La collatio 17, una tra le più lunghe ed articolate dell’intero corpus questionativo delle Collationes oxonienses, è certamente tra quelle che più hanno suscitato l’interesse della critica, specialmente in tempi recenti. Il testo è infatti già stato fatto oggetto di uno studio specifico in corso di stampa da parte di Richard Cross, oltre che essere stato brevemente discusso in un capitolo della monografia di Dominique Demange sulla gnoseologia di Scoto dal titolo La théorie du savoir. Due interpretazioni che possono essere considerate come in qualche modo paradigmatiche di due possibili chiavi di lettura, che esploreremo entrambe prima di tentare una nostra e diversa ricostruzione del senso e dell’attribuibilità della questione stessa.
Demange, in linea con una consolidata tradizione interpretativa, assume la paternità scotiana delle Collationes oxonienses, e dunque anche della collatio 17. In base a questo presupposto, in realtà
480Coll. ox., q. 17, n. 60, pp. 243-244, ll. 353-364: «Solutio. Sicut materia non est ens extra intellectum, circumscripta
omni forma - forma tamen, que disparata a materia quia non est materia, est quo formaliter materia est materia et quo habet esse in re extra, quia de se non est materia extra -, similiter substantia de se non habet partem et partem substantialem. Quantitas tamen est quedam forma disparata a substantia, sicut respectus ab absoluto, <sed> est quo formaliter substantia habet partes de genere substantie; sic respectus est quo aliquitas est rata et absoluta. Unde, si esse differt realiter ab essentia, essentia, ut nudata ab esse, nullum esse habet extra de se; tamen esse recipitur in essentia, et secundum illos est primus actus quo essentia est essentia extra; sic formalitas respectiva est illud quo aliquitas, que de se non est absoluta, sit absoluta».
481Cf. Coll. ox., q. 17, n. 61, p. 244, ll. 365-369: «Ad illud Philosophi, dico quod hec est falsa: “creatura est tantum ‘ad
aliquid’ et non est aliquid preter ‘ad aliquid’”. In omni enim creatura est aliquid preter ‘ad aliquid’, tamen est tale per
respectum ut per esse. Unde, cum in omni creatura est ‘quod est’ et ‘quo est’, in omni creatura est aliquid preter ‘ad
acriticamente accettato e non discusso, dal suo punto di vista il testo della questione è «assolutamente rimarchevole», in quanto testimonia una sorprendente appropriazione da parte di Scoto del lessico filosofico enrichiano dell’aliquitas, che tuttavia risulta modificato nel suo senso metafisico grazie ad un sottile slittamento di significato del termine, che viene trasportato «dall’ordine dell’essenza, in cui l’aveva situato Enrico, all’ordine di ciò che è significabile in generale»482. Secondo Demange, la posizione che sostiene la composizione dell’essenza esistente in aliquitas e ratitudo è genuinamente scotiana, e non va attribuita nemmeno ad un suo seguace, ma allo stesso Scoto. Perciò, la dottrina dell’aliquitas andrebbe letta come dottrina perfettamente coerente rispetto all’insegnamento gnoseologico del maestro scozzese, che introduce in vari passaggi della sua opera, sia oxoniense che parigina, una chiara distinzione tra essere intelligibile ed essere significabile: l’esempio del vuoto come significabile non intelligibile è in particolare presente nel testo del Commento alla Metafisica483, ed è in questo spazio di significabilità senza intelligibilità, accettato e difeso da Scoto, che si muoverebbe l’aliquitas.
Che l’interpretazione di Demange non sia corretta credo lo si possa dimostrare da due prospettive: la prima, concerne la struttura ed il senso della questione nel suo complesso; la seconda, riguarda l’argomentazione teorica svolta per difendere la coerenza della dottrina dell’aliquitas nei confronti di altri testi scotiani. Dal primo punto di vista, non si può non notare come l’opinione difesa nella questione sia perfettamente corrispondente a quella che Scoto critica duramente nella Lectura e nell’Ordinatio. In particolare, ci sembra francamente impossibile che Scoto abbia confutato uno ad uno i propri argomenti forniti contro l’opinione in queste opere: in questo caso, la collatio 17 dovrebbe essere considerata un testo successivo all’Ordinatio in cui l’autore mette in campo una radicale palinodia sconfessando tutto ciò che aveva detto sull’argomento, non velatamente attraverso un cambio di impostazione filosofica, ma prendendo in blocco ciò che aveva scritto precedentemente e mostrandone apertamente la contraddittorietà. Sarebbe un procedimento forse inedito nell’intera storia della filosofia quello di una ritrattazione totale e senza scusanti, una sorta di pubblica ammissione di aver sbagliato tutto, il che appare come una eventualità molto improbabile.
Da un punto di vista teorico, invece, mi sembra sia importante sottolineare la natura metafisica, e non gnoseologica, della discussione presente nella questione. Contrariamente a quanto Demange nota a
482D. Demange, La théorie du savoir, Vrin, Paris 2007, p. 179: «Il existe toutefois un texte remarquable où Duns Scot
concède un certain statut à l’aliquitas telle qu’elle avait été définie par Henri. Il nous est expliqué que, contrairement à ce que soutient Henri, l’aliquitas ne renvoie pas à la catégorie de l’être intelligible (puisque la chimère n’est pas intelligible), mais à la catégorie du signifiable (esse significabile per nomen). C’est en ce sens que l’on peut dire que nous pouvons
signifier le néant, même si nous ne pouvons pas l’intelliger. Texte absolument remarquable en effet, puisq’il se fonde sur
la conception avicenniene de la natura (“aliquitas est tantum aliquitas”) pour la transposer, de l’ordre de l’essence où l’avait située Hneri, à l’ordre du signifiable en général».
proposito della coerenza tra la dottrina gnoseologica di Scoto e la dottrina dell’aliquitas, nella questione sono proprio gli argomenti riportabili ad una posizione di matrice scotiana a contestare la possibilità che l’aliquitas sia descrivibile come un significabile non intelligibile. Anche se per Scoto nelle sue opere principali si dà effettivamente la possibilità della tematizzazione come puro significato non intelligibile di oggetti come il vuoto o gli animali mitologici, non può essere questo il caso dell’aliquitas, che, nella prospettiva scotiana, sarebbe qualcosa capace di determinare l’appartenenza a genere e specie della cosa. Se fosse effettivamente plausibile qualcosa come l’aliquitas (e Scoto rifiuta senza ambiguità di credere che l’aliquitas sia un concetto metafisico plausibile), allora essa dovrebbe essere un oggetto intelligibile, altrimenti non potrebbe aver alcun ruolo in alcuna composizione metafisica, né con la ratitudine, né con altro.
Cross, riprendendo l’ipotesi di Alliney (2005) che aveva messo in dubbio l’attribuzione a Scoto delle questioni 18-23, consapevole dei problemi apparentemente insormontabili che pone la presunta autoconfutazione presente nella sezione ad argumenta, e consapevole anche in generale della non conciliabilità tra la dottrina di Scoto come esposta nelle opere principali e l’opinione sostenuta nella questione, ha invece sostenuto la necessità di aggiungere anche la collatio 17 al blocco di questioni non autentiche. Facendo propria la datazione proposta da Dumont (1996), le Collationes sarebbero per Cross la registrazione di dispute tenutesi presso il convento francescano di Oxford tra il 1305 e il 1307, alcune delle quali, compresa la 17, sarebbero state condotte da Riccardo di Conington484. L’interlocutore che difende ed argomenta l’opinione iniziale sarebbe così identificabile con Conington, mentre l’opponens sosterebbe una posizione riconducibile a quella di Scoto, pur essendo dubbia l’effettiva partecipazione dello stesso Scoto alla discussione. A questo proposito, Cross adduce infatti una valutazione personale, legata alla scarsa qualità filosofica dell’argomentazione dell’interlocutore ‘scotiano’, che potrebbe forse far pensare più facilmente ad uno studente confratello e seguace di Scoto, che cerca di far proprie e ripetere le dottrine scotiane, pur senza possederne l’acutezza e l’ingegno. Una valutazione negativa, che, peraltro, Cross estende alla questione nella sua
484 Cf. Cross, Richard of Conington, Scotus’s Collationes oxonienses, and the ontological status of impossibilia,
forthcoming: «The view the Scotus describes and rejects in the Lectura and Ordinatio – the view that is defended in the collatio – is one apparently accepted by Scotus’s fellow Franciscan, Richard of Conington, an early defender of Henry of Ghent. In fact, the Collationes oxonienses seem to be associated with Conington in various ways. Stephen D. Dumont has shown that Collatio oxoniensis 14 systematically responds to a view on the doctrine of the Trinity proposed, in defence of Henry of Ghent, by Conington, in his Quodlibetal Questions. Guido Alliney has demonstrated that Collationes oxonienses 18 to 23 – which notoriously reject Scotus’s views on the will – should be attributed to Conington. The collationes are records of disputations held in the Franciscan house at Oxford at a time when Scotus was apparently present – probably sometime between 1305 and 1307 – so there seems to be good reason to believe that Conington was a key disputant and that, in at least some of the collationes, Scotus was the opponent. Indeed, as we shall see, the opponent in Collatio oxoniensis 17 repeats Scotus’s earlier arguments (in the Ordinatio) against Conington. So it seems reasonable to suppose that Collatio oxoniensis 17 is one such disputation. And if so, we should extend the sequence of collationes attributed to Conington to include not merely Collationes 18 to 23, but also Collatio 17 too».
interezza, considerata in particolare la maniera sbrigativa e poco circostanziata in cui si forniscono soluzioni a problemi cruciali e complessi come quello dello statuto dell’impossibilità485.
Dal punto di vista del contenuto filosofico dell’argomentazione, la questione rappresenterebbe la «più estesa esposizione» giunta fino a noi della dottrina di Conington486, la quale è certamente influenzata da quella enrichiana487, ma se ne distinguerebbe per una diversa considerazione dell’essenza creaturale in rapporto alla relazione verso Dio.
Secondo Cross, infatti, Enrico di Gand sosterrebbe una coincidenza assoluta tra creatura e relazione a Dio: le essenze creaturali non sarebbero null’altro che relazioni, in quanto l’essere dell’essenza che le costituisce non è se non la relazione rispetto all’intelletto divino in quanto causa esemplare, e contenuto essenziale ed essere dell’essenza sono distinte in base ad una mera distinzione di ragione488. Perciò, coincidendo contenuto essenziale ed essere dell’essenza come coincidono ‘uomo’ ed ‘animale razionale’, ed essendo l’essere dell’essenza una pura relazione a Dio, l’essenza stessa non sarebbe altro che relazione. Cross indica questa dottrina metafisica come teoria della «ungrounded, free- floating relation»489.
Conington propenderebbe invece per conferire una certa consistenza ontologica alla creatura indipendentemente dalla relazione: proprio in questo consisterebbe il senso metafisico ultimo della dottrina dell’aliquitas esposta nella questione. L’aliquitas sarebbe così il fondamento della relazione verso Dio, relazione attraverso la quale la stessa aliquitas riceve l’essere dell’essenza, divenendo grazie a ciò una res rata490.
485 Cf. Cross, Richard of Conington, Scotus’s Collationes oxonienses, and the ontological status of impossibilia,
forthcoming: «From a purely subjective viewpoint (for what it is worth), I would add that the text exhibits little of the meticulous attention to philosophical technique that is so conspicuous in Scotus. Key theories are undermotivated; positions are not very fully worked out; there are confusions that it would be hard to credit Scotus with; and (at least on anything other than a very charitable reading) the proposed solution to a central problem (reference to the impossible) amounts to little more than to giving the issue a label».
486Cross, Richard of Conington, Scotus’s Collationes oxonienses, and the ontological status of impossibilia, forthcoming:
«At any rate, I treat the text as providing a defence of Conington’s view – and, indeed, by far the fullest account we have
of it».
487 Cf. Cross, Richard of Conington, Scotus’s Collationes oxonienses, and the ontological status of impossibilia,
forthcoming: «In many ways, the text moves more in the ambit of Henry of Ghent than of any other thinker».
488 Cf. Cross, Richard of Conington, Scotus’s Collationes oxonienses, and the ontological status of impossibilia,
forthcoming: «Now, Henry holds that there is a merely rational distinction between an essence and its esse essentiae».
489Cross, Richard of Conington, Scotus’s Collationes oxonienses, and the ontological status of impossibilia, forthcoming:
«If an essence is just “its participated esse, formally”, then it seems that a creaturely essence is an ungrounded, free- floating, relation».
490 Cf. Cross, Richard of Conington, Scotus’s Collationes oxonienses, and the ontological status of impossibilia,
forthcoming: «Conington uses the notion of aliquitas, but in a slightly different way. As he sees it, we do not merely need something to ground esse existentiae; we need something to ground esse essentiae too. And aliquitas is what performs this latter role. Thus, in answer to the question about the vestigium Trinitatis, Conington (as reported by Scotus) reasons that the vestigium consists in the relation to God as formal cause – i.e. in ratitudo – and that aliquitas is the ground of that relation».
A nostro avviso, Cross coglie nel segno quando afferma che la questione non è attribuibile a Scoto. Tuttavia, ci sembrano necessarie alcune precisazioni. Innanzitutto, a proposito della lettura offerta circa la distanza tra la dottrina di Enrico e quella difesa nella questione, l’interpretazione proposta non ci sembra del tutto centrata. Affermare sic et simpliciter che la distinzione di ragione tra contenuto essenziale ed essere dell’essenza è la teoria che esclusivamente ed univocamente Enrico sostiene ci sembra una precomprensione che non tiene conto di tutte le sfumature del pensiero del teologo fiammingo. Cross basa la propria interpretazione sul testo giovanile della nona questione del Quodlibet I, dove viene effettivamente sostenuta una distinzione di ragione tra contenuto essenziale ed essere dell’essenza:
Se parliamo del primo essere della creatura, esso differisce solo per ragione rispetto all’essenza della creatura, né può da essa essere separato, poiché non lo ha da altro in modo effettivo, ma solo formalmente491.
Tuttavia, come visto già in precedenza, il testo di Quodlibet I è solo il primo di una serie di interventi enrichiani sul tema, tutti sorti da un serrato confronto con le posizioni di Egidio Romano492. In fasi successive di questo dialogo critico, Enrico ricalibrerà alcune sue argomentazioni, tra cui anche la propria posizione a riguardo della distinzione tra contenuto essenziale ed essere dell’essenza. La testimonianza più autorevole in questo senso ci viene fornita dalla questione settima del Quodlibet X:
[…] nonostante la cosa, ovvero l’essenza della creatura, abbia l’essere dell’essenza e l’essere qualcosa
attraverso l’essenza dallo stesso secondo la cosa, tra di loro tuttavia differiscono per intenzione, allo
stesso modo in cui ‘animale’ e ‘razionale’ differiscono per intenzione tra di loro493.
Infine, nel terzo ed ultimo intervento sul tema, rintracciabile in Quodlibet XI, Enrico tornerà alla posizione originaria sostenuta in Quodlibet I:
[…] E nemmeno è necessario concepire questo essere come una cosa assoluta altra rispetto alla stessa essenza: piuttosto, è il contrario per l’essere dell’essenza, che differisce da essa solo per ragione494.
491Henricus de Gandavo, Quodlibet, I, q. 9, OpOm, V, p. 55: «Si loquamur de primo esse creaturae, illud sola ratione
differt ab essentia creaturae, nec potest ei abesse, quia non habet illud ab alio effective sed solum formaliter».
492Cf. supra, pp. 59-75.
493Henricus de Gandavo, Quodlibet, X, q. 7, OpOm, XIV, p. 169: «[…] licet res sive essentia creaturae ab eodem
secundum rem habet esse essentiae et esse aliquid per essentiam, inter se tamen differunt intentione, quemadmodum animal et rationale inter se differunt intentione».
494Henricus de Gandavo, Quodlibet, XI, q. 3, Badius 1518, f. 447r L: «Nec hoc esse oportet intelligere ut rem aliam
Quello che ci interessa notare qui è che a partire dagli scritti di Enrico sono possibili almeno due interpretazioni della distinzione tra contenuto essenziale ed essere dell’essenza: la prima, li vede come del tutto coincidenti, e distinguibili solamente secondo ragione, allo stesso modo in cui posso distinguere ‘uomo’ ed ‘animale razionale’; la seconda, li vede invece come fondati in una medesima cosa, ma allo stesso tempo capaci di dar luogo a concetti diversi, come ‘animale’ e ‘razionale’. Al contrario di altre opzioni che nella posizione di Enrico sull’essenza rimangono salde, come la distinzione intenzionale tra essenza ed esistenza, su questo particolare punto l’oscillazione dottrinale, rimanendo alla lettera dei testi, rimane inconciliabile. Per questo motivo, ci sembra necessario problematizzare l’interpretazione di Cross: è lecito pensare ad uno sviluppo possibile della dottrina di Enrico nel senso di una valorizzazione della distinzione intenzionale tra contenuto essenziale ed essere dell’essenza. Se accettiamo questa ipotesi, fondata, come visto, su almeno un testo (Quodlibet, X, q. 7), dobbiamo conseguentemente abbandonare l’interpretazione della free-floating relation: l’essenza, in questo caso, non coinciderebbe affatto completamente con il proprio essere, ma risulterebbe da una composizione intenzionale tra il proprio contenuto essenziale puro e l’essere dell’essenza – che è di fatto l’opinione sostenuta nella collatio 17.
Ad ogni modo, l’esiguità delle testimonianze dirette ed indirette su Riccardo di Conington non ci sembrano sufficienti a stabilire con un adeguato livello di certezza quale sia effettivamente stata la sua opinione in merito. Tuttavia, sappiamo che egli fu fortemente influenzato dalla filosofia di Enrico. Sappiamo anche che Riccardo venne presentato nel 1300 insieme a Giovanni Duns Scoto, Roberto di Cowton e altri diciannove frati francescani al vescovo di Lincoln per ottenere la licenza ad ascoltare le confessioni. Infine, sappiamo che studiò a Oxford, dove ottenne il titolo di magister theologiae nel 1305495. Anche se tutto ciò non sembra forse sufficiente a portare ad una attribuzione totalmente sicura, Conington ci appare come il migliore fra i candidati per tentare di ipotizzare una possibile paternità dell’opinione difesa nella questione.
Sempre a proposito dell’interpretazione di Cross, ci sembra meritevole di commento la sua valutazione circa la scarsa qualità argomentativa dell’intera questione. Questa notazione ci trova in parte concordi: in effetti, l’esposizione risulta spesso brachilogica e non adeguatamente svolta. Eppure, il nucleo filosofico dell’opinione appare di estremo interesse: portando alle estreme conseguenze il metodo avicenniano dell’indifferenza, ed applicandolo nell’interiore della stessa essenza, viene mostrata la necessità, in base a questa impostazione, di distinguere l’essenza dall’essere non solo in quanto esistenza effettiva della cosa, ma anche in quanto essere cui la stessa
essenza in sé partecipa. Una conseguenza che si appalesa già in alcuni passaggi della filosofia di Enrico, ma che forse trova un compimento ancora più esplicito nella decisione e chiarezza con la quale nella questione si propone una netta distinzione tra aliquitas e ratitudine. Da questo punto di vista, il testo della collatio 17 non ha a nostro avviso nulla di qualitativamente scadente, ed è anzi una preziosa testimonianza di un’intuizione filosofica molto acuta.
Per spiegare questa apparente discrasia tra profondità del contenuto filosofico ed esiguità nello svolgimento delle argomentazioni, ci possono forse venire in soccorso due osservazioni. La prima, riguarda la datazione: al contrario dell’ipotesi di Dumont, accettata da Cross, che vede nelle Collationes un’opera databile tra 1305 e 1307, i curatori dell’edizione critica propendono per considerare l’opera come non successiva all’estate 1301, databile dunque negli anni del comune baccellierato a Oxford di Scoto e Conington496. Il fatto che la questione sia discussa da baccellieri o addirittura studenti, e non da maestri di teologia può forse rendere ragione di alcune imperfezioni nell’argomentazione.
In secondo luogo, va notato come le Collationes non furono mai riviste editorialmente dagli interlocutori che vi parteciparono, ma furono probabilmente registrate da un reportator che fornì con i suoi appunti il materiale per una ulteriore esercitazione che vide coinvolti gli studenti incaricati di «sviluppare versioni compiute e più ampie»497. Ora, in base all’esempio di altri testi copiati da reportator ─ come il ms. della Biblioteca Cattedrale di Worcester Q. 99 ─ e grazie agli studi prodotti nella letteratura secondaria498, sappiamo come le reportationes siano spesso frutto di un lavoro frettoloso e poco accurato499, al quale si aggiungono in questo caso le manipolazioni degli studenti che operarono modifiche su quegli appunti500. È chiaro che non possiamo aspettarci un testo ordinato