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Il periodo “romantico”

Nel documento Giorgio de Chirico la vita e l'opera (pagine 128-137)

L’enigma di un pomeriggio d’autunno

18. Il periodo “romantico”

Significativamente de Chirico, che nel corso del 1921 era stato il maggior av-

versario teorico della tendenza al “secentismo”1 (al cui gusto corrispondeva

a Roma, in pittura, un ritorno all’ordine eclettico e “storicista” che faceva da contraltare a quello “purista” di “Valori Plastici”), alla chiusura della rivista, nel 1922, crollati in certo modo i baluardi programmatici e avanguardisti, rivede sostanzialmente le sue posizioni puriste e si apre a un originale lirismo

romantico, eclettico, che echeggia Courbet,2 Böcklin, von Marées.3 Elabora

anche, nei suoi nuovi dipinti, nature morte secentesche e una Roma barocca reinventata e pittoresca, con capolavori di poesia altissima ed evocativa. La visione diretta della mostra sulla Pittura italiana del Seicento e del Settecen- to, organizzata da Ugo Ojetti nel 1922 a Firenze, forse anche attraverso le discussioni con l’amico Castelfranco, deve aver prodotto delle suggestioni

tali da far ricredere l’artista.4 De Chirico si allontana così progressivamente

dall’idea astratta di classicismo, idea algida e programmatica, inadatta ormai a contenere la pienezza della sua vena poetica, ora soprattutto che la ten- sione all’interno del gruppo di Broglio (che voleva costruire un classicismo europeo alternativo a quello francese) si era allentata.

Con il ribaltamento dell’ispirazione dechirichiana si chiude dunque la sta- gione di “Valori Plastici”, e parallelamente si diffonde in Roma, divenendo lo stile dominante, un eclettico ritorno all’antico, caratterizzato da una luci- da e calcolata struttura dell’immagine, da un senso di attesa e sospensione li- rica delle cose, da un’aria di Museo e di Antico che rappresenta l’evoluzione della grande eredità del ritorno all’ordine radicale promosso dalla rivista. Il Museo diviene il termine di paragone privilegiato, la Storia nella sua totalità la musa ispiratrice.

Il ritorno all’ordine romano, già a partire dalla mostra di “Valori Plastici” del 1922 a Firenze, non ha più scissioni teoriche, non vede più polemiche tra Rinascimento e Barocco, tra puristi e storicisti: la visione si svolge da quel momento in una linea di tradizione ampia, di espressione legata a una realtà liricamente depurata e “magica”, in un’atmosfera di sospensione che

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e ricercato. Una vena fortemente lirica de Chirico l’aveva sempre avuta, e si era, se possibile, acuita al contatto con l’altro grande lirico dell’avanguardia parigina, Apollinaire. Basta scorrere i titoli dei quadri metafisici parigini e ferraresi per constatare come l’artista associasse sempre alle premesse filoso- fiche (“enigma”, “meditazione”, “filosofo”) contenuti e termini puramente lirici (“la statua silenziosa”, “le delizie del poeta”, “il sogno trasformato”, “malinconia della partenza”, “il canto d’amore”, “il doppio sogno di pri- mavera” ecc.). Del resto, uno dei principali motivi dell’avvicinamento di de Chirico a Nietzsche e al suo pensiero filosofico era stata proprio la forma so- stanzialmente lirica attraverso la quale il filosofo tedesco si esprimeva, ancor più, io credo, dei contenuti stessi (o meglio, perché quei contenuti assume-

vano quella forma).6 Questo particolare apprezzamento sub specie lyricae del

pensiero di Nietzsche traspare con grande chiarezza da un brano più tardo di Savinio:

Nietzsche è un lirico. È l’esempio più tipico del lirico. È l’uomo liricamente più completo che io conosca. Nonché la sua opera, la sua vita stessa è un fatto lirico. Il suo filologismo, il suo filosofismo, la sua filosofia del martello, la sua volontà di potenza, il suo politicismo, le sue idee sugli stati, sulla guerra sono altrettante forme di lirismo; e se non dico che la sua stessa poetica è una forma di lirismo, è perché non sarei seguito per vie così sottili. Ergo la filologia, la filosofia, la politica di Nietzsche vanno considerate more lyrici, sciolte da qua- lunque idea di fine.7

È senza dubbio per questa ragione che dal complesso sistema filosofico nietzschiano sono trapassati in de Chirico concetti forse collaterali, come quello della Stimmung del pomeriggio d’autunno (e non, ad esempio – al- meno non teoreticamente – l’idea del Superuomo [Übermensch]): cioè un concetto puramente lirico, non razionalizzabile nei termini filosofici tradi- zionali. Aspetto, questo, che indubbiamente attrasse de Chirico anche negli altri suoi interessi “filosofici” giovanili: Schopenhauer, Papini, i presocratici e in particolare Eraclito.

Le ville romane, ad esempio, nascono dalla tipologia di Villa am meer (1864) di Böcklin, ma si ispirano a luoghi effettivamente esistenti, romani (solo raramente, e una volta esplicitamente, de Chirico si ispirerà a un pae- saggio fiorentino: ma, come vedremo, nel disegno preparatorio il paesaggio era romano). La più antica di queste ville (1922) si ispira a una veduta dei monti Parioli più o meno da Villa Strohl-Fern, luogo d’artisti che egli fre- quentava assiduamente; le due case alle pendici della rupe tufacea incom- bente esistono ancora, e all’epoca erano tra le prime costruzioni del nuovo è data dalla ricerca di nessi metafisici tra immagine e pittura (la citazione

rielaborata).5 Trovò nuovamente larghissimo spazio nell’espressione dechi-

richiana un’ispirazione che attingeva all’intensa profondità del suo grande maestro ideale della giovinezza, Böcklin, risolvendosi in quel gruppo di quadri che egli stesso chiamò volentieri “romantici”. Böcklin prese così il sopravvento su Raffaello, Piero della Francesca e Giovanni Bellini; de Chi- rico si trovò a rimeditare forme e sistemi rappresentativi che già erano sta- ti fondamentali per l’incubazione ed elaborazione della Metafisica. Egli a questo punto coniuga liberamente tutti i contenuti che avevano trovato in passato espressione nella sua pittura, senza apparente ordine programma- tico, lasciandosi andare liberamente all’ispirazione. È ora la realtà che fa vibrare le sue corde, ma associata alla storia, con risultati di lirismo esplicito

Autoritratto con la rosa, 1923,

Villa romana (Paesaggio con cavalieri), 1923,

collezione privata.

Villa romana (Paesaggio romano), 1922,

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quartiere dei Parioli, solitarie in una campagna romana dal mitico afflato, alle soglie dell’urbanizzazione, dal carattere sottilmente inquietante, che uni- va un senso di antichità primigenia a edifici moderni, appena costruiti, per famiglie borghesi: un contrasto che egli accentuò con l’inserzione di un per- sonaggio femminile o ermafrodito, agitatore di nuvole come Mercurio, alto nel cielo terso di una giornata autunnale. Sulla natura di quel personaggio è difficile pronunciarsi, e probabilmente non è altro che un segnale del mito immanente alle cose, un “genio aptero” come quelli che pochi anni dopo il pittore evocherà in Hebdomeros: “L’esploratore guardava meditabondo i grandi genî apteri coricati sulle nuvole e pensava ai disgraziati orsi polari, aggrappati agli iceberg voganti alla deriva e i suoi occhi si inumidivano di

lacrime.”8 Senza addentrarci nell’analisi iconografica del bellissimo quanto

esiguo gruppo di quadri delle “ville”, noteremo che quasi tutte echeggiano un angolo “romantico”, suggestivo ed elegiaco di Roma, o più raramente di Firenze. Oreste e Elettra (seconda versione), da identificare con il quadro

esposto alla Seconda Biennale romana del 1923,9 propone un’interpretazio-

ne degli Horti Farnesiani sul Palatino, che viene ripresa nel contemporaneo Ottobrata: la forma del portico in basso, la sovrastante costruzione loggiata

Ottobrata, 1924,

collezione privata.

Oreste e Elettra (prima versione), 1923,

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Partenza dell’avventuriero (seconda versione), 1923,

collezione privata.

Nella prima versione di Oreste e Elettra si riconosce invece la via d’Ali- bert in Trastevere, vicino all’orto botanico, dove lo stesso de Chirico aveva il suo studio: il settecentesco villino d’Alibert è parafrasato quasi letteralmente nella costruzione che fa da sfondo al dipinto, ove viene ripetuta, in un colla- ge metafisico in cui tempo e spazio sono annullati, anche la loggia fiorentina di via Romana.

Alla Biennale romana del 1923, nella sala più innovativa della mostra, che vedeva concentrati quasi tutti gli artisti (Oppo, Guidi, Severini, Ferruccio Ferrazzi, Biagini) che fecero parlare (non senza polemica) la critica contem- poranea di “neoclassicismo”, de Chirico espone un gruppo di ben diciotto opere, quasi una mostra personale, cui faceva da raffronto l’astratto classi- cismo di Severini. È la stagione “autunnale” di de Chirico, quella segnata da un clima metereologico che diviene metafora di languore e di infinito, suggellata dal tema di uno dei suoi più noti dipinti del periodo, Ottobrata, allusivo alle famose, dolci giornate d’ottobre romane. È un topos che si ri- trova in ogni quadro di questo periodo compreso tra il 1922 e il 1924, una sorta di sigillo poetico: quello dell’autunno. La stessa nascita della Metafisi- ca era intellettualmente legata alla Stimmung del pomeriggio d’autunno, mo- mento privilegiato dell’intuizione vaticinante. Era stato Nietzsche a istillare

questo tema profondo e lirico nell’animo di de Chirico.11 Anche le nature

a due corpi che ancor meglio si legge in Ottobrata, l’aura classica e fron- dosa dell’aulico colle retrostante colgono la Stimmung di quel luogo fatale collocandolo in un contesto atemporale, trasfigurandolo. Anche la Partenza dell’avventuriero, esposto nel 1929 con il titolo Paesaggio fiorentino, nasce da un immaginario romano (lo prova il disegno preparatorio, titolato Il ritorno del cavaliere errante, che riprende una veduta del Tevere da Testaccio, con l’Aventino su cui sorge la chiesa di Sant’Alessio in stile neoromanico, e con la loggia che ricorda i contrafforti piranesiani dei Cavalieri di Malta); tutta- via, nella realizzazione finale del quadro, destinato all’amico e sostenitore fiorentino Castelfranco, l’artista decide di “fiorentinizzare” il contesto: così il tempietto rotondo sul fiume è ripreso da quello esistente in via Romana, il palazzo sulla sinistra è un tipico palazzo quattro-cinquecentesco fiorentino, e il colle sembra quello di San Miniato, con il piccolo borgo di Porta San Miniato ai piedi. Un altro quadro, La ninfa Eco, riprende uno scorcio della

casa fiorentina di Castelfranco,10 ed è un ulteriore omaggio all’amico storico

d’arte.

Partenza dell’avventuriero (prima versione), 1923,

Oreste e Elettra (seconda versione), 1923,

collezione privata.

Villa d’Alibert a Roma.

Il ritorno del cavaliere errante, 1923,

collezione privata.

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Natura morta con busto classico, fine 1923,

collezione privata.

morte dipinte tra il 1922 e il 1924 alludono implicitamente all’autunno: le melagrane, l’uva col bicchiere di vino nuovo, la selvaggina, le mele, ogni elemento rimanda, come nelle antiche allegorie delle stagioni, all’autunno. Allo stesso modo, sovente vi alludono i titoli dei quadri esposti all’epoca: Frutti dell’autunno, Il Dio Bacco, Il pomeriggio dell’autunno, fino all’enig- matica Ottobrata, esposta alla Biennale veneziana del 1924 e fin da allora criticata per il soggetto “oscuro”. Ma il vero soggetto di ogni quadro dipinto in quell’epoca “romantica” è proprio l’autunno, la Stimmung dell’autunno. Roma e, di riflesso, la böckliniana Firenze sono fino al 1924 il luogo privi- legiato della poesia libera e distesa di de Chirico, le note del suo canto ele- giaco, i sentimenti elegiaci dell’addio e della partenza che egli rappresenta in un altro intenso e struggente quadro dell’epoca, giustamente identificato da Fagiolo dell’Arco con Tibullo e Messalla: il grande poeta elegiaco romano

che saluta, malato, l’amico che parte per la guerra.12 L’autunno come topos,

come luogo temporale, non meno pregnante del luogo reale ed evocativo delle ville romane.

In questa ottica i luoghi divengono una complessa categoria dello spirito, un insieme di natura, storia, cultura e mito, capaci di coagulare la Stimmung dell’artista. Gli stessi, identici temi della prima Metafisica, le identiche pre- messe filosofiche e pittoriche sono svolte in modo ora completamente diver- so, ma il contenuto rimane di una coerenza impeccabile.

Alle pagine precedenti:

Il bicchiere di vino, 1923,

Autoritratto con Savinio, 1924,

collezione privata.

Tibullo e Messalla (Gli addii del poeta), 1923,

19. Il nuovo soggiorno parigino

Nel documento Giorgio de Chirico la vita e l'opera (pagine 128-137)