Nelle opere giovanili, Scoto difende con uniformità e coerenza una dottrina che vede nell’ente un concetto analogo per il metafisico ed equivoco per il logico. L’univocità viene qui negata in rapporto alla coppia sostanza/accidente e alle dieci categorie: qualità, quantità, e gli altri predicamenti dicono dieci significati di ‘ente’ completamente differenti e tra loro irreducibili, che solo accidentalmente e non in virtù di una identica ratio vengono indicati con lo stesso termine ‘ens’. Da un punto di vista semantico, al termine ‘ente’ non corrisponde un significato comune ad una molteplicità di cose, così come il termine ‘cane’ può indicare per una casuale omonimia l’animale e la costellazione celeste. Si tratta di quella che, nel lessico tecnico introdotto da Boezio, viene detta ‘equivocità casuale’
562T. Hoffmann, The Quaestiones de anima and the genesis of Duns Scotus’ doctrine of univocity of being, in R. Friedman
- J.-M. Counet (eds.), Medieval Perspectives on Aristotle’s De anima, Peeters, Louvain 2013, pp. 101-120: 102: «The account of univocity of being in the Quaestiones De anima is pivotal in comparison to earlier and later accounts».
563Cf. Ioannes Duns Scotus, Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis, IV, q. 1, OpPhil, III, pp. 295-320:
«Utrum ens dicatur univoce de omnibus».
564Cf. G. Pini, Univocity in Scotus’s Quaestiones super Metaphysicam: the solution to a riddle, «Medioevo», 30 (2005),
(aequivocitas a casu), o equivocità del primo tipo: l’accostamento dello stesso termine ai vari distinti significati è puramente fortuito, differentemente da quanto avviene nella equivocità a consilio.
Perciò bisogna dire che questo termine ‘ente’ è assolutamente equivoco rispetto alle dieci categorie secondo il primo modo di equivocità […]. Va tuttavia compreso come un termine che per il logico è
assolutamente equivoco, poiché indica molte cose tutte nello stesso modo ugualmente primario, è analogo per il metafisico o per il filosofo naturale, i quali non considerano il termine in quanto significa,
bensì le cose che sono significate secondo ciò che sono realmente […]. Perciò l’ente è considerato dal
metafisico, nei libri IV e VII della Metafisica, come analogo rispetto alla sostanza e all’accidente, poiché
quelle cose che sono significate hanno un ordine nell’esistenza; ma per il logico è semplicemente
equivoco, poiché, in quanto sono significate attraverso un termine, sono significate nello stesso modo ugualmente primario565.
L’analogia è valida da un punto di vista esclusivamente ontologico, in quanto è possibile stabilire un ordine, ovvero una priorità reale tra le cose: ad esempio, è possibile affermare che la sostanza gode di un’anteriorità ontologica rispetto all’accidente, che è appunto ciò che inerisce alla sostanza, ed è evidente come non potrebbe inerire a nulla che non fosse in qualche modo precedente rispetto ad essa. Ciò che invece Scoto nega con decisione, sulla scorta di una precisa tradizione inglese di commento ad Aristotele, già consolidata negli anni ’90 del secolo XIII, tendente ad adottare questa soluzione566, è qualsivoglia statuto logico-semantico all’analogia: nonostante le cose possano nella realtà essere in una relazione di antecedenza/posteriorità, non ha senso parlare, dal punto di vista logico-semantico, di predicazione per prius et posterius567. Il significato di accidente è altrettanto primario rispetto a quello di sostanza, come Scoto mostra discutendo e confutando i tre possibili modi di considerare l’analogia da un punto di vista logico568. Su questo punto la dottrina di Scoto rimarrà di fatto invariata
565Ioannes Duns Scotus, Quaestiones super Praedicamenta Aristotelis, q. 4, n. 37, OpPhil, II, p. 277: «Propter hoc
dicendum quod hoc nomen ens simpliciter est aequivocum primo modo aequivocationis ad haec decem genera […].
Intelligendum tamen quod vox, quae apud logicum simpliciter aequivoca est, quia scilicet aeque primo importat multa, apud metaphysicum vel naturalem, qui non considerant vocem in significando sed ea quae significantur secundum illud
quod sunt, est analoga […]. Ideo ‘ens’ a metaphysico in IV et VII Metaphysicae ponitur analogum ad substantiam et
accidens, quia scilicet haec quae significantur, in essendo habent ordinem; sed apud logicum est simpliciter aequivocum, quia in quantum significantur per vocem, aeque primo significantur».
566Cf. a questo proposito l’accurata ricognizione fatta da Silvia Donati di alcuni commenti alle opere di Aristotele prodotti
in ambiente inglese che adottano una soluzione simile a quella di Scoto nelle opere giovanili, S. Donati, La discussione
sull’unità del concetto di ente nella tradizione di commento della Fisica: commenti parigini degli anni 1270-1315, in M.
Pickavé (ed.), Die Logik des Transzendentalen. Festschrift für Jan A. Aertsen zum 65. Geburtstag, de Gruyter, Berlin 2003, pp. 60-139.
567Cf. Ioannes Duns Scotus, Quaestiones super Librum Elenchorum, q. 15, n. 21, OpPhil, I, p. 336: « […] non est possibile
vocem significare unum per prius et reliquum per posterius. […] Unde in re potest esse analogia, sed in voce significante
nulla cadit prioritas vel posterioritas».
568Cf. Ioannes Duns Scotus, Quaestiones super Praedicamenta Aristotelis, q. 4, nn. 27-29, OpPhil, II, pp. 280-281. Scoto
prende qui in considerazione tre possibili tipi di analogia. Il primo, consiste nel considerare un significato del termine analogo come primario, che viene applicato a vari analogati secondo una relazione di sinonimia, come, ad esempio, il
e costante durante tutta la sua vita: anche quando, nelle opere della maturità, tratterà della questione dell’analogia logica rispetto a Dio e alla creatura nella versione che abbiamo già analizzato di Enrico di Gand, egli terrà ferma questa opzione filosofica secondo cui non è praticabile la via dell’analogia di predicazione, difendendo, contro ciò che aveva affermato nelle opere giovanili, l’univocità logica, ed abbandonando dunque la soluzione dell’equivocità.
Se, dunque, per il metafisico, che considera direttamente la realtà, l’ente è analogo, per il logico il concetto di ente è equivoco. Nel discutere criticamente l’univocità logica, Scoto presenta in questi testi giovanili numerosi argomenti che difende come validi, alcuni dei quali corrispondono perfettamente a quelli che considererà come obiezioni alla propria tesi in Lectura ed Ordinatio, dove, però, provvederà a risolverli, superando tutti gli ostacoli teorici all’univocità.
1. Argomento di autorità tratto dalle Isagoge:
Contro l’univocità, viene fatta valere anzitutto l’autorità di Porfirio, il quale, nelle Isagoge, secondo la traduzione boeziana comunemente utilizzata, afferma: «si omnia quis entia vocet, aequivoce (inquit) nuncupabit, non univoce569». ‘Ente’ si dice in modo equivoco. Una sentenza autoritativa apparentemente molto chiara e poco interpretabile, ma nel dibattito su questo punto si andranno a confrontare differenti opinioni a proposito della questione se Porfirio stia qui parlando in quanto logico o in quanto metafisico. Abbiamo infatti visto come l’ente possa essere considerato in maniere differenti a seconda della prospettiva: per lo Scoto dei commenti alle opere logiche, ad esempio, è analogo per il metafisico ed equivoco per il logico. Per la notorietà larghissima del testo di Porfirio in tutti i secoli medioevali, questa obiezione è già largamente discussa nelle varie opere di commento alle opere logiche di Aristotele nel XIII secolo, è presente in tutti i testi di Scoto ed è ripresa, in particolare dal punto di vista del dibattito sulla prospettiva del discorso di Porfirio (logico? metafisico?), anche nel dibattito sull’univocità contemporaneo a Scoto, ad esempio da Roberto di Cowton570.
che può variare secondo un ordine. Il secondo, consiste nell’analogia per prius/per posterius: un significato primario può essere applicato in modo derivato e secondario ad un analogato, il cui significato è essenzialmente ordinato ed in una relazione di dipendenza rispetto al significato primario. Il terzo, consiste nella boeziana aequivocitas a consilio: uno stesso significato viene applicato a diverse cose secondo una qualche similitudine, e non in modo puramente casuale. Ad
esempio, il significato di ‘ridere’, che si riferisce in primo luogo ad un atto umano, può essere trasferito secondo una
qualche similitudine al verdeggiare dei prati, dicendo ‘prati ridenti’. Scoto confuta la validità di tutti e tre questi possibili tipi di analogia logica in Quaestiones super Praedicamenta Aristotelis, q. 4, nn. 30-36, OpPhil, II, pp. 282-284.
569Porphyrius, Isagoge, ed. A. Busse, Typiis et impensis Georgii Reimer, Berolini 1887 (Commentaria in Aristotelem
Graeca, IV1), p. 31.
570Cf. Ioannes Duns Scotus, Quaestiones super Praedicamenta Aristotelis, q. 4, n. 16, OpPhil, II, p. 277; Ioannes Duns
2. Se il concetto di ente fosse univoco, allora sarebbe uno dei predicabili, ma non è identificabile con nessuno di essi:
Se il concetto di ente fosse univoco, allora si predicherebbe univocamente alla maniera di un universale. Il concetto di ente, però, non sembra poter essere incluso in nessuno dei cinque predicabili indicati da Porfirio: genere, differenza, proprio, specie, accidente. Allora, o la lista dei predicabili è incompleta (sarebbero in realtà sei: ente, genere, differenza, proprio, specie e accidente), o la predicazione dell’ente coincide con la predicazione di uno dei cinque predicabili, oppure l’ente non è predicabile univocamente:
[…] tutte le nozioni univoche che si dicono di molte cose, si predicano di queste alla maniera di un universale, altrimenti quei cinque universali non dividerebbero in modo completo ciò che è ‘predicabile di molti’. Ma l’ente, se fosse univoco, non potrebbe essere predicato come una specie infima, poiché queste cose di cui si predica l’ente non sono individui; e nemmeno come una differenza, poiché non differenzia le cose di cui si predica (‘la differenza è ciò attraverso cui gli individui differiscono’); e
nemmeno come un proprio, né come un accidente, poiché l’ente è predicato ‘in quid’, secondo Aristotele, libro terzo della Metafisica, mentre questi due predicabili non si predicano ‘in quid’. Perciò,
se l’ente fosse univoco, sarebbe un genere rispetto a ciò di cui si predica571.
Appare, qui, a proposito della predicazione dell’accidente e del proprio, il tema della predicazione essenziale, o ‘in quid’, da cui viene distinta la predicazione denominativa, o ‘in quale’. Una predicazione viene definita ‘in quid’ (o univoca) quando il predicato è incluso come un quid, ovvero come una parte soggettiva, nella ragione essenziale di ciò di cui si predica. Ad esempio, il predicato univoco ‘animale’ è predicato ‘in quid’ della specie ‘uomo’, poiché ‘uomo’ è essenzialmente un animale. La predicazione viene invece definita ‘in quale’ (o denominativa) quando il predicato non è incluso essenzialmente nel soggetto. Nel nostro esempio, ‘animale’ si predicherà ‘in quale’ di
secundum et tertium De anima, q. 21, n. 29, OpPhil, V, p. 220; Ioannes Duns Scotus, Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis, IV, q. 1, n. 17, OpPhil, III, p. 298; cf. Duns Scotus, Ordinatio, I, d. 3, p. 1, q. 3, nn. 152-155, Vat., III, pp. 94-95; cf. Robertus de Cowton, In I Sententiarum, Prologus, q. 4, ed. Brown, p. 10. L’obiezione è presente anche nelle Collationes oxonienses, cf. Coll. Ox., q. 4, n. 3, p. 36, ll. 11-17.
571 Ioannes Duns Scotus, Quaestiones super Praedicamenta Aristotelis, q. 4, n. 18, OpPhil, II, p. 277: «[…] omne
univocum dictum de multis, dicitur de illis sub ratione alicuius universalis; aliter illa quinque universalia non sufficienter
dividerent ‘predicabile de multis’. Sed ens, si esset univocum, non posset dici sub ratione speciei specialissimae, quia haec non sunt singularia; nec sub ratione differentiae, quia nullum istorum distinguit (“differentia est qua differunt a se singula”); nec proprii nec accidentis, quia ens praedicatur ‘in quid’, per Aristotelem IV Metaphysicae; haec duo non.
Igitur si sit univocum, erit genus respectu illorum. Ex hoc non tantum sequitur inconveniens suppositum, scilicet quod haec non sunt genera prima, sed est contra Aristotelem III Metaphysicae, quia ens est de intellectu cuiuslibet, et genus non est de intellectu differentiae».
razionale, in quanto il predicato non indica qualcosa di essenziale rispetto al soggetto di cui si predica. Infatti, la ragione del genere (‘animale’) non può mai essere inclusa nella ragione della differenza (‘razionale’), altrimenti non potrebbe contrarsi nella specie. Per tornare alla citazione di Scoto, l’accidente ed il proprio si predicano ‘in quale’, e non ‘in quid’, poiché esprimono determinazioni estrinseche, non incluse essenzialmente nella ragione del soggetto. Un accidente come ‘bianco’, ad esempio, non essendo parte della definizione di ‘uomo’, non è incluso nella ragione essenziale di ciò di cui si predica, esprimendo una qualità del soggetto, e non una parte soggettiva. Allo stesso modo, anche ciò che è proprio dell’uomo, come la capacità di ridere, è predicato come qualcosa di esterno, di aggiunto rispetto alla ragione essenziale del soggetto.
Per ciò che riguarda il predicabile ‘specie’, Scoto farà coincidere la predicazione di ente con quella specifica sia nel Commento alla Metafisica che nel Commento al De anima572. Tuttavia, non è questa la soluzione che troveremo in Ordinatio e Lectura. È fuori di dubbio, ed infatti apparentemente non viene mai negato da Scoto in nessun luogo, che il concetto di ente debba predicarsi ‘in quid’, così come quello di specie, degli individui. A partire da questa constatazione sempre ammessa, il nodo teoretico di questo parallelismo, nelle opere in cui viene difeso, risiede nel fatto che l’ente discenderebbe immediatamente (statim), senza che sia necessaria l’aggiunta di differenze contraenti, in ciò che è ad esso inferiore, allo stesso modo in cui la specie discende negli individui senza bisogno di elementi contraenti. Una affermazione che, però, come vedremo meglio in seguito573, appare in stridente contraddizione rispetto alla matura dottrina scotiana del principio di individuazione: a questo proposito, infatti, in opere come Ordinatio o Lectura si difende una concezione per la quale la specie può discendere negli individui solo grazie ad un principio individuante positivo, ovvero attraverso quelle ‘ultima realtà dell’ente’ che saranno successivamente ribattezzate ‘haecceitas’. Probabilmente a causa di questo mutamento di prospettiva sul tema dell’individuazione Scoto abbandonerà nelle opere teologiche l’identificazione tra predicazione specifica e predicazione del concetto di ente.
Infine, merita un trattamento a parte la possibilità che la predicazione del concetto di ente possa coincidere con la predicazione generica.
572Cf. Ioannes Duns Scotus, Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis, IV, q. 1, OpPhil, III, p. 309; Ioannes
Duns Scotus, Quaestiones super secundum et tertium De anima, q. 21, n. 35, OpPhil, V, p. 223.
3. Se il concetto di ente fosse un genere, non ci sarebbero differenze capaci di contrarlo:
A proposito della possibilità che l’ente sia un genere, ciò contraddirebbe la sentenza di Aristotele, libro terzo della Metafisica:
Ma è impossibile che tanto l’Uno quanto l’essere siano un unico genere delle cose, giacché le differenze
di ciascun genere non solo necessariamente esistono, ma ciascuna di essere deve avere la sua unità […],
di guisa che, se si considerano come genere l’Uno e l’essere, nessuna differenza potrà né ‘essere’ né ‘essere una’574.
Aristotele si riferisce qui criticamente alla dottrina platonica dell’essere come genere sommo; ma se l’ente fosse un genere, ciò implicherebbe che le differenze, attraverso cui il genere è capace di contrarsi, non sarebbero enti, dovendo necessariamente essere distinta la ragione del genere dalla ragione della differenza. Altrimenti, se anche le differenze appartenessero al genere dell’ente, non potrebbero in alcun modo contrarlo, piuttosto non farebbero che ripetere pleonasticamente il concetto del genere ‘ente’, ciò che nella terminologia logica medioevale viene definita ‘nugatio’575.
Inoltre, se <l’ente> fosse comune a queste [ovvero, alle dieci categorie], visto che esse differiscono, e
non grazie all’ente, chiedo a proposito di ciò che viene aggiunto in questo e in quello, se si tratti di un
ente o no. Se è un ente, allora l’ente sarebbe incluso nel concetto di ciò che viene aggiunto; perciò,
aggiungendo ciò all’ente, ci sarebbe un’inutile ripetizione [nugatio]. Così l’ente e questa cosa aggiunta
sono inclusi nel concetto di ogni categoria e di conseguenza nel concetto semplice di qualsiasi categoria
ci sarebbe un’inutile ripetizione [nugatio]. Perciò nel concetto di qualsiasi cosa ci sarebbe un’inutile
ripetizione [nugatio], poiché nel concetto di qualsiasi cosa è incluso qualcosa delle categorie. Anche in
tutte le definizioni ci sarebbe un’inutile ripetizione [nugatio], scomponendo fino al genere sommo, che
è contro ciò che afferma Aristotele nel libro settimo della Metafisica576.
574Arist., Met., III, 3, 998b 23-27.
575Questa obiezione è anch’essa presente in tutti i testi principali di Scoto e nelle due questioni delle Collationes come
argomento contra, ed inoltre viene esplicitamente avanzata, ad esempio, da Roberto di Cowton. Cf. Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, I, d. 3, p. 1, q. 3, n. 152, Vat., III, p. 94; Ioannes Duns Scotus, Lectura, I, d. 3, p. 1, q. 1-2, n. 106, Vat., XVI, p. 264; Coll. Ox., q. 4, n. 2, pp. 35-36, ll. 5-10; Coll. Ox., q. 12, n. 29, p. 160, ll. 136-138; Robertus de Cowton, In I Sententiarum, Prologus, q. 4, ed. Brown, p. 21. Per ciò che concerne il termine ‘nugatio’, che abbiamo tradotto con la
perifrasi ‘inutile ripetizione’, ci permettiamo di rimandare alla definizione nel suo uso tecnico nell’ambito della disciplina
della logica data da Pietro Ispano. Cf. Petrus Hispanus Portugalensis, Summulae logicales, VII, 18, ed. L. M. De Rijk, Van Gorcum, Assen 1972, p. 142: «Nugatio est eiusdem et ex eadem parte inutilis repetitio».
576 Ioannes Duns Scotus, Quaestiones super Praedicamenta Aristotelis, q. 4, n. 20, OpPhil, II, p. 279: «Item, si sit
commune istis, cum haec differant, et non per ens, quaero de addito in hoc et illo: aut est ens aut non-ens. Si ens, igitur ens est de eius intellectu; ergo addendo illud enti, erit nugatio. Et ens et illud est de intellectu cuiuslibet praedicamenti, ergo in intellectu simplici cuiuslibet praedicamenti est nugatio. Ergo in intellectu cuiuslibet est nugatio, quia in intellectu cuiuslibet includitur aliquod praedicamentorum. Etiam in omni definitione erit nugatio, semper resolvendo usque ad genus generalissimum, ponendo rationes pro nominibus; quod habet Aristoteles pro inconvenienti, VII Metaphysicae».
La dottrina dell’univocità nel Commento al De anima:
Nella questione 21 del Commento ai libri II e III del De anima, dal titolo «Utrum ens sit obiectum primum intellectus nostri», Scoto affronta nuovamente il tema dell’univocità, questa volta non dal punto di vista del rapporto di predicazione tra il concetto di ente rispetto alle dieci categorie, ma nell’ambito della discussione sull’oggetto primo del nostro intelletto, facendo entrare nella considerazione anche il problema dell’univocità rispetto a Dio e alla creatura, oltre a quello, già incontrato, dell’univocità rispetto alla sostanza e all’accidente.
Oltre al contesto argomentativo, cambiano in questo testo anche le soluzioni adottate da Scoto, che passa a sostenere la dottrina dell’univocità del concetto di ente, pur mantenendo, in continuità con i commenti alle opere logiche, la dottrina dell’analogia reale.
Si affacciano, probabilmente per la prima volta, tentativi di superare le due principali obiezioni all’univocità: la prima consiste nel divieto aristotelico di fare dell’ente un genere sommo; la seconda riguarda il tema dello statuto ontologico delle differenze contraenti.
Inoltre, l’univocità viene qui difesa con argomenti originali, che saranno successivamente ripetutamente ripresi.
1. Argomento ‘certus et dubius’, a favore dell’univocità:
Contrariamente a quanto sostenuto fino ad allora, Scoto in quest’opera difende esplicitamente l’univocità del concetto di ente rispetto alla sostanza e all’accidente577. A favore di questa tesi, troviamo qui un argomento destinato ad avere grande successo, riconosciuto comunemente come il più caratterizzante della teoria scotiana, forse ispirato ad Avicenna, oppure, secondo autori coevi, ad Al-Ghazali:
Inoltre, ogni intelletto certo di una cosa e dubbio a proposito di due cose, deve necessariamente avere un concetto di ciò di cui è certo ed un altro delle due cose di cui è dubbio, poiché altrimenti, attraverso il medesimo concetto, lo stesso intelletto sarebbe dubbio e certo. Ma qualcuno può essere certo che qualcosa sia un ente, essendo tuttavia incerto a proposito del fatto se si tratti di una sostanza o di un accidente – come è evidente a proposito delle potenze dell’anima e del primo principio, allo stesso modo in cui gli antichi filosofi dubitarono, come risulta dal primo libro della Fisica, e dubitarono anche a
577Cf. Ioannes Duns Scotus, Quaestiones super secundum et tertium De anima, q. 21, n. 25, OpPhil, V, p. 218: «Quod
etiam conceptus entis sit communis univoce substantiae et accidenti, probo: quia si non, nullum conceptum de substantia
proposito della luce. Perciò il concetto di ente è differente da quello di sostanza e accidente; ma il concetto di ente è comune ad entrambi senza implicarli; perciò è un concetto comune in modo univoco578.
Non è possibile dubitare ed essere certi dello stesso concetto allo stesso tempo, mentre è possibile essere certi di un concetto e dubitare di un altro o di altri allo stesso tempo. Il concetto di cui si è certi,