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L’esordio del classicismo

Nel documento Giorgio de Chirico la vita e l'opera (pagine 116-128)

L’enigma di un pomeriggio d’autunno

17. L’esordio del classicismo

Il classicismo pittorico di de Chirico non è ancora, all’altezza cronologica dei primi mesi del 1919, formalmente attuato ma solo episodico e concettuale, e il suo linguaggio rimane ancora sostanzialmente “metafisico”. È in questo momento, e fino alla primavera, che egli dipinge alcuni dei capolavori finali della Metafisica, I pesci sacri e Melanconia ermetica, nonché due nature morte rispettivamente con il salame e la cassata siciliana, opere di passaggio in cui la pittura si ispessisce nella ricerca di una qualità autonoma, arricchendosi di velature e soprattutto di una materia più grassa e modulata. Anche lo spazio antinaturalistico, onirico, della Metafisica ferrarese va ricomponendosi in un’unità più plausibile, anche se non ancora definitivamente classicista. Un primo, istintivo quanto epifanico e visionario (“metafisico”) interesse per il museo si concretizza proprio mentre era in corso la mostra da Bragaglia: “Fu al Museo di Villa Borghese, una mattina davanti ad un quadro di Tiziano, che ebbi la rivelazione della grande pittura: vidi nella sala apparire lingue di fuoco, mentre fuori, per gli spazi del cielo tutto chiaro sulla città, rimbombò un clangore solenne, come di armi percosse in segno di saluto e in un con il formidabile urrà [sic] degli spiriti giusti echeggiò un suono di trombe an-

nuncianti una resurrezione.”1

Le conseguenze non sono però immediate. L’artista, fino all’estate 1919, rimane comunque puramente metafisico, e la forza plastica e visionaria del- le sue scene non è avversa all’avanguardia, al futurismo in particolare, che

egli considera ancora una “necessità […] indiscutibile”,2 un movimento che

“giovò immensamente”3 alla nuova arte; solo dopo la metà dell’anno la sua

posizione si ribalta, nella ricerca di un classicismo antiavanguardistico e di un ritorno al mestiere degli antichi, per cui ogni futurismo diviene un’aberra- zione che “non ha nullamente giovato alla pittura italiana”, come esclamerà

nel numero di novembre-dicembre 1919 di “Valori Plastici”.4 Col “ritorno

all’ordine” del dopoguerra, avviato sotto l’egida di Mario Broglio (direttore della rivista “Valori Plastici”, alla quale il pittore collabora assiduamente), av- viene un ulteriore e sostanziale salto stilistico: il senso “metafisico”, interiore, Aiutato dalla sua efficace prosa letteraria, Longhi scrisse dunque una

stroncatura dal chiaro sapore di killeraggio, a onor del vero uno dei suoi pezzi più infelici, uscito per giunta il giorno successivo (22 febbraio) alla chiusura della mostra, artatamente, per non concedere al pittore neppure il

ritorno del “successo di scandalo”.21 Tra le cattiverie inutili e gratuite conte-

nute in quel testo, troviamo quella di cui si sarebbe valso in seguito Breton, cioè che alcuni temi della Metafisica derivassero da Savinio (che certo non era farina del suo sacco, visto che Longhi fino ad allora non conosceva i due fratelli), dimezzando così l’invenzione dechirichiana. Come si diceva, l’arti- colo ebbe l’effetto di deprimere criticamente de Chirico nel confronto con Carrà, amico di Longhi. Anche se gli effetti furono a macchia di leopardo, aleggiarono a lungo nella cultura italiana, se non altro consentendo e auto- rizzando giudizi tranchant, anche di altri critici diversamente orientati, sul più grande e certamente più complesso artista italiano del XX secolo.

Melanconia ermetica, inizio 1919,

Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Paris.

I pesci sacri, inizio 1919,

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Da notare una curiosa concomitanza di dolori psicosomatici allo stomaco,6

che legano idealmente questo periodo di incubazione del nuovo classicismo all’invenzione fiorentina della Metafisica. È decisamente singolare l’effetto creativo provocato dallo stato d’animo dell’artista, sollecitato in entrambi i casi da un malessere fisico, che produce una nuova “visione” dell’arte. Que- sta volta in chiave di platonismo idealista, benché sempre venato di pessimi- smo schopenhaueriano e di visionarismo nietzschiano.

Egli aveva a dire il vero già dipinto, nella tarda primavera, opere ispirate all’Antico, come l’Autoritratto con la madre, incluso infatti nella sua prima succinta monografia in corso di stampa, ed evidentemente influenzato sia da Raffaello sia da un classicismo “all’antica”, non però ancora dimentico di scatti metafisici. Lo stato di conservazione di questo dipinto, ossidato e serpeggiato da craquelures profonde, indica anche un inizio sostanzialmente

Ritratto d’uomo (dettaglio dal Ritratto di Gentiluomo di Lorenzo Lotto della Galleria Borghese di Roma),

luglio 1919.

della composizione pittorica sembra dover ora permeare non dallo spae- sante assemblaggio di oggetti disparati e onirici, ma da composizioni “clas- siche”, ispirate al senso astrattivo e assoluto della pittura rinascimentale, in una ricostituzione ideale dell’ordine costruttivo dell’antica arte italiana.

Nella prima metà del torrido luglio 1919, accompagnato da un nuovo amico, il pittore Armando Spadini (molto legato ai suoi neocollezionisti Signorelli), egli esegue la sua prima prova di copia dall’antico, sul ritratto di Lorenzo Lotto della Galleria Borghese: “Era l’estate del 1919. A Roma face- va un gran caldo […] Avevo deciso di copiare al Museo di Villa Borghese un quadro di Lorenzo Lotto. Prima non avevo mai fatto copie nei musei; parlai del mio progetto a colleghi ed amici e tutti, più o meno benevolmente, sor- risero sotto i baffi […] Mentre copiavo il quadro di Lorenzo Lotto vedevo

spesso Spadini che veniva al museo e con lui parlavo della pittura antica.”5

Ritratto dell’artista con la madre, fine primavera 1919,

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In verità la rivista “Valori Plastici” ai suoi esordi ancora non è la grande macchina da guerra del nuovo classicismo, né lo sono i medianici articoli di Carrà o le elucubrazioni sublimi di de Chirico o Savinio. Edita Walterowna zur Muehlen (poi moglie di Broglio) ancora presenta come plausibili opere del nuovo movimento, pubblicandole sulla rivista nel corso del 1919 (ed esponendole nella mostra dal gruppo di “Valori Plastici” in Germania, nel 1921), quei Paesi incandescenti che aveva esposto alle Secessioni romane, dagli echi mitteleuropei e dal visionarismo alla “Blaue Reiter”.

Ma l’attualizzazione, la compenetrazione dell’ordine antico con le regole avanguardiste (quel positivo apprezzamento per i futuristi di de Chirico che abbiamo sopra menzionato ne è una cartina tornasole), ancora comprensibi- le nell’ottica della Metafisica, doveva apparire ormai a Roma, a metà 1919, come eresia: se ritorno vi doveva essere, questo doveva essere totale, “ritorno al mestiere”, transfert con i pittori dell’antichità, negazione di ogni aspetto

La vergine del tempo, luglio-novembre 1919,

collezione privata.

Da “Valori Plastici”; il quadro è attualmente interamente ridipinto.

acerbo di riflessione sulle tecniche antiche, ma ancora non veramente di- staccato dalle solide paste metafisiche. In seguito infatti, a partire proprio

da quelle meditazioni alchimistiche,7 suggerite dalla copia museale e carat-

terizzate da velature esagerate quanto inesperte, egli eseguirà una serie di dipinti, tra il luglio e il novembre, tra cui un Autoritratto, Il ritorno del figliol prodigo, La vergine del tempo, Natura morta con le zucche, Diana, che sono tutti segnati dalle ossidazioni e dai prosciughi avvenuti per l’ancora incerta sperimentazione della tecnica ad olio “all’antica”. Nel Ritorno del figliol pro- digo, il primo quadro di particolare impegno compositivo dipinto nel nuo- vo clima di ricerca, gli edifici hanno una funzione puramente di sfondo, di quinta; sono ancora legati agli stilemi squadrati della Metafisica ma il gruppo

in primo piano si ispira all’arte austera di Carpaccio.8 Il magnifico Autori-

tratto con busto antico e pennello (sempre datato 1919), vero manifesto di un dipingere all’antica, è invece conservato assai meglio e mostra un più

maturo (e dunque successivo: risalente circa alla fine dell’anno)9 controllo

della tecnica pittorica.

Il ritorno del figliol prodigo, luglio-novembre 1919,

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trocentesco (Perugino, Carpaccio ecc.) sono i suoi grandi modelli, evocativi

di un classicismo che chiamerà “olimpico”.11 Nel corso del 1919 si collocano

anche alcuni suoi spostamenti a Milano, a Ferrara (dove rivede e frequenta la sua promessa sposa), a Bologna (dove certamente incontra Morandi) e soprattutto ad Arezzo (dove vedrà Piero della Francesca proprio in quel

momento di fatidica ispirazione al Rinascimento più astrattivo).12

Nell’autunno-inverno 1919 le scelte dechirichiane sono ormai nitide e ra- dicali, accompagnate da una vasta attività teorica e critica espressa sulle ri-

viste di punta del momento.13 Nel novembre 1919 de Chirico si trasferisce a

Milano, per inserirsi e prendere contatto con quell’ambiente milanese domi- nato da Carrà, che lì aveva tenuto la sua prima mostra “metafisica” lasciando credere di essere l’ideatore di quella rivoluzione; nel gennaio 1921, infatti, vi

terrà una mostra personale14 in cui sono presenti le opere del “periodo gio-

vanile 1908-1915” che dovevano sancire indiscutibilmente la sua primoge- nitura sulla Metafisica. Ma le opere del 1919-1920, tra cui capolavori come Mercurio e i metafisici e Il saluto degli Argonauti partenti, oltre a varie teste

Diana (Vestale), luglio-novembre 1919,

Palazzo Merulana, Collezione Cerasi, Roma.

del “moderno” e delle formule analitiche o sintetiche dell’avanguardia. Mu- seo, tradizione e classicità non lasciavano spazio, come dogmi indiscutibili, a nostalgie modernizzanti. De Chirico ne diviene il teorizzatore più radicale:

L’aver negletto la rappresentazione antropomorfa, l’averla deformata, incorag- giarono legioni intere di pittori alla riproduzione scema e facile […] Tornare al mestiere! Non sarà cosa facile, ci vorrà tempo e fatica […] Col tramonto degli isterici [gli “avanguardisti”, evidentemente, N.d.A.], più di un pittore tornerà al mestiere, e quelli che ci sono già arrivati potranno lavorare con le mani più libere e le loro opere potranno essere meglio apprezzate e ricompensate. Per mio conto sono tranquillo, e mi fregio di tre parole che voglio siano il suggello d’ogni mia opera: Pictor classicus sum.10

De Chirico distillerà, tra il 1919 e il 1921, pochissimi dipinti, arrovella- ti da sperimentazioni pittoriche all’antica che come s’è detto inizialmente ne comprometteranno, nella loro complicazione tecnica, la conservazione (come nelle opere di Leonardo); Raffaello giovane e il Rinascimento quat-

Natura morta con le zucche (Le zucche), luglio-novembre 1919,

Mercurio e i metafisici (La statua che si è mossa), 1920,

collezione privata.

Autoritratto con busto antico e pennello, novembre-dicembre 1919,

Edipo e la Sfinge (Il tempio di Apollo), 1920,

collezione privata. Icona greca del XIX secolo,

Museo Benaki, Atene.

La signorina Amata, 1920,

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(ritratti e teste mitologiche) e scene misteriose come Edipo e la Sfinge (Il tempio di Apollo), dipinti tra Milano, Roma e Firenze (città dove lungamente

soggiorna ospite dell’amico, collezionista e sovvenzionatore Castelfranco),15

esprimono una qualità “greca” e rinascimentale fuori dal tempo, in cui le pro- spettive si ritarano sulla misura centrale del Rinascimento e le figure guardano a Raffaello e insieme alle tracce di Apelle presenti nella pittura antica. Persino vi si può cogliere un’eco sottile della tecnica delle icone greche, interpretata evidentemente nella sua accezione di ultima erede e propaggine della sublime pittura della Grecia antica (Apelle è citato nei sui scritti dell’epoca), che ser- virà a de Chirico per ragionare ampiamente su questo “ritorno” tecnico fuori dal tempo (è evidente, ad esempio, in opere del 1920 come Edipo e la Sfinge e La signorina Amata). La familiarità con la pittura di icone risaliva peraltro alla sua educazione greca, nonché all’amicizia col collega Stàvros Kantzìkis, che la

praticava.16 Anche la stessa tecnica pittorica, che ancora inizialmente era l’o-

lio, viene mutata progressivamente in una tempera all’uovo che, come scriverà

alla fine del 1921 a Breton,17 “illumina di una luce nuova” la visione pittorica.

Anche la tendenza della rivista “Valori Plastici” è ormai serrata su un’ispi- razione all’antico senza compromessi: i valori plastici sono quelli del Rinasci- mento (de Chirico) o del Trecento italiano (Carrà). Carrà pubblica, sul nume- ro di novembre-dicembre 1919 della rivista Le figlie di Loth, il primo quadro che esce definitivamente dalla Metafisica per enunciare i principi del “Rin- novamento della pittura in Italia” secondo i valori, molto diversi da quelli dechirichiani, della pittura giottesca e primitiva. Nello stesso numero Giorgio Morandi presenta una sua natura morta ancora legata alla Metafisica (a cui egli si era avvicinato attraverso l’esempio sintetista di Carrà) e una più recente in cui l’ordine di una realtà oggettiva pone già gli oggetti in una dimensione di spazio cubato rinascimentale. De Chirico pubblica su “Valori Plastici” nel luglio-agosto 1920 i suoi primi quadri neorinascimentali (Autoritratto, La si- gnorina Amata, La vergine del tempo, Il ritorno del figliol prodigo; ma già nel 1919 aveva pubblicato, come s’è detto, il programmatico Autoritratto con la madre, sintesi della sua idea di classico, nella monografia edita sempre da “Valori Plastici”), assieme ad opere ancora metafisiche del 1918-1919.

I dipinti di de Chirico di quest’epoca sono tra le maggiori e più alte rea- lizzazioni di un classicismo immanente e monumentale: ritratti, figure, nudi campeggiano su sfondi neutri, interni di stanze in penombra o cieli aperti, in cui il paesaggio (la “natura”) fa raramente una sua timida quanto generica apparizione. Nel Saluto degli Argonauti partenti per la prima volta si coglie un riferimento diretto a un luogo, anche se immaginario. La composizione riprende esattamente, in controparte, quella dell’Enigma di un pomeriggio d’autunno, il primo quadro dipinto secondo i canoni “metafisici”,18 quasi a

Autoritratto, primavera 1920,

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In questa fase troviamo profondamente cambiato il senso della rappre- sentazione, modificate radicalmente le stesse coordinate stilistiche. Non è senza risvolti estetici e teorici che de Chirico tralascia di rappresentare la Stimmung dei luoghi metafisici per dedicarsi alla figura umana: sono figure di dei quelle che rappresenta, non più di uomini oracolari, “preistorici”, col- ti all’alba dei tempi. Dal primordio della storia il suo interesse si concentra su un livello superiore, di ordine subentrato al caos e al “terrore” della crea- zione. I misteri dei valori plastici sono quelli direttamente enunciati e sanciti dagli dei, non più quelli vaticinati dagli oracoli, che scoprono il non-senso di tutto; dallo stato dionisiaco nietzschiano della Metafisica la visione sembra essersi spostata sulla calma apollinea. Sono misteri chiari e sottili, che ordi- nano il mondo sotto una luce trasparente e mentale: non a caso egli celebra,

La sala d’Apollo, 1920,

collezione privata.

Il saluto degli Argonauti partenti, 1920,

Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli, Collezione Cerruti.

ribadirne il significato emblematico di quadro aurorale di una visione nuo- va. Come quello, il quadro degli Argonauti intende infatti essere il manife- sto delle intenzioni del nuovo corso classicista dechirichiano: il tempio, che nell’Enigma si trovava sulla sinistra della composizione, è ora sulla destra, ed è codificato secondo canoni classici, tradizionali (l’ordine architettonico è ionico, e la facciata è scandita da tre finestre e da due nicchie con statue marcatamente classiche); la vela che compariva, misteriosamente, dietro un muro, è ora esplicitata su una spiaggia nello sfondo; il piccolo edificio sul fianco del tempio è diventato un grande palazzo squadrato, dalle finestre sottolineate da mostre classicheggianti. Dal mistero, dall’enigma del pri- mordio, de Chirico giunge a una chiarezza neorinascimentale, popolata da uomini come statue, non più da statue come personaggi: l’inquietudine, il demone, prima portato alla luce tramite la combinazione di prospettive sot- tilmente contraddittorie e mistificanti, scaturisce ora dalle situazioni e dai personaggi, dagli spazi classicheggianti, resi con rassicurante centralità. Del resto è se stesso e i suoi compagni che egli considera i nuovi Argonauti, la cui

Autoritratto, 1920-1921,

Toledo Museum of Art, Toledo.

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Lucrezia, 1919?-1921,

La Galleria Nazionale, Roma.

con La sala d’Apollo, il dio protettore delle arti; la scena è ambientata in un portico chiuso che ricorda quello di Piero della Francesca nella Flagellazione di Urbino: i misteri che custodisce quel portico sono quelli dell’armonia, non della melanconia.

Mercurio e i metafisici, di poco successivo (della fine del 1920; il titolo fu poi cambiato in La statua che si è mossa), sembra invece individuare nella classicità aulica di Roma il topos del mito immanente. Anche qui, come nel Saluto degli Argonauti partenti, sono gli elementi di una piazza metafisica ad essere ripresi con fedeltà compositiva ma con forte rielaborazione clas- sicista: Les joies et les énigmes d’une heure étrange aveva gli stessi elementi compositivi (edificio sottile sulla sinistra, torre ed elemento frontale, quinta in prospettiva scorciata sulla destra, statua sdraiata al centro della piazza). Ma anche qui la Stimmung non è localizzata interamente nel luogo solitario (come nei quadri metafisici): è individuata invece con maggior precisione nel misterioso rapporto tra l’ermetico Mercurio e i suoi seguaci metafisici, come il titolo sottolinea. È il demone del classicismo che possiede in questo momento de Chirico, il demone panico della Storia, del passato come cu-

Mercurio e i metafisici, fine del 1920,

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Autoritratto con busto di Euripide, 1922,

collezione privata.

mulo di esperienze significanti e, in fondo, come astrazione dalla realtà. La Lucrezia, datata 1921, ispirata a Dürer, è invece probabilmente un dipinto iniziato nel 1919 e terminato all’epoca della datazione, come sembrano indi- care la finestra scorciata in alto, ancora legata agli stilemi della Metafisica, e la materia molto lavorata dell’incarnato che indica una lunga gestazione, ter- minata e culminata in seguito nello spirito della rappresentazione del classi- cismo più aulico, con il rifinito pezzo di bravura delle rose poggiate in terra. Nella piena maturità classicista, de Chirico chiede al suo amico e mer- cante parigino Paul Guillaume di ripresentarsi a Parigi con una mostra. In una lettera del 28 dicembre 1921 l’artista gli espone il progetto e scrive con passione di una “nouvelle peinture” che dovrà far ricredere tutti coloro che ritenevano che facesse meramente del museo e che avesse perduto la strada: “Ho risolto il problema tecnico della pittura in un modo eclatante: vedrete una pittura di una solidità, di una chiarezza, di un fascino e di un mistero

meravigliosi.”20 Evidentemente a Parigi già si discuteva del suo mutamento

in termini di perplessità, come egli ribadisce in una lettera inviata il medesi-

mo giorno a Breton.21

Nonostante il lusinghiero successo internazionale di “Valori Plastici”,

sancito dal successo della mostra in Germania del 192122 e dalle molte ri-

prese da parte degli artisti tedeschi della Nuova oggettività e del Realismo magico, una serie di rotture si compiono all’interno stesso del movimento. Soprattutto quella tra de Chirico e Carrà, consumatasi definitivamente con l’uscita, alla fine del 1919, del libro di Carrà, Pittura metafisica, nel quale egli non cita nemmeno de Chirico. Era, in realtà, una disputa su un passato già conclusosi in concreto con lo sbocco di entrambi i pittori nella nuova vague del ritorno all’ordine di “Valori Plastici”; ma la degenerazione dei rapporti tra i due pilastri maggiori della rivista ne mina profondamente anche l’esi- stenza.

Nel documento Giorgio de Chirico la vita e l'opera (pagine 116-128)