Statuto delle essenze creaturali: la collatio
1.3 Il dibattito medioevale sullo statuto delle essenze
1.3.5 Riccardo di Conington
Sulla linea di Enrico di Gand sembra muoversi Riccardo di Conington. Di questo autore, purtroppo, non rimangono, tra le poche questioni ordinarie e quodlibetali giunte fino a noi, testimonianze dirette della sua dottrina sul tema. Abbiamo, però, preziose testimonianze di autori coevi o operanti poco dopo la sua morte che ci permettono di ipotizzare una parziale ricostruzione della sua opinione in
420Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, I, d. 36, q. un., n. 50, Vat., VI, p. 291: «[…] homo est ex se ens ratum, quia formaliter
ex se non repugnat sibi esse».
421Ioannes Duns Scotus, Ordinatio, I, d. 3, p. 2, q. un., n. 326, Vat., III, pp. 197: «Tunc intelligo sic, quod in primo instanti
naturae est ens quod est ipsum ‘esse’, scilicet Deus; in secundo, est lapis ens ratum, absolutum, quod nec intelligitur tunc
merito alla questione delle essenze creaturali. In particolare, egli viene citato nel Commento alle Sentenze di Giovanni di Baconthorpe e dall’anonimo autore della prima questione delle Quaestiones ordinariae de conceptibus transcendentibus, conservata nel ms. Vat. lat. 869, in cui viene difesa la dottrina scotiana dell’univocità del concetto di ente rispetto a Dio e alla creatura dalle critiche di autori contemporanei e successivi a Scoto.
Entrambe le testimonianze convergono nell’attribuire a Conington l’opinione secondo la quale nel concetto di creatura è essenzialmente incluso un rapporto a Dio, rapporto che costituisce la stessa essenza creaturale in quanto tale. Il lessico enrichiano della res a reor reris / res a ratitudine viene ripreso dall’autore francescano: l’essenza ha la propria ratitudine (ratitudo) grazie al rapporto che intrattiene con Dio in quanto causa esemplare422; ciò che, al contrario, non corrisponde a nessuna idea divina ─ come, ad esempio, la chimera ─ va considerato come un semplice figmento (res a reor reris), non dotato di alcuna essenza. Dunque, tutto ciò che ha un’essenza include un rapporto a Dio. Baconthorpe, nella sua esposizione della dottrina di Conington, sottolinea il legame tra essenza ed esistenza. Tutto ciò che esiste effettivamente, in quanto può esistere, deve necessariamente essere una cosa rata, ovvero possedere un’essenza; ciò che è un puro figmento, al contrario, in quanto non ratificato e dunque non oggettivamente possibile, non può essere dotato dell’essere dell’esistenza (esse existere), secondo un lessico anche qui tipicamente enrichiano.
Alcuni dicono (Conington) che i rapporti di dipendenza sono essenzialmente compresi nel concetto di
creatura: appartiene infatti all’essenza della cosa esistente di essere una cosa rata, ovvero di essere una cosa fuori dall’anima; ma la cosa rata, in quanto esiste effettivamente, ha l’essere dell’esistenza; perciò appartiene all’essenza della cosa esistente di essere una cosa rata. Ma ciò che per essenza è una cosa rata, all’interno della propria essenza include un rapporto a Dio. Perciò qualsiasi creatura in quanto
esistente include nella propria essenza un rapporto a Dio. – Prova dell’assunto: una cosa rata o è un ente
a se, o un ente ab alio: ma l’essenza della cosa nel primo modo non è una cosa rata, perciò nel secondo modo; ma l’essenza ab alio nomina con il suo concetto essenziale un rapporto ad altro; perciò il rapporto
è compreso nel primo concetto di creatura423.
422Cf. Anonymous, Quaestiones ordinariae de conceptibus transcendentibus, q. 1, ed. Brown - Dumont, pp. 56-57, ll.
594-597: «Cum autem in quantum est ens ratum dicat respectum ad ens primum a quo habet quod sit ens ratum, ut refertur ad ipsum sub habitudine causae formalis exemplaris, concipiendo ens ratum ut ens ratum non concipitur sub ratione absoluta sed sub ratione respectiva».
423Ioannes Bachonus (Baconthorpe), Super quator Sententiarum libros, II, d. 36, q. un., a. 1, Venetiis 1526, f. 195rb:
«Dicunt quidam [in mg. Conington] quod respectus dependentiae sunt de per se intellectu creaturae, de essentia enim rei existentis est quod ipsa sit res rata, id est quod sit res extra animam; sed res rata ut est in effectu, habet esse existere; igitur de essentia rei existentis ut est in effectu, est quod sit res rata. Sed quod per essentiam est res rata, intra suam essentiam includit respectum ad Deum. Igitur quaelibet creatura ut exsistens includit in essentia sua respectum ad Deum. - Probatio assumpti, quia quod est res rata, vel est ens a se vel ab alio: sed essentia rei primo modo non est res rata, igitur secundo
La testimonianza dell’anonimo autore della questione sull’univocità del manoscritto Vat. lat. 869 è, se possibile, ancora più interessante poiché connette esplicitamente Conington ad Enrico, e fa riferimento, per la discussione del problema della ratitudine nell’interpretazione fornita da Conington, proprio alla questione de vestigio di Scoto, che abbiamo già analizzato in dettaglio424. La tesi di Conington su essenza e ratitudine, come qui esposta, è funzionale alla dimostrazione della possibilità di una conoscenza naturale di Dio non attraverso il concetto di ente comune univoco rispetto a Dio e alla creatura, come sostenuto da Scoto, bensì attraverso il concetto proprio di Dio come espresso dalla creatura in quanto ente rato:
Conington, tuttavia, volendo salvare il Gandavense in una maniera differente, risponde in una maniera differente a questo argomento, mostrando come, nonostante il concetto di ente non sia comune univoco rispetto a Dio e alla creatura, nondimeno il concetto di creatura può causare una conoscenza del concetto
proprio a proposito di Dio. Egli così lo dimostra: “l’ente rato, ovvero l’ente così chiamato da ‘ratitudine’, che è distinto in opposizione all’ente solo ed esclusivamente pensabile, ovvero così chiamato da reor- reris, che significa lo stesso che opinor-opinaris – tale ente rato, affermo, causa nel nostro intelletto una
conoscenza di sé in quanto ente rato. Però, dicendo in quanto ente rato un rapporto all’ente primo, da cui gli deriva di essere un ente rato, in quanto si riferisce ad esso dal punto di vista del rapporto alla
causa formale esemplare, concependo l’ente rato in quanto rato non si concepisce in una ragione
assoluta, bensì in una ragione relativa”. Perciò, inoltre argomentano: “Se concependo l’ente rato in
quanto rato non si concepisce qualcosa in una ragione assoluta, ma relativa all’ente primo, poiché la relazione in un estremo causa nell’intelletto il concetto dell’altro estremo, ovvero il concetto della relazione corrispondente nell’altro estremo, concependo l’ente rato in quanto rato si causerà nel nostro intelletto il concetto dell’ente primo. Perciò sarà possibile che si abbia il concetto proprio a proposito dell’ente primo attraverso il concetto della creatura, nonostante non comunichino in nessun concetto
comune univoco425”.
modo; sed essentia ab alio dicit ex suo essentiali conceptu respectum ad alium, igitur respectus est de se primo intellectu creaturae».
424Cf. supra, pp. 35-43.
425Anonymous, Quaestiones ordinariae de conceptibus transcendentibus, q. 1, ed. Brown - Dumont, pp. 56-57, ll. 588-
604: «Conington tamen aliter volens salvare Gandavensem aliter repondet ad istam rationem, declarando quomodo non obstante quod conceptus entis non sit communis univoce Deo et creaturae, nihilominus tamen conceptus creaturae potest
causare notitiam proprii conceptus de Deo. Quod declarat sic: ‘ens ratum sive ens dictum a ratitudine quod distinguitur
contra ens tantum opinabile sive dictum a reor-reris, quod idem est quod opinor-opinaris – tale, dico, ens ratum causat in intellectu nostro notitiam de se in quantum est ens ratum. Cum autem in quantum est ens ratum dicat respectum ad ens primum a quo habet quod sit ens ratum, ut refertur ad ipsum sub habitudine causae formalis exemplaris, concipiendo ens ratum ut ens ratum non concipitur sub ratione absoluta sed sub ratione respectiva’. Tunc deducunt ultra: ‘Si concipiendo ens ratum ut ratum non concipitur aliquid sub ratione absoluta sed respectiva ad primum ens, cum relatio in uno extremo habeat causare in intellectu conceptum alterius extremi sive conceptum relationis correspondentis sibi in altero extremo, concipiendo ens ratum ut ratum causabitur in intellectu nostro conceptus entis primi. Et ita poterit haberi conceptus propius de ente primo per conceptum creaturae, non obstante quod in nullo conceptu communi univoce communicant’».
La discussione nella questione continua con le critiche dell’anonimo autore alla dottrina di Conington a proposito della ratitudine e dell’analogia del concetto di ente. A proposito della ratitudine, l’autore attribuisce a Conington la tesi secondo cui la res rata è solo ed esclusivamente un rapporto ─ potremmo aggiungere, un rapporto vestigiale ─, rimandando per la confutazione di questa dottrina alla questione de vestigio di Scoto, ovvero alla distinzione terza del primo libro di Lectura e Ordinatio.
Suppone anche che la cosa rata creata non è concepita da noi se non in quanto relata, poiché è solo un rapporto. Tuttavia, che ciò sia falso è mostrato nella terza distinzione sul vestigio, dove sarà spiegato in modo più circostanziato questa affermazione sull’ente rato426.
Certamente, l’affidabilità di una ricostruzione storico-filosofica di una dottrina a partire da due citazioni indirette non può che essere parziale ed incerta. Ad ogni modo, ci sembra di poter affermare una sostanziale continuità rispetto ad Enrico: Conington considera la ratitudine come la stabilità ontologica propria delle essenze, consistente nel rapporto a Dio come causa esemplare. L’obiezione di Stephen Dumont e Stephen Brown, secondo i quali Enrico considererebbe l’ente rato come ciò che possiede l’essere dell’essenza, mentre Conington come ciò che possiede l’essere dell’esistenza, non ci sembra sufficientemente suffragata da evidenze testuali427.
Innanzitutto, se così fosse, non si capirebbe perché nella questione anonima del ms. Vat. lat. 869 l’ente rato sia posto in relazione con Dio come causa esemplare, e non come causa efficiente, in quanto causa che dà l’essere dell’esistenza428.
Inoltre, non si capirebbe il motivo per cui, nella testimonianza di Baconthorpe, risulta necessario giustificare tramite sillogismo il fatto che qualsiasi cosa effettivamente esistente include un rapporto a Dio. Ammettendo senza riserve, come avviene nel ragionamento di Baconthorpe, che essere una cosa rata significa intrattenere un rapporto a Dio («quod per essentiam est res rata, intra suam essentiam includit respectum ad Deum»), se essere rata significasse immediatamente per la cosa essere dotata dell’essere dell’esistenza, allora si potrebbe dedurre senza indugio da queste premesse
426Anonymous, Quaestiones ordinariae de conceptibus transcendentibus, q. 1, ed. Brown - Dumont, p. 59, ll. 680-682:
«Supponit etiam quod res rata creata non intelligitur a nobis nisi in quantum relata, quia est tantum respectus, quod tamen ostendetur esse falsum in tertia distinctione de vestigio, ubi amplius explicabitur istud dictum de ente rato».
427Cf. Dumont - Brown, Univocity of the concept of being in the fourteenth century: III An early scotist, p. 12, n. 44:
«That is, Conington seems to take ens ratum to mean what has esse exsistentiae while Henry takes it to mean what has esse essentiae».
428Cf. Anonymous, Quaestiones ordinariae de conceptibus transcendentibus, q. 1, ed. Brown - Dumont, pp. 56-57, ll.
594-597: «Cum autem in quantum est ens ratum dicat respectum ad ens primum a quo habet quod sit ens ratum, ut refertur ad ipsum sub habitudine causae formalis exemplaris, concipiendo ens ratum ut ens ratum non concipitur sub ratione absoluta sed sub ratione respectiva».
che tutto ciò che ha l’essere dell’esistenza ─ ovvero, tutto ciò che esiste nella realtà extramentale ─ intrattiene un rapporto con Dio. Secondo questa ipotesi, infatti, essere una cosa rata significherebbe altrettanto originariamente sia intrattenere un rapporto con Dio, sia essere dotata dell’essere dell’esistenza, ovvero esistere effettivamente (existere in effectu).
La formulazione che troviamo è invece molto più articolata e complessa, al punto da richiedere una speciale dimostrazione, in quanto il fatto di essere rata non appartiene in verità all’esistenza della cosa, ma alla sua essenza. Il collegamento tra essenza ed esistenza, e dunque tra cosa rata ed esistenza, va argomentato tramite un sillogismo a ciò dedicato, che possiamo così esporre: la cosa in quanto essenza ratificata può esistere effettivamente. Ora, per esistere, deve essere dotata dell’essere dell’esistenza («sed res rata ut est in effectu, habet esse existere»); perciò, anche l’essenza della cosa esistente, ovvero dotata di essere dell’esistenza, è una cosa rata («de essentia rei existentis ut est in effectu, est quod sit res rata»). La coincidenza tra essenza in sé e cosa rata non ha bisogno di alcuna dimostrazione; al contrario, il fatto che l’essenza della cosa esistente sia ugualmente una cosa rata è un’affermazione che ha bisogno di una dimostrazione sillogistica429.
La conclusione di questa dimostrazione sillogistica funge da maggiore («de essentia rei existentis ut est in effectu, est quod sit res rata») per un’ulteriore sillogismo. Appurato che l’essenza della cosa esistente è una res rata, poiché essere rata significa per la cosa intrattenere un rapporto nei confronti di Dio, l’essenza della cosa esistente, in quanto rata, intratterrà un rapporto nei confronti di Dio. Perciò ogni creatura, in quanto esistente, include nella propria essenza un rapporto nei confronti di Dio («igitur quaelibet creatura ut existens includit in essentia sua respectum ad Deum»). Il vero guadagno speculativo di questi articolati e forse anche un po’ involuti ragionamenti è proprio quell’ut existens (‘in quanto esistente’): partendo dal presupposto che il rapporto a Dio appartiene di per sé all’essenza creaturale, la dimostrazione ha riguardato proprio il collegamento tra esistenza e rapporto a Dio, dedotto in base alla considerazione che ciò che ha un’essenza proprio per questo motivo può esistere430.
429Cf. Ioannes Bachonus (Baconthorpe), Super quator Sententiarum libros, II, d. 36, q. un., a. 1, Venetiis 1526, f. 195rb:
«[…] de essentia enim rei existentis est quod ipsa sit res rata, id est quod sit res extra animam; sed res rata ut est in effectu,
habet esse existere; igitur de essentia rei existentis ut est in effectu, est quod sit res rata».
430Cf. Ioannes Bachonus (Baconthorpe), Super quator Sententiarum libros, II, d. 36, q. un., a. 1, Venetiis 1526, f. 195rb:
«[…] igitur de essentia rei existentis ut est in effectu, est quod sit res rata. Sed quod per essentiam est res rata, intra suam
L’affermazione secondo la quale la cosa rata è «una cosa fuori dall’anima» (res extra animam)431, pur nella sua indubbia ambiguità, va intesa come tentativo di opporre, forse in modo maldestro, la res rata alla res a reor reris, che invece è propriamente una cosa presente solo nell’anima, mai fuori. Ciò che è completamente assente nelle due testimonianze è invece qualsiasi riferimento all’aliquitas, sia in sé che in un’eventuale coordinazione con la ratitudine. Se sia Conington a parlarne, o se Scoto abbia ripreso il termine dalle due occorrenze che abbiamo osservato nell’opera di Enrico di Gand, o se egli faccia riferimento ad altri autori, in base ai dati a nostra disposizione può essere solo oggetto di supposizioni ed ipotesi.
431Ioannes Bachonus (Baconthorpe), Super quator Sententiarum libros, II, d. 36, q. un., a. 1, Venetiis 1526, f. 195rb: «