rimanda chiaramente a quello presente nella q. 4, includendo peraltro una parte molto ampia in cui l’univocità è fatta esplicito oggetto di discussione tra gli interlocutori. Ai fini di una migliore comprensione dei dibatti presenti nelle questioni, ho deciso di premettere due sezioni di introduzione storico-filosofica che vanno ad approfondire, la prima, il problema dell’univocità, con particolare riferimento al pensiero di Enrico di Gand, Giovanni Duns Scoto, Riccardo di Conington e del dibattito sul tema nel primo scotismo; la seconda, l’applicazione del modello epistemologico aristotelico esposto negli Analitici Secondi alla questione della possibilità di una conoscenza naturale di Dio, prendendo in considerazione specialmente Enrico di Gand e Giovanni Duns Scoto.
Equivocità, analogia, univocità del concetto di ente:
Nel primo capitolo delle Categorie Aristotele pone una fondamentale distinzione tra termini omonimi, sinonimi e paronimi. Un termine si dice omonimo quando è riferito ad oggetti che hanno in comune solo il nome, avendo invece definizioni differenti. ‘Cane’, ad esempio, è un termine equivoco se riferito alla costellazione celeste e all’animale: nonostante, infatti, queste due cose siano indicate tramite lo stesso nome ‘cane’, le loro definizioni non coincidono. Un termine si dice invece
505Cf. Coll. ox., q. 4, n. 1, p. 35, l. 3: «Utrum conceptus entis sit simpliciter univocus deo et creature».
506Cf. Coll. ox., q. 12, n. 1, p. 149, ll. 4-5: «Utrum per naturalem investigationem de deo possumus cognoscere quod quid
sinonimo quando è riferito a cose che hanno definizioni comuni e sono designate con il medesimo nome. ‘Animale’, ad esempio, è un termine sinonimo se riferito all’uomo e al bue: sia l’uomo sia il bue sono infatti animali, dato che la definizione di ‘animale’ fa parte dei loro discorsi definitori. Infine, si dicono paronimi quei termini che traggono la loro definizione da un altro termine, costituendone una «flessione». ‘Grammatico’, ad esempio, è un termine paronimo in quanto trae la propria definizione da ‘grammatica’, di cui costituisce una flessione507.
Come noto, nella riflessione medioevale al concetto di omonimia venne associato quello di equivocità, mentre al concetto di sinonimia venne associato quello di univocità, con significato pressoché identico. Più complessa è invece l’evoluzione che portò il concetto di paronimia ad essere reso con quello di analogia: in questo caso, il concetto di analogia è molto più un’invenzione medioevale che non una fedele trasposizione della paronimia aristotelica508.
Nel Medioevo, la dottrina logica della predicazione viene ad assumere una particolare rilevanza, specialmente in quanto applicata al concetto di ente in rapporto a Dio e alla creatura. Celeberrimo è il passaggio di Esodo, 3, 14 in cui Dio afferma: «Io sono colui che sono» («Ego sum qui sum» nella versione della Vulgata). Ora, il termine ‘essere’ che Dio riferisce a se stesso andrà inteso in modo univoco, equivoco o analogo rispetto all’essere creaturale? Attorno a questa interrogazione filosofica e teologica si animerà il variegato dibattito medioevale, che, per ragioni di spazio, non andremo ad investigare nel suo insieme, limitandoci a prendere in considerazione le risposte proposte da Enrico di Gand, Giovanni Duns Scoto, Riccardo di Conington e nello scotismo di inizio XIV secolo, in quanto si tratta delle dottrine più contigue e che, dunque, meglio ci fanno comprendere il dibattito presente nelle Collationes oxonienses.
507Cf. Arist., Cat., 1, 1a 1-15: «Omonini si dicono quegli oggetti, che possiedono in comune il nome soltanto, mentre
hanno differenti discorsi definitorî, applicati a tale nome. Ad esempio, sia l’uomo che un certo oggetto disegnato si dicono animali. In realtà, il nome soltanto è comune a questi oggetti, ma il discorso definitorio che si applica a tale nome è
differente nei due casi; se qualcuno, infatti, deve spiegare che cos’è per ciascuno dei due oggetti l’essere un animale, stabilirà per ciascuno dei due un discorso definitorio proprio. D’altro canto, si dicono sinonimi quegli oggetti, che hanno tanto il nome in comune quanto il medesimo discorso definitorio. Ad esempio, sia l’uomo che il bue si dicono animali. In realtà, l’uomo e il bue vengono designati con il comune nome di animale, ed inoltre il loro discorso definitorio è lo stesso; se qualcuno, infatti, deve definire che cos’è per ciascuno di questi due oggetti l’essere un animale, fornirà il
medesimo discorso definitorio. Paronimi, infine, sono sono quegli oggetti, che traggono la loro designazione da un certo nome, costituendone così le differenti flessioni. Ad esempio, il grammatico trae la sua designazione dalla grammatica, ed il coraggioso dal coraggio».
508Sulla ‘invenzione’ medioevale dell’analogia, cf. in particolare J.-F. Courtine, Inventio analogiae. Métaphysique et
2.1.2 Enrico di Gand
A proposito del tema della predicazione equivoca, analoga o univoca del concetto di ente rispetto a Dio e alla creatura, i frequenti riferimenti espliciti di Scoto, così come il consenso quasi unanime degli interpreti, ci permettono di poter affermare con una certa sicurezza che la dottrina scotiana dell’univocità esposta nelle opere principali nasce da un profondo dialogo, certamente critico, ma anche estremamente proficuo, con Enrico di Gand509.
Le questioni 4 e 12 delle Collationes oxonienses, che andremo ad analizzare, ci sembrano confermare come il principale riferimento critico per l’elaborazione dottrinale del Dottor Sottile sia proprio la soluzione enrichiana dell’analogia, così come presente nei testi dello stesso Enrico e così come rielaborata e rivista in ambiente francescano inglese. Infatti, nelle sopracitate questioni, che trattano dell’univocità e della possibilità di una conoscenza naturale di Dio, l’interlocutore che si oppone ed obbietta agli argomenti di matrice scotista appare chiaramente influenzato dalla impostazione enrichiana del problema, e fondamentalmente ripropone gli esiti della speculazione del Gandavense, anche se con qualche piccola modifica che ci sembra provenire da una rielaborazione dottrinale riferibile a calibrature differenti, caratteristiche di alcuni seguaci di Enrico. In particolare, cercheremo in seguito di mostrare come gli argomenti che troviamo nelle questioni sembrino particolarmente vicini, e quasi paralleli, rispetto alle dottrine di Riccardo di Conington.
Ad ogni modo, per mostrare la presenza e i termini di questo dibattito, ci sembra opportuno approfondire con più attenzione la posizione di Enrico, così come espressa nel luogo classico Summa, art. 21, q. 2 («Utrum Deus in esse communicet cum creaturis»), a cui vanno ad aggiungersi preziose ed interessanti notazioni nei successivi artt. 22, 23, 24; ed anche in Summa, art. 73, q. 4 («Utrum nomina significantia Deum et creaturam significant illos pure aequivoce»).
Secondo Enrico, Dio e la creatura rispetto al concetto di ente non sono termini né equivoci né univoci, bensì stanno tra loro in un rapporto intermedio tra questi due estremi, che può dirsi in senso proprio analogico510.
509Cf. T. Hoffmann, Henry of Ghent’s influence on John Duns Scotus’s metaphysics, in Wilson, A companion to Henry
of Ghent, pp. 341-351: 347: «Scotus might not have seen any urgency in developing a theory of univocal concepts that
are common to God and creatures if he had not been confronted with Henry’s solution».
510Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, f. 124r F: «Et ideo absolute dicendum quod esse non
est aliquid reale in quo Deus communicet cum creaturis, et ita si ens aut esse predicatur de Deo et creaturis, hoc est sola nominis communitate, nulla rei, et ita non univoce per definitionem univocorum, nec tamen pure aequivoce secundum definitionem aequivocorum casu, sed medio modo ut analogice».
Non può darsi una predicazione di tipo univoco, poiché, se, secondo la sentenza aristotelica, di sostanza e accidente non può essere predicato in maniera univoca il concetto di ente, a maggior ragione lo stesso concetto di ente non potrà predicarsi in modo univoco di due termini, come Dio e la creatura, che sono divisi tra loro da una distanza ben maggiore, e, anzi, infinita511. È infatti evidente come la distanza tra il creatore e la creatura non possa che essere infinitamente maggiore rispetto a quella tra due creature (sostanza e accidente). Sempre seguendo Aristotele512, anche per Enrico l’ente ‘si dice in molti modi’: in senso primario della sostanza, ed in senso secondario dell’accidente, che non è dunque propriamente un ens, ma piuttosto un quid entis, in quanto è detto ente solo in ordine alla sostanza513. Allo stesso modo, anche rispetto a Dio e alla creatura il termine ‘ente’ si predica principalmente di Dio e solo in modo derivato della creatura, con la differenza che, mentre gli accidenti vengono attribuiti alla sostanza come al soggetto cui ineriscono, le creature sono attribuite a Dio in quanto fine, da cui traggono il fatto di essere un bene; in quanto forma, da cui traggono l’esse essentiae; in quanto efficiente, da cui traggono l’esse existentiae514. In termini enrichiani, possiamo dire che il tipo di convenienza che sussiste tra Dio e la creatura non è fondato su di un rapporto di similitudine (convenientia similitudinis), ovvero su di un rapporto ugualitario di somiglianza come quello che vige tra Pietro e Giovanni rispetto al concetto di uomo, che di essi si predica quindi in modo univoco515. Piuttosto, il rapporto di convenienza tra Dio e la creatura si fonda sulla partecipazione della creatura rispetto al creatore, ovvero sull’imitazione, ed Enrico lo chiama dunque, secondo un’espressione che probabilmente trae da autori francescani, essendo in particolare
511Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, f. 124r F: «Et ideo absolute dicendum quod esse non
est aliquid reale in quo Deus communicet cum creaturis, et ita si ens aut esse predicatur de Deo et creaturis, hoc est sola nominis communitate, nulla rei, et ita non univoce per definitionem univocorum, nec tamen pure aequivoce secundum definitionem aequivocorum casu, sed medio modo ut analogice».
512Cf. Arist., Met., VII, 1, 1028a 10-13.
513Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, f. 124r I: «Sicut contingit in substantia et accidente,
in quibus ens primo et principaliter significat substantia, accidens vero quia ordinem habet ad et respectum ad substantiam. Et secundum hoc substantia dicitur ens primo, et accidens dicitur ens sub ordine ad substantiam, ita quod ens primo significat substantiam, et ex ordine quem habet accidens ad substantiam mutuat nomen entis a substantia, secundum quod dicitur VII Metaphysicae: “Ens dicitur multis modis et primum istorum est quod significat substantiam et alia dicuntur
entia quia sunt entis quod est huiusmodi”. Et IV eiusdem: “Ens dicitur multipliciter non aequivoce, sed omnes modi attribuuntur uni rei et uni naturae”».
514Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, ff. 124r I - 124v I: «Et secundum hunc modum ens
communissime dictum primo significat Deum, secundario creaturam, sicut ens creatum primo significat substantia, secundario accidens, sed alio et alio modo attributionis, quia alia entia attribuuntur substantiae ut uni subiecto, omnes vero creaturae attribuuntur Deo ut uni fini, et uni formae, et uni efficienti: ut fini, a quo perficiuntur quo ad bene esse; ut formae, a qua participant quod dicantur habere esse essentiae; ut efficienti, a quo habent quod eis conveniat simpliciter esse actualis exsistentiae».
515Enrico utilizza in senso sinonimico i termini ‘convenientia similitudinis’ e ‘convenientia univocationis’, cf. Henricus
de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, f. 124r G: «Ad cuius intellectum notandum quod convenientia rei ad rem maxime in forma attenditur, et hoc dupliciter secundum quod duplex est modus communicandi aliqua in forma: una secundum eandem rationem quae dicitur convenientia similitudinis, et est eorum qua una forma participant secundum rem, ut albedine duo alba, et humanitate duo homines, quae facit convenientia univocationis, qualis ut dictum est, non est Dei et creaturae in esse».
esplicitamente presente nella Summa Halensis516, ‘convenientia imitationis’. Questo tipo di rapporto è paragonabile a quello che intercorre tra la causa ed il causato517: nel nostro caso, come evidente, è il nome di ente applicato alla creatura ad essere mutuato dal significato proprio di ente, attribuito a Dio, in quanto Dio è l’essere stesso (ipsum esse)518. Enrico sembra dunque riluttante al dover ricorrere ad un concetto terzo, quello di ente, per ridurre ad unità i differenti concetti propri di Dio e di creatura, che piuttosto trovano unitarietà nella assoluta preminenza del concetto di creatore, che sussume e riduce in sé quello di creatura519. Questi due concetti si trovano dunque in un rapporto fondamentalmente binario, che esclude l’unità di un concetto terzo che funga da polo unificante della relazione, rapporto che viene indicato con il nome di ‘convenientia secundum imitationem formae ad formam’520.
Abbiamo visto in che senso viene utilizzato il termine ‘imitazione’; per ciò che concerne il termine ‘forma’, Enrico fa notare come tutti rapporti di convenienza tra due cose attengano principalmente alla forma propria delle due cose che costituiscono i termini della relazione, piuttosto che alla materia, e tende dunque ad indicare i termini semplicemente come ‘forme’521.
Inoltre, il rapporto tra Dio e la creatura rispetto al concetto di ente non è nemmeno equivoco, almeno non equivoco nel senso di quel tipo di equivocità che, secondo il lessico inaugurato da Boezio, viene denominata equivocità casuale (aequivocitas a casu522). Infatti, nonostante sia certamente vero che la comunità tra ente creaturale ed ente divino non è affatto reale, in quanto fondata solo sul fatto di essere chiamati con lo stesso nome ‘ente’523, questa apparente omonimia del tutto casuale si instaura,
516Cf. J. Decorte, Henry of Ghent on analogy: critical reflections on Jean Paulus’ interpretation, in Vanhamel, Henry of
Ghent. Proceedings of the international colloquium, Leuven University Press, Leuven 1996, pp. 71-105: 81: «Paulus
failed to notice a possible franciscan influence on Henry’s doctrine, at least on his terminology. Henry introduces the
formulations convenientia univocationis (or similitudinis) (univocity) and convenientia analogiae (or imitationis). These formulations are taken over, literall, from the Summa by Alexander of Hales».
517Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, f. 124r G: «Alia vero est convenientia in forma
secundum aliam et aliam rationem, quae dicitur convenientia imitationis et est universaliter in efficientibus et factis, causis et causatis».
518Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, f. 124r H: «Quare cum forma divina sit ipsum esse,
ut infra videbitur, a quo omnis creatura mutuat nomen essendi inquantum est causa eius, ut infra dicetur, necesse est dicere quod saltem in esse convenientia imitationis communicat creatura cum creatore».
519Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, f. 124v N: «Ad secundum, quod si Deus et creatura
sunt diversa in ente, reducitur multitudo illorum ad unitatem: dicendum quod verum est, non ad unitatem tertiam aliam ab illis multis, sicut procedit obiectum, nec est hoc semper necessarium, sed ad unitatem in altero illorum».
520Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, f. 124r H: «Necessario omnis creatura cum Deo
secundum formam aliquam habet convenientiam, saltem secundum imitationem formae ad formam».
521Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, f. 124r G: «Ad cuius intellectum notandum quod
convenientia rei ad rem maxime in forma attenditur».
522Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. LXXIII, q. 4, Badius 1520, I, f. 270r R: «Aut enim aliquam habitudinem habent
propter quam vox illis communiter imponitur, aut nulla. Si nullam, tunc est pura aequivocatio, et est illorum quae vocantur aequivoca casu, quibus idem nomen aeque primo et principaliter imponitur, ut duo viri sub hoc nomine Alexander».
523Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, f. 124r F: «[…] et ita si ens aut esse predicatur de
però, sulla base di un preciso rapporto di anteriorità/posteriorità (per prius et posterius), elemento che permette di piegare la pura equivocità verso l’analogia in senso proprio524. Se è vero che due termini si dicono equivoci se e solo se non hanno nessun tipo di rapporto tra loro a parte il fatto di essere chiamati con lo stesso nome, creatura e Dio non possono essere considerati termini equivoci, visto che tra essi sussiste un rapporto: Dio è la causa della creatura, essendo dunque ad essa anteriore. In fondo, nella prospettiva di Enrico, è proprio il disequilibrio ontologico tra Dio e la creatura a garantire l’analogia, in quanto sia l’univocità che l’equivocità presuppongono una predicazione egualitaria: nel caso dell’univocità, i termini in gioco sono allo stesso modo primi nel convenire in un’unica ragione comune; allo stesso modo, nel caso dell’equivocità, i termini sono ugualmente lontani da qualsiasi possibile ragione comune in cui convenire525.
L’analogia enrichiana ha come obbiettivo la riduzione della creatura a Dio526, che è l’unico termine della relazione cui conviene in senso proprio l’esse, che viene poi solo successivamente detto della creatura in modo derivato e secondario, «attraverso una certa attribuzione all’ente primo», sia dal punto di vista dell’esse essentiae che dell’esse existentiae. Mi sembra interessante notare come l’esposizione di questa dottrina sia funzionale, dal punto di vista teologico, alla chiosa del noto passaggio del Vangelo di Giovanni, in cui si afferma che «attraverso di Lui tutte le cose sono state create»527.
Enrico, così determinata la questione, mette in guardia, in Summa, art. 21, q. 2, da un inconveniente dovuto all’imperfezione della conoscenza umana in via, che potrebbe confondere ed ingannare l’intelletto rispetto all’evidenza dell’analogia. Il problema consiste in questo: la conclusione secondo cui l’essere si dice in senso primario di Dio ed in senso secondario e derivato della creatura sembrerebbe essere controintuitiva rispetto all’esperienza comune dell’uomo, che parrebbe invece giungere alla conoscenza dell’essere divino solo dopo e attraverso la conoscenza dell’essere creaturale. In altri termini, Enrico segnala qui una discrepanza tra ordine naturale della conoscenza umana e ordine reale delle cose stesse, problema simile a quello legato ad un’altra celebre ed altrettanto controintuitiva dottrina enrichiana, connessa con la dottrina dell’analogia, ovvero quella
524Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. LXXIII, q. 4, Badius 1520, I, f. 270r R: «Et vocatur talis aequivocatio quae est
in istis quatuor modis proprie analogia, quia nomen per prius et posterius dicitur de pluribus et per prius et posterius significat illa».
525Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, f. 124r H: «[…] nec tamen pure aequivoce, cum non
aeque et principaliter significant ambo significata sua, ut hoc nomen Aix Telamonium et Oilei filium […]».
526Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, f. 124v N: «Quicquid est in creatura per attributionem
quandam reducitur in Deum, ut dictum est. Et sic omnis entium multitudo reducitur ad unitatem primi entis, sicut omnis numerus reducitur ad unitatem primam a qua incipit et quam continet in se».
527Cf. Henricus de Gandavo, Summa, art. XXI, q. 2, Badius 1520, I, f. 124v K: «Quod enim non est effectus Dei vel
immediate vel mediantibus aliis causis, nullo modo exstit in actu, quia omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est nihil, ut dicitur Ioannis primo. Utrumque ergo esse convenit creaturae non nisi per aliquam attributionem ad ens primum».
secondo la quale Dio è il primo oggetto conosciuto dall’intelletto umano (primum cognitum). In questo senso, Enrico ammonisce a riguardo della necessità di porre particolare attenzione nell’utilizzo dei vocaboli che esprimono attributi di Dio e della creatura, come ad esempio finito/infinito: il comune uso convenzionalmente accettato di alcuni termini potrebbe far pensare ad una anteriorità, ad esempio, di ‘finito’ rispetto ad ‘infinito’, parola ottenuta tramite negazione del primo termine. In realtà, in questi casi la posteriorità della parola ‘infinito’ dal punto di vista della costruzione del vocabolo non corrisponde ad una posteriorità in re: l’ordine di imposizione del nome non necessariamente corrisponde all’ordine naturale. Tramite questa precisazione, si esclude dunque che il concetto di ente divino sia una proiezione del concetto che contingentemente è stato reperito per primo nell’ordine naturale della conoscenza umana, ovvero quello di ente creaturale. Piuttosto, all’inverso, l’analisi filosofica ci mostra come sia quest’ultimo ad essere una semplice imitazione del concetto primario per natura, quello di ente divino528.