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II. Il tempo inconciliato

2.4 Il finale impossibile

Prima di proseguire nell’interpretazione delle relazioni che il protagonista della trilogia instaura con gli altri personaggi, occorre fermarsi un momento a riflettere sul percorso condotto fin qui sul problema del tempo e tentare di ricollegarsi alle questioni che avevamo considerato in precedenza.

La trilogia è un’opera che simula un romanzo di formazione così come simula un’autobiografia. La caratteristica più interessante della scrittura sitiana è proprio il suo fondo multiplo di menzogne, la capacità di simulare l’affiliazione al genere, autobiografico e “di formazione”, continuamente messa in discussione ed eventualmente distrutta. Del resto tutto ciò è coerente con l’insofferenza di Walter alle leggi, con l’idea che una legge applicata a lui diventi automaticamente ingiusta. Questa è sicuramente un elemento che l’autore e il personaggio condividono e che a loro volta, più o meno consapevolmente, essi condividono con l’odiosamato Pasolini. Lo stesso Siti afferma infatti che in Pasolini vi è un’insoddisfazione profonda, un’irrequietezza o un delirio di onnipotenza che lo spinge a voler riscrivere daccapo ogni genere215.

È solo stando all’arido dettato della lettera che si può intendere la trilogia come un romanzo di formazione progressivo, e la conclusione un avanzamento del personaggio verso l’integrazione. È una credulità che l’autore induce e il narratore invoca ma che tuttavia è bene non concedere. Si è visto che in realtà, attraverso l’implicazione tematica e figurale del tempo, non si può che problematizzare la lettura secondo la quale i tre romanzi che compongono la trilogia sarebbero «un unico romanzo di formazione, nell’ambito del quale il sosia [dell’autore] impara ad aprirsi al mondo», in cui «il rapporto che il soggetto è in grado di istituire con la realtà muta radicalmente»216. Non emerge cioè una sostanziale mutazione, rispetto a Sdn, che consente di descrivere un

214 Ivi, p. 918

215 W. Siti, Tracce scritte di un’opera vivente, in p. P. Pasolini, Romanzi e racconti, a c. di W. Siti e S. De

Laude, Mondadori, Milano 1998, pp. XXVI-XXIX

Walter in cambiamento, bensì è l’ordine complesso della realtà che offre l’occasione di integrazione al personaggio così com’esso è. Allora l’affermazione sintetica di Casadei su Tp non può essere condivisa: Walter non

«esce dalla sua autobiografia […] per accettare una condizione di caduta del Desiderio, per conquistare la consapevolezza che guardare la realtà implica rima di tutto mettere a tacere le ossessioni, per riconquistare il senso della propria biologia, della cultura insita nel proprio corpo.217

Semmai, è esattamente per negare tutto ciò ch’egli si dedica anima e corpo alla passione per Marcello. In tal senso il paradiso unico con Marcello appartiene e si confonde con i troppi paradisi che popolano la contemporaneità, producendo un soggetto che non ha risorse originali per imporre la propria singolarità nemmeno nel desiderio, cioè il luogo che durante il novecento è stato considerato deputato alla più autentica particolarità soggettiva. Per certi versi si può dire che Walter è un “personaggio piatto” (si prenda quest’affermazione tenendo conto della dose di paradossalità che contiene). “Piatto” nel senso che la forza che muove le sue azioni e le sue riflessioni potrebbe essere riassunta in un’unica frase ripetutamente proposta nella trilogia. Il personaggio non è in grado di stupirci veramente, il pattern che continuamente ripete nel realizzare il suo desiderio non ha variazioni che ci sorprendano218. Ciò non significa ch’esso non abbia profondità o che non esprima contraddizioni e conflittualità psichiche, che tuttavia sono risolte sempre nella medesima via, quella di minor tensione, lo scartamento ridotto che suggella Tp. Se dovessimo darne un’immagine spaziale diremmo, con Lotman, ch’esso è un “eroe della steppa” e non un “eroe della strada”, ossia che non si inserisce in uno spazio-tempo etico lineare ma che

Gli spostamenti del personaggio nello spazio morale sono collegati alle realizzazioni delle virtualità intrinseche della sua personalità e non al mutarsi di questa. Ne consegue che il movimento non può qui definirsi come “evoluzione” […], né presenta connotazioni temporali219

217 A. Casadei, Stile e tradizione nel romanzo contemporaneo italiano, cit., p. 263 218 Cfr. E. M. Forster, , cit., p. 76 e p. 84

Tale caratteristica ha dunque un senso da ricollegarsi almeno in parte, al tipico andamento secondo brevi scene che costituisce senza dubbio il frame fondamentale della scrittura sitiana. Se infatti prestiamo attenzione all’articolazione della durata nella trilogia, è palese che il ricorso all’alternanza tra scene, in cui il tempo del racconto è isocrono rispetto al tempo della storia, e pause, che occorrono all’espressione degli intensi passi argomentativi, costituiscono la spina dorsale del trattamento temporale delle vicende narrate. Si può dire che il quid che contraddistingue lo stile di Siti, la legge narrativa che dipana la storia sia, come del resto è già stato notato220, la dialettica conflittuale di tali momenti. L’arco temporale progressivo, quello che simula una progressione e costituisce il nerbo dell’argomentazione di chi sostiene il carattere di romanzo di formazione, è affidato a pochi interventi che riassumono, attraverso sommari, le vicende storiche che la trilogia attraversa. Questi sommari, secondo l’opinione di chi vede un cambiamento in Walter, produrrebbero una linearità, un ordine preciso di progressione delle scene puntiformi, che poi coincide con la linearità non scomponibile del testo stabilito. Tuttavia, è il caso di notarlo, molte delle scene che abbiamo letto sono ricomponibili senza seguire l’ordine della narrazione. Ciò è vero per la gran maggioranza degli incontri con i culturisti, ma tutto sommato anche per quanto riguarda gli amori stabili e “temporali” (cioè nell’ambito dei quali il tempo cronologico ha una sua pertinenza e forma una dimensione in cui valutare la relazione). Ad esempio, a proposito del personaggio di Ruggero, una delle prime scene che lo ritrae, nella quale si descrive e si commenta uno dei suoi quadri attraverso un dialogo, contiene in nuce la stratificazione di figure che determinerà la sorte del personaggio. È espresso sincronicamente ciò di cui si può seguire lo sviluppo nell’inevitabile linearità progressiva della scrittura. Se contrapponiamo un tipo di organizzazione delle scene puntiforme ad una lineare, Siti appartiene certamente al primo tipo221.

Tutte queste osservazioni non possono che problematizzare la questione della chiusura della trilogia. Infatti, se il tempo, non solo come categoria tematica ma anche come espediente retorico e tecnico-stilistico, è oggetto di un disperato tentativo di annichilimento, che senso potrà assumere la conclusione della trilogia, sulla quale gran

220 L. Cristiano, “La tirannia delle condizioni iniziali”, Between, Figure del desiderio. Retorica, temi,

immagini, (a c. di) Marina Polacco, III.5 (2013), http://www .Between-journal.i t/ (10/02/2017)

parte della critica fonda le interpretazioni di romanzo di formazione? Rileggiamo la conclusione:

Marcello mi sta espellendo dall’autobiografia. Dopo essere penetrati nell’Assoluto, che resta da dire? Vederlo concentrato, remissivo, mentre si soffia il naso che gli sto ancora dentro e sento il contrarsi dei suoi muscoli anali, be’, se lui è un dio come ho creduto finora, non mi resta che cadere in ginocchio, muto per sempre. Se non lo è, allora gli altri esistono davvero e non è più con l’autobiografia che si possono incontrare. […] Ricordo la frase siderale di Beckett, in cui dice che il suo più grande terrore è sempre stato quello di «morire prima di essere nato». Ora sono nato: da circa sette mesi sono nato. Se in più di mille pagine ho prodotto un sosia, era perché io non c'ero, non ci volevo essere: adesso ci sono. Nel bene o nel male, nell'ipocrisia o nella sincerità; nell'assistere o nell'agire, nel cinismo o nella passione, nella banalità o nell'intelligenza. Ora che Dio mi ama, non ho più bisogno di esibirmi. Sto meglio man mano che il mondo peggiora, pazienza. Le mie idiosincrasie si scontreranno con quelle degli altri in campo aperto; se avrò qualcosa da raccontare, non sarà su di me.222

Notiamo che Walter sottolinea l’espulsione dall’autobiografia, citata due volte nel brano. Ma sappiamo bene che ciò che si offre alla lettura non è un’autobiografia, bensì un’autofiction: la contraddizione emerge chiaramente quando il discorso cade sul «sosia». La stessa organizzazione della scrittura in brevi scene ricche di dettagli e spesso dialogate con precisione testimonierebbe di una scrittura impossibile a dirsi biografica, sarebbe cioè indizio di finzione, per dirla con Genette223.

La chiusa è pomposa, altisonante: la domina un’enfasi che carica le anafore e le ripetizioni di una solennità e che la fa suonare affettata. In particolare, esibisce platealmente la convergenza temporale della storia con la narrazione (cioè del personaggio diegetico con colui che produce l’atto narrativo), che secondo Genette è un elemento convenzionale conclusivo dei racconti in prima persona.224 Una conclusione che, per ricollegare il discorso alla questione polifonica che l’aveva inaugurato, suona posticcia e fintamente spontanea. Come si sa, Bachtin ha individuato nelle conclusioni uno dei nodi problematici della scrittura di Dostoevskij, poiché – e invero sarà un gran cruccio di moltissimi autori dal modernismo in poi – il non-finito (che corrisponde a

222 Tp, p. 1038-9

223 Cfr. G. Genette, Finzione e dizione, cit. 224 Cfr. Id., Figure III, cit., p. 268

una non-chiusura dell’interpretabilità dello scrittore) non consente una vera e propria conclusione. Per questo, afferma Bachtin, le chiuse di Dostoevskij hanno sempre un che di eccessivamente letterario, dimostrano sempre una convenzionalità che non emerge nel resto della scrittura: «nei romanzi di Dostoevskij noi osserviamo un originale conflitto tra l’incompiutezza interiorie dei personaggi e del dialogo e la finitezza

esteriore […] di ogni singolo romanzo»225. Non si potrebbe affermare la stessa cosa della scrittura di Siti? Del resto il senso che domina questo lungo viaggio, la matrice che abbiamo imparato a riconoscere in tutti e tre i romanzi, è la macchina insensata della coazione a ripetere, la ripetizione ossessiva del gesto perverso, dell’amore verso l’immaginaria eternità dei corpi pneumatici. Questo meccanismo acefalo è naturalmente alleato della pulsione di morte, che non si può esaurire che con la fine della vita, il ritorno del soggetto allo stato biologico precedente. Non si esaurisce che con la morte.226

A tale conclusione non possiamo dunque che assegnare un doppio significato: da un lato, che l’integrazione nella realtà equivale alla morte. Questa sembra un’interpretazione estremistica solo se non si presta memoria all’idea di morte del desiderio cui corrisponde il consumismo e che rappresenta uno dei centri tematici del romanzo. Dall’altra è che la conclusione della trilogia sia l’interruzione di una scrittura che avrebbe potuto proseguire all’infinito, che avrebbe dunque il carattere di inconcludibilità. Del resto nelle opere di Siti che seguono c’è un residuo autofittivo che continua a insistere, e che induce al sospetto di un proseguimento sotto mentite spoglie della trilogia: è un ipotesi che Francesca Giglio ha formulato (anche se ai tempi della pubblicazione della monografia della studiosa oltre alla trilogia, Siti aveva pubblicato solo Ic), e che ha una sua plausibilità e che verificheremo in seguito.

225 M. Bachtin, Dostoevskij, cit., p. 58