1.3 L’evoluzione storica delle migrazioni internazional
1.3.4 Il periodo della ricostruzione e del decollo economico
In Europa, gli eventi degli anni Trenta e Quaranta del Novecento cambiarono radicalmente le norme giuridiche di disciplina della migrazione internazionale: l’Olocausto e la Seconda Guerra Mondiale portarono alla creazione delle Nazioni Unite e all'adozione nel 1951 della Convezione di Ginevra sullo stato dei rifugiati, per cui l’ordine internazionale del dopoguerra finì col creare nuovi spazi giuridici (diritti) per i gruppi ed i singoli in accordo al principio di non-respingimento/non-refoulement. Il principio di non-refoulement78, che proibisce agli Stati il trasferimento di un individuo in un Paese dove possa correre un rischio reale di persecuzione o di grave violazione dei diritti umani, è un principio fondamentale del diritto internazionale e costituisce una delle più forti limitazioni al diritto degli Stati di controllare gli ingressi nel proprio territorio e di allontanare gli stranieri in quanto espressione della propria sovranità. Nel diritto internazionale dei diritti umani, la base giuridica del principio di non-refoulement si trova nell’obbligo di tutti gli Stati di riconoscere, garantire e proteggere i diritti umani di tutte le persone presenti all’interno della propria giurisdizione, e nella condizione che un trattato sui diritti umani venga interpretato e applicato in modo da rendere l’applicazione delle sue norme pratica ed efficace.
77 Ibid. pp. 95 e 98
78 International Commission of Jurists, L’immigrazione e la normativa internazionale dei diritti umani. Cit. pp.
32 L’Europa del secondo dopoguerra fu caratterizzato da una rapida ripresa e crescita economica in tutti gli stati più industrializzati dell’Europa Nord-occidentale. Ciò permise una ripresa dei flussi migratori (incoraggiando le migrazioni dal Mediterraneo, dall’Asia e dall’Africa verso il Nord America, il Nord Europa e l’Australia), favorendo anche una trasformazione della struttura dei modelli migratori interregionali e internazionali, poiché questi stati ampliarono i loro mercati del lavoro per sostenere la ricostruzione e lo sviluppo economico, incorporando lavoratori provenienti non solo da paesi europei meno sviluppati ma anche da paesi non europei, comprese le colonie e le ex-colonie.
Fino agli anni Settanta prevale il modello dell’insediamento permanente, di norma accompagnato dalla naturalizzazione che trasforma gli stranieri in cittadini destinatari di tutti i diritti e le opportunità di cui beneficiano i nativi79. Diversa è l’esperienza europea: l’immigrazione, governata attraverso specifici dispositivi di reclutamento di lavoratori a tempo e scopo definiti, assume una concezione funzionalista strettamente connessa ai fabbisogni congiunturali di manodopera e la figura tipica di questa fase è il Gastarbeiter80, il “lavoratore ospite”, introdotta in Germania per la prima volta, in quanto le politiche tedesche concepivano i lavoratori migranti come manodopera temporanea, che poteva essere assunta, utilizzata e mandata via secondo i bisogni dei datori di lavori. Le zone di reclutamento erano costituite dalle nazioni dell’Europa meridionale, con l’Italia in testa, dall’Irlanda e dalla Finlandia; poi, sempre più spesso dai paesi del bacino mediterraneo e del Nord Africa, tutte aree nate nel periodo coloniale creando così una riserva di manodopera disponibile a intraprendere un lungo viaggio con l’aspettativa di un lavoro e di un miglioramento delle proprie condizioni di vita.
Un tratto comune dei movimenti migratori del periodo 1945-1973 è la prevalenza delle motivazioni economiche81.
La Francia fu l’unico paese europeo dove il rapporto tra sviluppo economico e necessità di manodopera fu reso esplicito. Inoltre, il deficit di popolazione, aggravato dalle perdite di guerra, continuava ad essere visto come uno dei problemi di importanza primaria per la nazione82, e nel 1945 venne istituito l’Office National d’Immigration (ONI) con il compito di organizzare e facilitare l’immigrazione, su vasta scala, proveniente dall’Europa
79 L. Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, cit. p. 60 80 Ibid. p. 61
81 S. Castles and M. J. Miller, L’era delle migrazioni, cit. p. 132 82 S. Collinson, Le migrazioni internazionali e l’Europa, cit. p. 103
33 meridionale. Nel 1947, la Francia ridefinì lo status dell’Algeria come colonia con lo Statut organique de l’Algérie, che conferiva la cittadinanza francese a tutti gli algerini e confermava il principio del libero movimento tra l’Algeria e la metropoli83. In Algeria, l’esportazione di manodopera fu vista come una “vitale valvola di sicurezza84” per attenuare le pressioni sociali ed economiche della disoccupazione e della sottoccupazione. Come si è visto in precedenza, la migrazione di forza lavoro verso la Francia risaliva alla Prima Guerra Mondiale, quando gli algerini erano stati assunti nelle fabbriche francesi di munizioni, nelle miniere e nei servizi armati, ma nel 1962 la migrazione era diventata “una caratteristica massiccia strutturale e permanente” sia dell’economia algerina che per quella francese. Però, l’arresto dell’emigrazione fu facilitata, nel 1971, dalla migliorata posizione economica dell’Algeria in seguito alla nazionalizzazione dell’industria petrolifera, a tal punto che la nazione non era più dipendente dalle rimesse derivanti dall’esportazione di forza lavoro ed era in una posizione migliore per creare dei posti di lavoro sul territorio.
L’immigrazione era considerata come portatrice di benefici economici, ma le politiche migratorie francesi erano perlopiù indirizzate verso un’immigrazione su larga scala il più possibile idonea all’«adattamento» e all’«assimilazione» culturale.
Contemporaneamente a questo tipo di migrazione, la Francia guardava anche l’Italia come potenziale fornitrice di forza lavoro su larga scala, così, sia nel 1947 che nel 1951, firmò con il governo italiano una serie di accordi destinati a facilitare un’immigrazione di manodopera italiana e ad assicurare un certo grado di controllo statale sulla direzione dei flussi e sulla distribuzione settoriale e geografica dei lavoratori85. Gran parte di questa immigrazione, inizialmente, aveva un carattere maschile ma, man mano che il movimento maturava la percentuale di donne aumentava; era stagionale e veniva incontro alla necessità di manodopera agricola causata dalla massiccia migrazione della popolazione francese dalle campagne alle città.
Gli immigrati non europei erano relegati al fondo del mercato del lavoro, spesso in condizioni lavorative di sfruttamento86, vivevano in abitazioni spesso segregate e di qualità misera -tanto che negli anni Settanta iniziarono a comparire le bindovilles (vere e proprie baraccopoli)- e contemporaneamente erano sottoposti a una campagna di violenza razziale
83 Ibid. p .105 84 Ibid. p. 138 85 Ibid. p. 105
34 da parte dei gruppi di estrema destra. La Tunisia e il Marocco, nel 1963, firmarono accordi con la Francia (sebbene l’accordo tra Tunisia e Francia non sia divenuto operativo fino al 1969), promuovendo attivamente l’emigrazione attraverso i loro piani di sviluppo nazionali nel tentativo di ridurre le crescenti pressioni della disoccupazione e della sottoccupazione. La Gran Bretagna, nel 1948, approvò un Nationality Act che riaffermava il principio della libera circolazione all’interno dell’impero e del Commonwealth, stabilendo che tutti i cittadini delle colonie e del Commonwealth erano sudditi britannici e potevano esercitare pieni diritti di cittadinanza, compreso il diritto di voto. Dopo il 1962, l’entrata di lavoratori provenienti dal New Commonwealth cessò quasi del tutto, in parte per l’introduzione di severe limitazioni con il Commonwealth Immigrant Act dello stesso anno, e in parte per il prematuro inizio della stagnazione economica del Regno Unito87. Ma la maggior parte degli immigrati era arrivata per rimanere, mettendo in atto il ricongiungimento familiare che continuò fino a essere limitato dall’Immigration Act del 1971.
La Germania occidentale, nella metà degli anni Cinquanta, cominciò ad avere carenze di forza lavoro; il governo federale cercò, così, di risolvere il problema con accordi bilaterali sul reclutamento di manodopera con l’Italia nel 1955. I programmi di reclutamento di manodopera erano, oltre con l’Italia, nel 1968 con: Spagna, Grecia, Marocco, Turchia, Portogallo, Tunisia e Jugoslavia88. La Repubblica federale praticò, così, una politica dell’immigrazione «qualificata», alla quale concepiva la forza lavoro immigrata come risorsa manovrabile per risolvere problemi economici e trovava le proprie basi sull’intenzione di creare una sorta di rotazione di lavoratori con lo scopo di mantenere un equilibrio tra offerta e domanda nel mercato del lavoro: cioè i lavoratori ospiti dovevano restare per un periodo di tempo limitato e per fini strettamente connessi all’impiego, terminato il periodo lavorativo avevano l’obbligo di ritornare in patria per essere rimpiazzati da nuovi lavoratori a seconda della necessità. Ma tale modello si rivelò inefficace nel tentativo di mantenere l’immigrazione in equilibrio, perché la rotazione dei lavoratori era in conflitto con la preoccupazione degli imprenditori di avere una continuità di impiego di una forza lavoro qualificata, subentrando di fatto un sistema di immigrazione permanente.
87 Ibid. p. 128
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