L’IMMIGRATO COME STRANIERO
3.2 Lo straniero che incute paura
L’instancabile processo di ibridazione, di mescolamento, di contaminazione cui sono sottoposte culture e identità deriva da un incontro sempre asimmetrico di potere, dove il Noi si specifica definendo qualcun altro come estraneo e come escluso.
Per alcuni abitanti delle città lo straniero è gradevole in quanto gestiscono ristoranti che permettono di far sperimentare sapori eccitanti e non abituali, vendono oggetti curiosi e misteriosi, offrono servizi che altri non svolgerebbero. Sono stranieri che, parlando con il linguaggio economico, non metterebbero mai in discussione la libertà del consumatore in quanto, quest’ultimo fa le richieste, fissa le regole e soprattutto decide quando l’incontro inizia e quando finisce. Quindi, in parole povere, gli stranieri offrono esperienze gradevoli in quanto approvvigionatori di piaceri. E allora, per cosa si fa tutto questo chiasso e questo scalpore? Perché ci si (pre)occupa tanto degli immigrati?
Come afferma Bauman, il chiasso e lo scalpore arrivano da altre zone della città, popolate da persone che non hanno possibilità di scegliere chi incontrare, gente senza potere che collauda il mondo come una trappola; imprigionati senza poterne liberamente uscire, ma dove altri possono entrare e uscire con la piena libertà.
Oggi, il problema posto dagli immigrati stessi è in termini quantitativi illimitato: le stime attuali parlano di immigrati dal Terzo e dal Quarto Mondo in Italia che, tra regolari e clandestini, non superano le 800.000 unità, compresi turisti e gente di passaggio299. La percezione sulle migrazioni, influenzata dai media mainstream, è molto distorta: ad esempio,
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secondo i dati Ipsos-Mori300 si legge che molti italiani sono convinti che il paese sia stato invaso dagli immigrati e in particolare dai musulmani. Gli italiani sentiti dal sondaggio credono che nel paese ci sia il 30% della popolazione composta da immigrati (sono invece il 7%) e che il 20% dei residenti sia musulmano, mentre i musulmani sono appena il 4%. Da questi dati, si deduce come il popolo italiano è ignorante in termini di argomento sulle migrazioni.
Bisognerà trovare le ragioni, dell’interesse che l’immigrazione extracomunitaria suscita, anche nelle sue caratteristiche qualitative. Intanto, come ha notato Amalia Signorelli nel suo libro
Migrazioni e incontri etnografici, «bisogna dire che sono gli stessi emigrati che possiedono delle
qualità che li fanno percepire come molto più numerosi di quel che sono, in quanto li rendono molto visibili: esempio il colore della pelle e le caratteristiche somatiche in genere, la concentrazione periodica in certi luoghi e, viceversa, la presenza disseminata in molti luoghi in brevi archi temporali, a causa del mestiere di ambulanti che molti esercitano, carenza di abitazioni decenti e di luoghi di riunione collettivi, donde la necessità di passare molto tempo per strada e di riunirsi in luoghi come le stazioni, i giardini pubblici, le piazze, le gallerie, ecc.»301.
Il diverso è percepito come minaccioso non solo per ciò che lo rende diverso ma precisamente per ciò per cui ci assomiglia: non si odia e non si teme il negro che “fa il negro” ma il negro che pretende di “fare il bianco”302. I bambini del Biafra e del Sahel, la quale le campagne pubblicitarie delle organizzazioni internazionali ci mostrano quotidianamente, creano in noi un senso di pietà e commiserazione, invece gli africani vestiti bene che vogliono consumare, muoversi per l’Italia in macchina e posseggono il cellulare ci sembra che abbiano, quanto meno, delle pretese eccessive. Vengono, sì, accolti come interni, ma in una condizione di inferiorità, anche quando viene concessa a loro la cittadinanza, subendo discriminazioni che non dovrebbero conoscere essendo oramai cittadini.
Tale inferiorità si manifesta nei confronti dello straniero anche attraverso l’ostilità ai loro riguardi, risultato di un’intensa rivalità tra gli immigrati e gli autoctoni per il controllo delle risorse sociali scarse: come il lavoro e le case popolari; questa è una forma razionale di utilizzo della differenziazione sociale per l’accesso alle risorse, spesso accompagnata da razzismo e
300 www.ipsos.com
301 A. Signorelli, Migrazioni e incontri etnografici, Cit., p. 194 302 Ibid. p. 194
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xenofobia che costituiscono uno dei meccanismi più efficienti e più diffusi per questo tipo di esclusione. Pertanto, è più probabile che i conflitti razziali si intensificano in occasione di massicci flussi migratori e in periodi di crisi economica.
Per lo straniero, perciò, è prevista o l’integrazione o l’esclusione all’interno della società che li accoglie. Se gli stranieri non si integrano senza residui, allora avviene l’espulsione perché la loro somiglianza col cittadino di un altro stato, quindi col potenziale nemico, diventa insopportabile303.
Ma se da una parte, le ondate di xenofobia e i continui processi di messa a distanza che hanno luogo negli insediamenti abitativi delle città e nelle discriminazioni attuate all’interno del mercato del lavoro ci ricordano che lo straniero continua a suscitare il rifiuto; dall’altra, esistono movimenti di avvicinamento delle culture, particolarmente attivi nel mondo culinario, della moda o dell’arredamento, che ricordano quanto lo straniero attira e quindi affascina.
Generalmente il problema dell’integrazione dei migranti si è posto in Europa in maniera diversa di quanto non sia avvenuto nei vecchi paesi d’oltreoceano. Questo perché, nei paesi americani, l’immigrazione costituisce una componente dell’identità nazionale; mentre in Europa, dove c’era un’omogeneità etnico-culturale, è inevitabile che l’insediarsi di popolazioni diverse etnicamente possa porre una contraddizione difficile da risolvere. Infatti, non è un caso se il concetto di minoranze etniche è proprio della riflessione europea più di quanto non lo sia della tradizione americana, dove a lungo ha spiccato il mito del melting pot, ovvero il crogiolo in cui le differenze si mescolano e vengono incorporate in una vita sociale e culturale comune304. Ogni società, formata dagli autoctoni, adotta atteggiamenti e comportamenti diversi nei confronti degli immigrati. Ad esempio, il popolo italiano utilizza una sorta di “strategia”, intesa come una sequenza di azioni coerenti nella quale l’azione di un attore deriva da quella di un altro in interazione. Le strategie possono essere pure, ovvero sempre cooperative o non cooperative, o miste, composte sia dalla cooperazione che dalla non-cooperazione.
Gli studiosi hanno identificato tre grandi strategie di atteggiamento e di comportamento305:
• Rifiuto ed espulsione: è una strategia non-cooperativa, quindi conflittuale che tende a
rinviare a casa gli immigrati o allontanarli dai luoghi pubblici, dalle vie e dai quartieri,
303 S. Tabboni, Lo straniero e l'altro, Cit., p. 63 304 L. Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, Cit., p. 30 305 V. Cotesta, Sociologia dei conflitti etnici, Cit., pp. 341-342
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proprio perché sono indesiderati indipendentemente dal fatto che essi siano la causa o meno della disoccupazione e/o del degrado urbano. Alla base di ciò si rivela la figura dell’altro come nemico, invasore, colui che assedia il proprio territorio, insidia e violenta le proprie donne.
• Cooperazione e cittadinanza: è una forma di strategia cooperativa, qui emerge l’immagine
dell’altro come amico e fonte di arricchimento culturale e spirituale. Con questa si rivendica per gli immigrati la stessa cittadinanza goduta dagli autoctoni. Una variante di questa versione è il presentarsi di alcuni atteggiamenti paternalistici verso gli immigrati, in quanto vengono visti come coloro ai quali noi diamo qualcosa perché fratelli bisognosi (lavoro-alloggi-diritti).
• Inclusione subordinata: è un tipo di strategia mista e ambigua, dove l’immagine dell’altro
è debole perché il suo status di cittadino non ha importanza. Gli autoctoni sono favorevoli all’inclusione degli immigrati nel sistema produttivo e indifferenti o contrari alla loro integrazione culturale e politica.
Potremmo tracciare, da questa classificazione, la strategia maggiormente seguita dagli italiani: l’inclusione subordinata. Ciò vuole dire che, da un lato, le forme della cooperazione e della solidarietà non sono molto estese e che, dall’altro, i conflitti contro gli immigrati sono circoscritti e limitati306.
Gli immigrati seguono, anche loro, tale strategia nei confronti delle società ospiti, in quanto compatibile con il mantenimento di costumi e di stili di vita propri. I lavoratori immigrati, desiderano lavorare non interessandosi all’integrazione e alla partecipazione, ma solo più tardi comprendono che la partecipazione politica può costituire una risorsa per migliorare anche la condizione politica.
Anche la scelta dei termini con i quali è «corretto» definire i migranti può contribuire ad alimentare l’esclusione e la marginalità sociale di alcuni componenti della popolazione. In altre parole, le definizioni contano nella costruzione dei confini tra i vari gruppi etnici e nell’attribuzione di specifici ruoli sociali ai membri delle minoranze. Significative sono le modalità attraverso le quali il linguaggio comune definisce gli immigrati, di solito accentuando alcuni dei loro caratteri distintivi (l’aspetto fisico, il modo di parlare) e risaltando il ruolo da essi ricoperto nel sistema di divisione del lavoro. Ad esempio, in Italia si usa il termine «vu- cumprà» che riflette la particolare visibilità degli africani addetti al commercio ambulante
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nelle strade e sui marciapiedi, è stata coniata volutamente in modo sgrammaticale per generalizzare il fatto che gli africani in Italia sono tutti venditori ambulanti incapaci di parlare correttamente la lingua italiana. Oppure, gli stessi, vengono spesso chiamati «marocchini», anche se in molti casi sono di nazionalità senegalese, forse perché i primi a comparire sulle spiagge italiane fin dagli anni Sessanta furono proprio marocchini307. Non bisogna dimenticare come anche i nostri connazionali emigrati nei vari paesi sono stati definiti con un significato solitamente dispregiativo: basta ricordare l’appellativo Ritals in voga in Francia prima della Seconda Guerra Mondiale, utilizzato per indicare gli italiani e stigmatizzare l’incapacità di pronunciare correttamente la “r” francese.
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