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Parigi, la metafisica della nostalgia

Nel documento Giorgio de Chirico la vita e l'opera (pagine 48-60)

L’enigma di un pomeriggio d’autunno

9. Parigi, la metafisica della nostalgia

La creazione dechirichiana della nuova visione metafisica, che si svolge pro- fonda e inesorabile nel soggiorno italiano e segnatamente fiorentino, arrive- rà ormai matura a Parigi, dove Giorgio giungerà il 14 luglio 1911, pronto a confrontarsi con le novità francesi (già aveva colto, attraverso la lettura di Soffici, il nodo pittorico di Rousseau, che aveva un privilegiato posto d’ono- re nell’intellettualità parigina: Picasso e Apollinaire erano suoi grandi ammi- ratori) e a rendere pubblici i suoi quadri, esponendoli. Ma egli è a tal punto maturo e consolidato ormai, e conscio della sua novità, che quelle francesi lo toccheranno solo marginalmente, nell’elaborazione sempre più complessa e astrattiva di un linguaggio che Apollinaire scoprirà con meraviglia (anche se non con tempestività: il suo primo articolo su de Chirico è del 1913). È proprio Apollinaire che sottolinea la quasi inconcepibile indipendenza di de Chirico dal contesto avanguardistico francese, che era capace di attrarre nella sua orbita ogni artista moderno (persino i futuristi): “Non viene né da Matisse né da Picasso, e non deriva dagli impressionisti. Questa originalità è

talmente nuova che merita di essere segnalata.”1 De Chirico indica un per-

corso completamente nuovo e originale nelle avanguardie europee, aprendo la strada alla visione onirica e surreale.

Da quel momento de Chirico, assurto nell’Olimpo eclettico del poeta-vate delle avanguardie (che spaziava da Rousseau ai cubisti, da Picasso agli Orfisti, fino allo stesso de Chirico), non è più solo un artista italiano (o “fiorentino”, come scrisse Soffici), ma europeo più di ogni altro, capace di unire in una sintesi indissolubile Germania, Italia, Francia, Grecia antica e moderna: tutte le anime fondanti del continente. Ma forse, personalmente, egli si sentiva come il suo fratello spirituale Apollinaire, soltanto un apolide strappato alla sua Grecia nativa e originaria, che non smetterà mai di amare e di sognare: “Di malinconie – scrive de Chirico di Apollinaire, forse pensando anche a se

stesso2 – ne conosceva più di una; anzitutto quella del senza-patria. Era nato

a Roma da genitori polacchi; da piccolo visse a Monaco (principato); poi cre- sciuto di spirito e di volume trascinò per alcuni anni i suoi 100 chili di carne

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per tutte le città della nostra vecchia madre Europa, finché si fermò a Pari- gi.” Il “greculo Chirico”, come ebbe a chiamarlo in seguito con un termine

vagamente dispregiativo Carlo Carrà,3 come abbiamo già notato, non perse

mai l’accento greco persino nella lingua italiana (e, immaginiamo, in quella francese), a testimonianza di quanto profonde fossero le sue radici elleniche. L’origine de la tragédie ou hellénisme et pessimisme era del resto il titolo del primo libro di Nietzsche che prese in prestito alla Biblioteca Nazionale di Firenze, al suo arrivo nella città delle rivelazioni metafisiche. E proprio in questo libro (cap. I), de Chirico trova (o ritrova, se già lo avesse letto in te- desco a Monaco) espressa la natura sublime dell’arte, che deriva dal sogno:

Nel sogno, secondo il pensiero di Lucrezio, apparvero la prima volta alle anime umane le sovrane immagini degli dèi, nel sogno il grande artista figuratore vide le forme affascinanti di esseri sovrumani; e il poeta ellenico, domandan- do il segreto della creazione poetica, si sarebbe anch’esso ricordato del sogno e avrebbe risposto con lo stesso ammaestramento […] L’illusione più vera

dell’uomo / Gli viene rivelata nel sogno: / Tutta l’arte e la poesia / Altro non è che rivelazione della verità nel sogno. La bella apparizione dei mondi del sogno

[…] è il presupposto di ogni arte figurativa […] e Schopenhauer indica addi- rittura come contrassegno del talento filosofico il dono che altri abbia di vede- re in certi momenti gli uomini e tutte le cose come puri fantasmi o ombre di sogno. Come il filosofo con la realtà dell’esistenza, così l’uomo artisticamente sensibile si comporta con la realtà del sogno: la contempla con diligenza e con soddisfazione; perché dalle immagini del sogno impara a spiegarsi la vita.4

Dunque nel luglio 1911 de Chirico parte definitivamente da Firenze per trasferirsi a Parigi: la città dell’illuminazione metafisica viene abbandonata, in realtà, per ricostituire lo scarno ma solidale nucleo familiare, ma anche per trovare un palcoscenico più ampio alla sua visione artistica ormai ma- tura e colossale. Il fratello Andrea, dopo aver tentato la sua strada musicale a Milano, e aver tenuto un concerto a Monaco senza il successo sperato, si era già recato a Parigi. Dopo qualche mese la madre e Giorgio lo seguono, convinti che la capitale francese possa essere il trampolino più adatto per le aspirazioni di entrambi. Per de Chirico lo sarà sicuramente.

Dopo i mesi estivi passati a combattere con i suoi insistenti disturbi psi- cosomatici, nell’autunno dipinse probabilmente poco: forse solo il Ritratto della madre, che veniva a costituire una sorta di trittico familiare con quello del fratello (1910) e il suo Autoritratto.

Il 1912 lo vedrà finalmente esporre pubblicamente, nell’ottobre, al Salon d’Automne. I tre quadri che de Chirico presenta sono il “dittico” della “rive- lazione”, L’enigma di un pomeriggio d’autunno e l’Enigma dell’oracolo, assieme

Autoritratto, primavera 1911,

collezione privata.

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all’Autoritratto che lo ritrae secondo la notissima iconografia di una fotografia- ritratto di Nietzsche, con una frase che enuncia icasticamente la sua poetica:

“Et quid amabo nisi quod aenigma est?” A notarlo saranno Roger Allard,5 uno

dei critici più interessanti del periodo, che seguiva con acuta attenzione i primi

passi del cubismo e del futurismo, ma anche Louis Vauxcelles.6

Alla successiva partecipazione pubblica, al Salon des Indépendants del

marzo 1913, espone altri tre quadri:7 pare vengano notati sia da Picasso sia

da Apollinaire, che ancora non ne scrive, ma poco dopo diventerà suo ami-

co.8 Sono piazze abitate da presenze statuarie che si confondono con quelle

umane, perse nella lontananza di un tempo ancestrale, come L’énigme de l’arrivée et de l’après-midi, databile all’inizio del 1912, che prosegue qua- si senza soluzione di continuità la serie fiorentina, rappresentata in mostra da L’énigme de l’heure (L’enigma dell’ora), del 1910. In questo periodo gli elementi architettonici compongono spazi che mescolano memorie greche e italiane, dando luogo a un enigma immanente che assume la contrastata realtà del sogno.

La méditation matinale, probabilmente della seconda parte dell’anno, mostra un tratto sintetico più accentuato, una materia più liquida, una pen- nellata più nervosa e gestuale, rivelando un generico aggiornamento sulle novità sintetiste della pittura francese, che si riconosceranno con più evi- denza soprattutto negli anni seguenti: Matisse, Picasso, Gauguin, persino Van Gogh, ma certamente percepiti come echi, metabolizzati in una visione autonomamente moderna dello stile pittorico. Il soggetto del quadro deriva ancora da un ricordo d’infanzia: l’edificio sulla sinistra, dalle cui finestre aperte spuntano riquadrate le sagome di antiche statue, evoca il ricordo della visita al Museo di Olimpia, dalle cui basse finestre le statue antiche

occhieggiavano misteriose.9 La compresenza di statue di dei e di una figu-

ra umana accresce d’efficacia l’afflato di mistero che scorre insolubile tra i muti personaggi. Altri riferimenti alla Grecia sono ancora presenti in alcuni dei primi quadri eseguiti a Parigi. In La mélancolie d’une belle journée del 1913, il monte sullo sfondo, le cui pendici nascono velocemente dalla pianu- ra, ricorda la vista dei colli intorno ad Atene, dove la città si interrompeva bruscamente: il monte Licabetto, visto dai giardini dello Zàppeion (dove, ri- corda Savinio, i due fratelli de Chirico giocavano da bambini), che si ergeva proprio dietro la casa in piazza Sìntagma abitata dalla famiglia de Chirico, all’inizio del secolo era ancora costellato di poche case e coincideva con il limite della città.

Vari altri luoghi dell’immaginario metafisico sono stati identificati dalla critica, o ci sono stati suggeriti da de Chirico stesso; ad esempio, la silhouette del monumento equestre che si trova in due quadri dell’epoca parigina de-

Ritratto della madre, autunno 1911,

L’énigme de l’arrivée et de l’après-midi,

La méditation matinale,

seconda metà del 1912, collezione privata.

giorgiodeChiriCo. lavitael’opera 9. parigi, lametafisiCadellanostalgia

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do parigino, quando l’artista si basa su una precisa ripresa di elementi reali che trasforma, però, sino a renderli quasi irriconoscibili, echi misteriosi di un mondo aurorale.

Torino, in particolare, nel pur breve soggiorno del luglio 1911 e in uno

successivo (ancora, se possibile, più concitato) del 1912,12 lo colpì come si è

detto con una forza mitopoietica straordinaria. L’impressione ricevuta dalla piazza Santa Croce di Firenze si deve essere duplicata in lui a causa delle simili condizioni di salute, che lo tenevano in uno stato di incertezza feb- bricitante, nella visione delle piazze porticate stagliate dalla calura estiva,

le stesse ove il suo mentore filosofico Nietzsche aveva incontrato la follia.13

Con il trasferimento a Parigi emergono dunque altri luoghi, desunti non più solo dalla Grecia o da Firenze, ma dalla stessa Parigi, da Roma e da Tori- no. Se di Torino è ben nota la già citata ripresa letterale (l’unica che il pittore abbia reso così esplicita) del monumento equestre a Emanuele Filiberto, un altro riferimento sabaudo dovette influenzare il meccanismo visionario trasfigurante di de Chirico. Nella Nostalgie de l’infini la grande torre, che costituisce forse il prototipo di questa fortunatissima tipologia dechirichia- na (il quadro è datato 1911, ma è generalmente e correttamente riferito al 1913; la data iscritta potrebbe ricordare quella della visione che lo generò, l’anno del suo primo soggiorno a Torino), sembra nascere dalla suggestione della struttura verticale della Mole Antonelliana, che domina la città. I due attici colonnati con il tetto leggermente spiovente su cui si innalza la mole trapezoidale (nell’originale leggermente curva, nella versione dechirichiana dritta), al cui culmine si erge un altro attico colonnato, richiamano con evi-

denza l’andamento strutturale del monumento torinese;14 laddove la Mole

Antonelliana prosegue il suo slancio pinnacolare, de Chirico la troncò coro- nandola con quattro pinnacoletti imbandierati.

Ferma restando l’ispirazione formale alle torri degli affreschi trecenteschi

che il pittore aveva potuto studiare a Firenze,15 il riferimento a Torino di

questa tipologia, poi elaborata in diverse maniere, è molto preciso, anche

se mai sottolineato fino a un mio intervento del 1993.16 Del resto vi allude

esplicitamente il pittore stesso in un brano autografo datato agosto 1911 e scritto appena dopo la partenza da Torino, città delle “grandi torri”: “Par- tito dalla città quadrata dei vincitori delle grandi torri e delle grandi piazze assolate.”17

Dal soggiorno romano dell’ottobre 1909 probabilmente derivò l’amore per le arcate senza interruzione (suggerite dal ritmo interminabile degli ac- quedotti nella campagna romana), come egli stesso ricorda in uno scritto del primo periodo parigino: “L’Arcata romana è una fatalità; essa ha una voce che parla attraverso enigmi pieni di una poesia stranamente romana, di riva dai monumenti torinesi (in particolare da quello di Emanuele Filiberto,

opera di Carlo Marocchetti, come notò Soby, posto in fondo alla via nella quale abitava Nietzsche a Torino, città nella quale fu colto dalla pazzia nel 1888) visti, sempre in quello stato di malessere fisico che acuiva le sue sen- sazioni e percezioni, nella città sabauda durante il breve soggiorno del luglio 1911. Ancora la Gare de Montparnasse, che dà il titolo a un suo quadro, e che, unita ai ricordi infantili (il padre ingegnere, costruttore di ferrovie in Grecia), costituisce un nucleo di quadri di stazioni e di treni stantuffanti (peintre des gares lo aveva definito Picasso nel 1913, secondo quanto riporta

lo stesso artista in un ricordo autobiografico).10

Dunque molti luoghi apparentemente immaginari dei quadri dechirichia- ni sono decodificabili, e questi luoghi hanno sempre uno speciale significato nella sua filosofia pittorica; sono una localizzazione della Stimmung, potrem- mo dire dell’ispirazione stessa di de Chirico, che intende individuare il lato misterioso dei luoghi e delle cose: “Bisogna scoprire il dèmone in ogni cosa”

scriveva infatti il pittore nel 1918.11 Questo aspetto prevale nel momento

iniziale della definizione della Metafisica, sia fiorentina sia del primo perio-

La mélancolie d’une belle journée,

1913, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles.

La Mole Antonelliana a Torino. Alla pagina precedente:

La nostalgie de l’infini, 1913,

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ombre su vecchi muri e una musica curiosa, profondamente blu come quei

versi d’Orazio: qualcosa del pomeriggio sul bordo del mare.”18 E ancora:

“A Roma il senso del presagio ha qualcosa di più vasto. Una sensazione di grandezza infinita e lontana, la stessa sensazione che il costruttore romano fissò nel sentimento dell’arcata riflette uno spasmo d’infinito che la volta ce-

leste produce talora sull’uomo.”19 Il dipinto La tour rouge del 1913 rielabora

quasi letteralmente la visione isolata della tomba di Cecilia Metella sulla via

Appia Antica.20

Da Parigi trasse, come si accennava più sopra, la suggestione delle sta- zioni, della prepotente monoliticità delle ciminiere (nel 1918 avrà occasione di descrivere la periferia parigina con le officine operose e le “foreste dei comignoli rossi”), che tuttavia dovevano aver segnato la sua fantasia fin dai tempi dell’infanzia e giovinezza ateniese: le stazioni ferroviarie costruite dal padre; le ciminiere del quartiere ateniese di Gàzi, che si stagliavano sullo sfondo dell’Acropoli, proponendo quello stridente e indecifrabile contrasto tra antichità mitica e modernità industriale, o quelle del Pireo, con sullo sfondo navi partenti come nell’Après-midi d’Ariadne (1913). Fino al 1913-

La tour rouge, aprile-ottobre 1913,

Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. L’acquedotto Claudio a Roma.

9. parigi, lametafisiCadellanostalgia 113

1914 de Chirico deriva dunque dalla realtà, attuale o infantile, straniandoli e trasformandoli, elementi che operavano su di lui una suggestione legata alla natura e al significato dei luoghi. È la Stimmung, la sensibilità visionaria che egli aveva sviluppato appropriandosi del sistema filosofico di Nietzsche (e Schopenhauer), che agisce in lui portandolo a scoprire nella realtà aspetti nuovi e inquietanti, rivelatori e al tempo stesso enigmatici, inspiegabili.

Al 1912 risale il primo riferimento al tema di Arianna, col quadro Solitude (Melanconia), datato e stilisticamente congruente con i dipinti dello stesso

anno (benché la datazione del dipinto sia stata discussa),21 che riprende il

tema nietzschiano di una poesia pubblicata nei Ditirambi di Dioniso, editi nel 1889. Ultimo libro licenziato dal filosofo immediatamente prima della pazzia, esso dovette sicuramente attrarre precocemente l’attenzione di de

Chirico, che non a caso considerava Nietzsche “il poeta più profondo”,22

e vedeva la sua opera principalmente come un’espressione di vertiginosa poesia. Il tema di Arianna vi è sviluppato in particolare in una poesia (Klage der Ariadne – Lamento di Arianna), che l’artista sembra echeggiare nel tono di alcuni scritti parigini del 1912-1913. Nel libro di liriche nietzschiane sono contenuti vari elementi estremamente coerenti con quello che possiamo considerare un piccolo “ciclo” di pitture svolto tra il 1912 e il 1913, col tema della statua di Arianna, che mostrano un continuo approfondimento dello studio e della meditazione sul filosofo tedesco. Elementi che vanno dalla

melanconia,23 citata esplicitamente nel quadro, alla rappresentazione (quasi

unica ed esotica nella pittura di de Chirico dell’epoca) delle palme flessuo-

se, che compaiono sullo sfondo della Récompense du devin (datato 1913)24

e sono presenti in almeno due brani del libro,25 fino all’esplicito tema di

Arianna: “Fulminata a terra da te, / occhio beffardo che dall’oscuro mi guar- di! / Eccomi distesa, / mi piego, mi dibatto tormentata / da tutte le tortu- re eterne, / colpita / da te, crudelissimo cacciatore, / sconosciuto – dio…” L’occhio nascosto che guarda Arianna nella poesia sembra ben riassunto dall’ombra in primo piano del dipinto, che rivela una presenza sconosciuta, immobile e inquietante, davanti alla statua distesa. Il tema di Arianna era stato anche sfiorato da Apollinaire in un poema del 1913, Le musicien de Saint-Merry, ma a quell’altezza cronologica i rapporti tra i due non erano così intimi da immaginare che de Chirico già conoscesse, nel 1912, prima

della pubblicazione, il testo del poeta e potesse esserne influenzato.26

L’Acropoli di Atene vista da Gàzi. Alla pagina a fronte:

L’après-midi d’Ariadne, aprile-ottobre 1913,

10. L’evoluzione della Metafisica

Nel documento Giorgio de Chirico la vita e l'opera (pagine 48-60)