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Tra “surrealismo” e pittura della realtà

Nel documento Giorgio de Chirico la vita e l'opera (pagine 179-188)

tra Renoir e Derain, una nuova idea di classicismo moderno

23. Tra “surrealismo” e pittura della realtà

Già nel 1928 de Chirico aveva scritto quel Piccolo trattato di tecnica pit- torica, che, parallelamente all’exploit puramente “surrealista” del romanzo Hebdomeros, impostava in termini ancora interlocutori la questione di un ritorno alla tradizione pittorica antica: “So benissimo, come ogni uomo che non vive nelle nuvole, che si possono creare opere indimenticabili con mezzi scarsi quando si ha del genio o per lo meno dell’ingegno, ma quello che non è permesso è l’ignoranza, e, per quanto io sappia, non v’è pittore che si rispetti, antico o moderno, che abbia ignorato e che ignori la tecnica della

pittura.”1 La questione tecnica della pittura elaborata col Piccolo trattato è

da principio una riflessione che non incide direttamente sul risultato del- le ricerche in senso attuale e moderno del linguaggio pittorico (si veda la contemporanea, polemica intervista su “Comœdia” che abbiamo ricordato sopra), ma che lavora in senso sotterraneo, lentamente, sulla premessa che dipingere accuratamente non può di per sé inficiare il senso profondo – e moderno – della ricerca artistica. E la contemporanea direzione in questo senso di alcuni artisti, come Magritte o Balthus, che sulla finezza tecnica basavano l’efficacia straniata dei loro dipinti, contestualizza nitidamente queste riflessioni. In seguito, ma solo verso la fine del decennio successivo, il piacere della bella pittura conquista invece a tal punto l’artista da farne definitivamente il centro dei suoi interessi.

De Chirico lasciò Parigi, come molti altri artisti, a causa degli effetti della

crisi economica del 1929,2 per ritornarvi in seguito, in diversi momenti. Ne-

gli anni trenta, in cui soggiorna tra Italia, Stati Uniti e Francia,3 egli giunge a

una libera trattazione dei temi poetici e stilistici che aveva creato nei decenni precedenti, inventandone ancora di nuovi: passa così con disinvoltura dai soggetti parigini della seconda metà degli anni venti (cavalli sulle spiagge della Tessaglia, archeologi dai corpi colmi di rovine classiche e detriti di ricordi, paesaggi chiusi nelle stanze, oggetti misteriosi e gladiatori inquie- tanti provenienti da romanità oniriche) a un realismo elaborato sulla pittura

antica (dal Renoir più solare e “mediterraneo” al Velázquez romano),4 ai

San Juan les Pins, 1930,

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Manichini coloniali, 1933 ca.,

collezione privata.

“bagni misteriosi”,5 presentati per la prima volta alla Quadriennale del 1935,

alle scene teatrali con “borghesi” in costume (memori della messa in scena dei Puritani di Bellini al Maggio Musicale Fiorentino del 1933), alle ancora rarissime repliche (ma ancora in quel periodo soprattutto reinterpretazioni) metafisiche, a scene classicheggianti, a paesaggi e nature morte di stranissi- ma evidenza realistica, contraddetta da una pittura quasi autonoma e autore- ferente nel ductus e nella materia cromatica ricca di timbri inusuali.

Questo curioso atteggiamento di commistione di diversi stili, riuniti sotto la stella polare della personalità unificante e geniale dell’artista, avrà una pri- ma, evidente concretizzazione visiva e plastica nella sala che gli viene dedica- ta alla seconda Quadriennale romana del 1935, cui, proprio per l’eclettismo che vedeva affiancati temi apparentemente realisti o tradizionali (autoritratti nello studio, nudi nel paesaggio) a immagini totalmente inventate, nel solco perfetto della Metafisica (I bagni misteriosi), e soggetti inquietanti o mitolo- gici degli anni venti (combattimenti di borghesi, dioscuri con cavalli), non furono risparmiate critiche dall’ambiente italiano più tradizionalista.

Cavalli e cavalieri in riva al mare, 1932-1933 ca.,

Ruines étranges (I contemplatori di rovine), 1934 ca.,

collezione privata.

Nobili e Borghesi, 1933,

Autoritratto nello studio, 1934,

La Galleria Nazionale, Roma. Alla pagina a fronte, dall’alto in basso:

Puritani e centauro in riva al mare, 1934 ca.,

collezione privata.

I Dioscuri con i compagni in riva al mare, 1934-1935,

23. trasurrealismoepitturadellarealtà 365

La pittura di marca più evidentemente realista costituisce la prima speri- mentazione di uno stile volutamente (ma solo in apparenza) sganciato dalle “invenzioni” che avevano caratterizzato la sua pittura della seconda metà degli anni venti, innestandosi sempre con maggiore convinzione in un dialo- go platonico con una tecnica capace di rendere, come nei pittori del passato, non tanto la “realtà”, quanto l’apparenza della realtà. Questa accezione è confermata proprio dalla compresenza, a fianco di soggetti tratti dal “vero”, della varia gamma di tipologie del suo recente passato interpretate però in una chiave più realistica, cosa che comporta uno “scollamento” tra l’appa- renza reale e l’invenzione surreale. In definitiva, l’intento profondo si rivela quello di far apparire quei soggetti fantastici ancora più enigmatici, grazie a una resa mimetica della realtà.

Come nella pittura antica, i soggetti mitologici o fantastici sono ora resi esattamente, come calati in un’esistenza fenomenica. Velázquez, in parti- colare, sembra suggerire, attraverso dipinti come La fucina di Vulcano o la Venere allo specchio, una chiave in cui soggetti di fantasia si adagiano “meta- fisicamente” nella concreta esperienza quotidiana. Il confronto tra l’Autori- tratto e I bagni misteriosi, esposti nella medesima sala della Quadriennale, in cui la pittura non ha scarti espressivi pur nella radicale differenza semantica dei contesti, ci presenta e svela la nuova via intrapresa da de Chirico nella perenne resa dello stupore “metafisico”.

È proprio nel 1934 che emerge il primo intenso accenno all’applicazio- ne pratica (e più determinante negli esiti della tecnica pittorica) dei canoni tecnici che abbiamo visto inizialmente registrare, con valenze ben diverse, nel Piccolo trattato di tecnica pittorica del 1928, inteso nel momento in cui fu scritto quasi come uno studio puramente concettuale. Nell’ottobre del 1934, durante la preparazione del vasto insieme di quarantacinque quadri predi- sposti per la sala personale alla Quadriennale di Roma del 1935, de Chirico scrive all’amico Nino Bertoletti: “Malgrado tutto ciò e, simile a quei monaci che all’alba del medio-evo, mentre i barbari mettevan l’Europa a fuoco ed a sangue, seguitavano imperterriti a studiare e scrivere cronache, come quei

monaci dico in mezzo ai guai seguito a perfezionare la tecnica pittorica”.6

I bagni misteriosi, nati per illustrare nel 1934 un libro dell’amico Jean

Cocteau (Mythologie),7 scaturiscono dalle memorie infantili dei bagni di

Alla pagina a fronte, dall’alto in basso:

Sera d’estate, 1934,

collezione privata.

Bagnanti sopra una spiaggia, 1934,

Dall’alto in basso:

Le cabine misteriose, 1934-1935,

Palazzo Merulana, Collezione Cerasi, Roma.

Il cigno misterioso, 1934-1935,

The Barnes Foundation, Philadelphia. Alla pagina a fronte, dall’alto in basso:

Bagni misteriosi, 1934,

collezione privata.

I bagni misteriosi, 1934-1935,

giorgiodeChiriCo. lavitael’opera

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Le cabine di Anavros a Volos, 1900 ca.

Max Klinger, Accorde, da Brahmsphantasie – Opus XII, 1894, collezione privata.

Volos incrociati a una fulminea suggestione (decisamente “surrealista”) di un pavimento di parquet lucido che fa nascere nell’artista l’impressione di una superficie acquatica nella quale sembrano sprofondare le persone che vi camminano. Mentre in epoca più tarda de Chirico ricorderà solamente la

suggestione del parquet,8 in un articolo quasi contemporaneo (del 1936), i

cui dettagli furono di certo resi dall’artista direttamente, si chiarisce anche l’inquietante ricordo infantile:

A parte un sentimento di esistenza sospesa questi dipinti devono dipendere da una trascrizione letteraria del loro significato esoterico. Quando de Chirico era bambino nella sua nativa Grecia, il padre siciliano che lavorava come ingegne- re a Volos, lo accompagnava talvolta ai bagni. Il ragazzo era profondamente impressionato dalla differenza che percepiva tra le figure vestite e spogliate. Sembravano come differenti specie di animali in differenti sfere di esistenza. L’uomo vestito, schiacciante e maestoso come le statue, torreggiava sui nuota- tori, che apparivano esposti e indifesi. Le piccole cabine, con le loro finestre a feritoia, erano come teste mascherate che controllavano la scena. Tempo dopo, un’associazione subconscia si realizzò tra questa impressione infantile e i bril- lanti pavimenti di parquet, che si identificò con la superficie dell’acqua.9

A questi corto circuiti di squisito sapore surrealista (o meglio, metafisico: ricordi quasi psicanalitici d’infanzia e associazioni automatiche di immagini) si sovrappone una suggestione invece artistica, risalente alle sue esplorazioni giovanili, segnatamente monacensi, la cui pregnanza di senso aveva già fis- sato in un articolo del 1920, in pieno clima di ritorno all’ordine (che illustra quanto rimanga del mistero metafisico anche nella sensibilità classicista di

quel periodo): si tratta di un’incisione di Klinger,10 il cui soggetto misterioso e

inspiegabile avrebbe operato a lungo nella coscienza dechirichiana, prima di reificarsi nei Bagni misteriosi. Da Klinger del resto, dalla Storia di un guanto, de Chirico aveva già trovato ispirazione per l’enigmatico guanto di Le chant d’amour (1914), capolavoro della Metafisica parigina. A queste già numerose associazioni va probabilmente aggiunta la suggestione della rappresentazione dell’acqua marina a zig-zag presente in certi mosaici romani della Tunisia e della Libia (allora italiana), che de Chirico aveva accuratamente compulsato (un riflesso di quei mosaici si coglie ad esempio nel ciclo dei “gladiatori”) e che molte nuove scoperte archeologiche avevano allora portato alla ribalta (piuttosto che analoghe ma più remote – per l’immaginario dechirichiano – immagini di affreschi egizi, riferite ad esempio da Calvesi).

Nella seconda metà del decennio de Chirico si spostò in continuazione, ritornando più volte a Parigi, soggiornando a lungo negli Stati Uniti (dove espose con il gallerista Julien Levy), viaggiando a Londra e tornando infine a

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La cultura del tempo, 1933, pittura murale per il Salone d’Onore della V Triennale di Milano (distrutto).

Nella nicchia Le arti, mosaico di Gino Severini.

Milano dopo lo scoppio della guerra. Il successo internazionale, nonostante la crisi economica e l’ostilità prolungata dei surrealisti, è notevole, e le sue mostre si moltiplicano a ritmo vertiginoso in tutte le città d’Europa, d’Italia, d’America.

Alternandosi tra una rielaborazione interiore (“metafisica”) di dati reali e una costruzione di spazi puramente mnemonici, la visione dechirichiana, progredendo negli anni trenta, muta lo stile pittorico, che diviene più cor- poso e sensuale, e la sua stessa concezione estetica si propone con ulteriori caratteri di novità: l’artista torna ad appassionarsi, dopo il momento surreal- mediterraneo, alla tecnica “antica” della pittura, proponendo alla fine, ne- gli anni della seconda guerra, un’identificazione, una sorta di transfert tra i grandi pittori del passato e se stesso. Egli riprende in certo modo i principi di “ritorno al mestiere” dei primi anni venti, ma radicalizzandoli, enfatiz- zando il carattere tecnico dell’opera: per de Chirico, sempre più, il valore assoluto delle grandi opere del passato sembrava dipendere principalmente se non esclusivamente dalla perizia tecnica e dalla raffinatezza espressiva della tavolozza, e dunque i valori essenziali dell’arte vengono espressi in ma- niera completa e organica attraverso una realizzazione pittorica alta sotto l’aspetto tecnico e brillante. In questa complessa impresa di sostituzione dei contenuti specifici del medium artistico a quelli ritenuti complementari, e non intrinseci alla sostanza essenziale della pittura, fu ovviamente determi-

Mosaico di una villa romana,

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L’autunno, 1935,

Museo del Novecento, Milano.

nante la posizione polemica nei confronti delle avanguardie internazionali, surrealisti in testa, che pervicacemente insistevano a contestare aspramente la sua attività successiva al 1918. De Chirico spostò quindi, lentamente ma progressivamente, la sua ricerca sugli aspetti che lo andavano interessando in maggior misura, facendo infine rientrare in quei parametri (con evidenti forzature polemiche) anche tutta la sua attività precedente.

In questa nuova visione del mondo l’artista perderà, a mano a mano, ogni interesse per qualsiasi riferimento alla realtà, ma altresì per i suoi paradossi interiori, simbolici e stranianti. Saranno i temi della pittura, creati dal suo genio artistico senza tempo, a divenire oggetto del dialogo arcadico di de Chirico: valli e campagne idilliache, classicheggianti o barocche, costella- te da edifici pittoreschi o favolosi, luoghi di pura resa edonistica; ritratti dall’evidenza ufficiale, che mescola realismo e fantasia pittorica con citazioni eterogenee da secoli differenti; gli archeologi si trasformano in cavalieri in vesti araldiche e nobili in borghese, personaggi da melodramma scesi da un palcoscenico e incapaci di accorgersi dello straniamento della realtà.

Cavalli antichi spaventati dalla voce dell’oracolo, 1935,

Nel documento Giorgio de Chirico la vita e l'opera (pagine 179-188)