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Il lavoro povero: misurazione e definizioni

Il lavoro povero in Italia, tra bassi salari e precarietà 1

2. Il lavoro povero: misurazione e definizioni

La definizione del fenomeno del cosiddetto lavoro povero non è immediata. L’occupa-zione a basso reddito riflette da una parte il basso livello delle retribuzioni per alcuni lavoratori, dall’altra una ridotta intensità occupazionale, intesa sia come ore lavora-te che come mesi di occupazione. Considerare diverse dimensioni del lavoro povero non è semplice, soprattutto in un periodo, come quello post crisi, che ha visto cadere notevolmente sia le ore lavorate che aumentare la precarietà di molte occupazioni. La definizione di lavoro povero può fare riferimento alla retribuzione per ora lavorata, per un confronto tra lavoratori al netto dell’effetto derivante dell’intensità occupazio-nale, oppure al reddito da lavoro, calcolato su base mensile o annuale. È naturale che al ridursi dell’intensità occupazionale il reddito da lavoro complessivo risulti inferiore pur in presenza di salari orari dignitosi.

La definizione, poi, può essere espressa in termini relativi o in termini assoluti. Il la-voro povero definito rispetto ad una soglia assoluta e predeterminata - ad esempio il corrispettivo della soglia di povertà definita dall’Istat -, misura principalmente la povertà in termini di reddito (da lavoro) disponibile e di deprivazione. In tal caso, un individuo (un nucleo familiare) è assolutamente povero se il reddito è pari o inferiore

ni. Ad esempio, se durante una recessione sono i lavoratori meno qualificati e con basse retribuzioni a perdere il lavoro, l’effetto iniziale potrebbe essere un’apparen-te riduzione del numero di working poor, perché questi sono diventati disoccupati. Contestualmente, le modifiche alla parte bassa della distribuzione delle retribuzioni comportano un aumento della retribuzione mediana e, di conseguenza, della soglia di lavoro povero, facendo scivolare nella condizione di povertà relativa lavoratori che precedentemente risultavano sopra la vecchia soglia. Nei confronti temporali, quindi, è necessario utilizzare particolare cura nel misurare ed interpretare i fenomeni a causa della sovrapposizione di molteplici fattori che incidono sulla composizione e distri-buzione delle retribuzioni.

Utilizzando i dati della rilevazione sulle condizioni di vita IT SILC2, sono state effet-tuate alcune analisi circa la dimensione del lavoro povero, le sue caratteristiche e i legami intensi con la povertà a livello familiare. Tali analisi sono state rese possibili dalla ricchezza di informazioni fornite dall’indagine, sia a livello individuale che fa-miliare. È stato così possibile incrociare le informazioni sulle condizioni lavorative (come ad esempio la condizione professionale, le ore usualmente lavorate e i mesi di occupazione), con i dati reddituali individuali (come il reddito lordo da lavoro dipen-dente o da lavoro autonomo) e con quelli sui redditi a livello familiare (come il reddito disponibile equivalente), oltre che ad informazioni circa le caratteristiche familiari. A livello individuale (rimandando a successiva sezione l’analisi a livello familiare), il lavoro povero è stato quantificato facendo riferimento a tre differenti definizioni. La prima definizione considerata è quella basata sul salario orario. Sono stati considerati i lavoratori dipendenti, e per ognuno è stato calcolato il salario orario, partendo dalle informazioni individuali desumibili dalla rilevazione IT SILC (ore lavorate settima-nalmente di norma, mesi di occupazione nell’anno, reddito lordo da lavoro dipenden-te percepito annualmendipenden-te). In base alla distribuzione dei salari orari lordi, il numero di lavoratori dipendenti a bassa retribuzione era di oltre 3 milioni nel 2015, pari a un’incidenza del 17,9% sull’occupazione dipendente. Questa definizione, consideran-do solo il salario orario, esclude gli altri fattori che possono determinare il fenomeno del lavoro povero, in particolare l’intensità occupazionale, ovvero orario lavorativo e mesi di occupazione, e si concentra esclusivamente sull’aspetto retributivo.

Nel periodo 2007-2015 il numero di lavoratori poveri è aumentato, sia in termini asso-luti sia in percentuale sul totale dell’occupazione (dipendente). L’incremento si osser-va a prescindere dalla definizione adottata, segno di un generale deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro anche per effetto della pesante crisi sperimentata nella parte centrale del periodo considerato. Ma il confronto tra le quantificazioni otte-nute sulla base di definizioni alternative consente di distinguere l’operare di differenti fattori e il relativo contributo nel generare il fenomeno del lavoro povero.

Adottando una definizione alternativa, basata sulla retribuzione mensile, si tiene di-fatti conto dell’intensità occupazionale in termini di ore lavorate.

2. L’indagine sul reddito e le condizioni di vita IT SILC è effettuata annualmente da Istat in coordinamento con Eurostat, su un campione di circa 29mila famiglie (per un totale di circa 70mila individui), di cui vengono raccolte informazioni sulle condizioni di vita e sul reddito familiare. Vengono intervistati tutti i componenti della famiglia di almeno 16 anni di età, e di questi sono raccolte informazioni sulle condizioni lavorative, sul reddito individuale, oltre che sulle caratteristiche personali. L’indagine è annuale e fa riferimento ai redditi dell’anno precedente (come per le dichiarazioni di imposta). Solo recentemente Istat ha reso disponibili i dati relativi al 2016, posteriormente alle analisi quantitative svolte che fanno riferimento al 2015. Riteniamo comunque che le tendenze di fondo non si siano modificate da un anno all’altro.

Nel corso degli ultimi anni si è assistito a un’impressionante crescita del part time (anche involontario) e, più in generale, si sono ridotte notevolmente le ore lavorate mediamente a testa. Se prima della crisi erano in media 38 ore a settimana (tra i dipen-denti), nel 2015 la media era scesa a 36,9 ore, per effetto soprattutto di una caduta del numero di ore lavorate dai decili di bassi, ovvero da chi lavora meno delle “tipiche” 40 ore settimanali da orario full time. La ripresa dell’occupazione osservata nelle sta-tistiche è stata prevalentemente in termini di occupati, ma non di ore lavorate; ciò è dovuto al moltiplicarsi di impieghi a orari ridotti, ad esempio utilizzando i contratti a chiamata o i voucher (fino alla loro abolizione). Se per definire il lavoro povero si utilizza il reddito mensile, anziché il salario orario, è possibile cogliere nell’area di povertà anche quei lavoratori che, pur percependo salari orari adeguati, hanno im-pieghi a orari ridotti che non consentono loro di ottenere redditi mensili dignitosi, ovvero sopra la soglia di povertà (calcolata a partire dalla mediana dei redditi mensili, basata sul salario orario mediano e sulle ore lavorate mediane). Il numero di lavora-tori in povertà è più elevato, pari a quasi 4,1 milioni di lavoralavora-tori (corrispondenti al 24,1% dell’occupazione dipendente): la differenza nella quantificazione, pari a circa 1 milione di occupati, rispetto alla precedente definizione basata sul salario orario è da ricondurre alla ridotta intensità di lavoro, in termini di ore lavorate.

Ampliando ulteriormente la definizione, usando il reddito da lavoro dipendente an-nuale invece di quello mensile, si ottiene una quantificazione ancora più alta del lavo-ro povelavo-ro (5,2 milioni di lavoratori nel 2015), perché si prende in considerazione anche chi ha avuto un’occupazione saltuaria con episodi di disoccupazione o inattività, che si riflettono sul reddito annuo complessivo (sempre in termini relativi alla distribuzio-ne dei redditi del complesso degli occupati dipendenti).

La differenza tra le diverse quantificazioni suggerisce che l’ampiezza del fenomeno del lavoro povero è legata non tanto al livello delle retribuzioni (orarie), quanto alla ridotta intensità occupazionale che interessa un numero crescente e rilevante di lavo-ratori. Il confronto temporale suggerisce che siano stati proprio i fattori alla base della caduta dell’intensità occupazionale media (orari ridotti, part time, e maggiore preca-rietà occupazionale, etc.) alla base dell’incremento del fenomeno del lavoro povero nel corso del decennio di crisi. Se prima della crisi i mesi lavorati mediamente nell’anno dagli occupati dipendenti erano poco meno di 12 (11,6), nel 2015 si erano ridotti a poco più di 10. È quindi evidente come si sia ridotta la frequenza di occupazione durante l’anno a causa di una maggior precarietà degli impieghi.

Come già discusso precedentemente, resta ancora da spiegare per quale motivo alla ripresa dell’occupazione non abbia fatto seguito una ripresa dell’intensità del lavoro in termini di ore lavorate, occupazione a tempo pieno e di contratti a tempo indeter-minato (senza incentivi).

La soglia di lavoro povero adottata è definita in termini relativi. Tale definizione tut-tavia non tiene conto della presenza di una soglia assoluta di minimo retributivo (ora-rio o mensile) definita dai principali CCNL al di sotto del quale le retribuzioni non dovrebbero scendere. Pur in assenza di un salario minimo legale, in Italia i minimi tabellari definiti dai CCNL dovrebbero svolgere una analoga funzione, proteggendo i lavoratori dal rischio di povertà. I dati mostrano invece che una parte non trascurabile del lavoro povero origina dal pagamento di retribuzioni inferiori ai minimi tabellari (per il livello di inquadramento più basso).

Applicando una soglia calcolata partendo dai minimi tabellari del Commercio (Con-fcommercio) validi nel 2015 e applicando una correzione per errori di misura di sa-lari mensili e ore, si sono definiti underpaid quei lavoratori il cui sasa-lario orario risulta inferiore a tale soglia. Sulla base delle elaborazioni effettuate sempre sulla base della rilevazione IT SILC, si osserva che a tale gruppo, particolarmente svantaggiato, ap-partengono oltre 2 milioni di occupati, un numero considerevole, dato che rappresen-tano più del 12% dei dipendenti. Se si considera l’area del lavoro povero – quantificata sulla base del salario orario – circa due terzi dei lavoratori poveri, il 68%, dichiarano di percepire redditi da lavoro inferiori ai minimi retributivi3 fissati dai contratti, eviden-ziando così nei fatti un problema di non-complaince degli stessi. In parte questo riflette anche il fatto che ogni settore ha i suoi minimi tabellari (benché quelli del commercio siano tra i più bassi), ma è da rilevare che per alcuni settori l’incidenza degli underpaid sia particolarmente elevata (agricoltura, costruzioni, servizi alle persone). Se si con-centra l’analisi sui settori del commercio e dei servizi di alloggio e ristorazione, per i quali è più comune l’applicazione del CCNL del Commercio, si osserva come i lavora-tori con salari orari inferiori alla soglia siano comunque il 12 e il 22%, rispettivamente, degli occupati.

Sebbene nei discorsi sul lavoro povero spesso ci si focalizzi sull’occupazione dipen-dente, i cui redditi dipendono dai livelli salariali e dall’intensità occupazionale do-mandata sul mercato, il fenomeno è diffuso in misura anche maggiore tra i lavoratori autonomi. Va difatti ricordato che molti di questi lavorano di fatto in condizioni non troppo differenti da quelle dei lavoratori subordinati, con un solo committente, svol-gendo lavori etero organizzati (anche se con il Jobs Act si è tentato di mettere ordine) o comunque si trovano ad affrontare il rischio di povertà quanto i lavoratori dipendenti.

3. Va altresì sottolineato come si stiano confrontando redditi da lavoro (che includono i contributi) con retribuzio-ni: il fatto che un numero non trascurabile di lavoratori dichiari redditi da lavoro dipendente inferiori al minimo retributivo risulta pertanto più preoccupante.

Tabella 2 – Minimi salariali per i livelli di inquadramento più bassi (CCNL Commercio)

Volendo restringere l’analisi ai soli autonomi senza dipendenti, al fine di cogliere maggiormente le situazioni non lontane dalla subordinazione, si evidenziano livelli reddituali mediamente inferiori a quelli evidenziatisi per i dipendenti: basti sottoli-neare che il reddito lordo orario da lavoro autonomo mediano è poco più del 65% del salario orario mediano per i dipendenti; la differenza nei redditi mensili si riduce (al 74%) solo in virtù del maggior numero di ore mediamente lavorate dagli autonomi; in termini netti le differenze sono solo lievemente inferiori. Gli autonomi che nel 2015 si trovavano in condizioni di povertà (ovvero, con redditi inferiori ai due terzi delle mediane “di categoria”, livelli ben inferiori dunque alle soglie identificate per i dipen-denti) erano comunque tra i 582mila e i 594mila a seconda che si usino i redditi orari o mensili, pari al 20% degli autonomi senza dipendenti (e al 12,5% del totale degli autonomi). È evidente che anche per questa categoria, il fenomeno del lavoro povero è tutt’altro che trascurabile.