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Il pluralismo informativo: il mercato dell’informazione 127

CAPITOLO III: LA COMUNICAZIONE NELL’ERA DELLA

3.1 Il pluralismo informativo: il mercato dell’informazione 127

dell’informazione

La centralità del principio del pluralismo quale strumento per rendere effettiva negli ordinamenti nazionali, sovranazionali, internazionali e regionali, la libertà di manifestazione del pensiero nella sua veste di libertà di informazione (attiva, passiva e riflessiva) è dato ormai consolidato. Una efficace circolazione delle idee, delle opinioni, la presenza del maggior numero possibile di voci nell’area della pubblica discussione (c.d. pluralismo esterno), da un lato, e il rispetto da parte di tutte le voci, pubbliche e private, di regole di obiettività, indipendenza e completezza nell’attività comunicativa (c.d. pluralismo interno), dall’altro, stanno alla base di una libera e plurale formazione dell’opinione pubblica (e prima ancora dei singoli cittadini) scevra da interferenze da parte dei pubblici poteri. Questi sono gli ingredienti che stanno alla base del corretto funzionamento dello stato democratico157.

Proprio per la capacità dei media di orientare l’opinione pubblica, i pubblici poteri e soprattutto i regimi e le esperienze autoritarie, da sempre, hanno cercato di controllare la libertà dei mezzi di informazione, l’educazione e la cultura tentando di piegarli alle proprie esigenze al fine di reprimere le opinioni dissenzienti. Ecco che il rapporto tra istituzioni pubbliche e media rappresenta un buon termometro per misurare il grado di democraticità di un sistema.

                                                                                                               

157 BORRELLO R., Alcune riflessione preliminari (e provvisorie) sui rapporti tra

motori di ricerca ed il pluralismo informativo, MediaLaws, consultabile alla

I mass media costituiscono “la strumentazione oggettiva della libertà di informazione”158 e sebbene l’art. 21 Cost. e gran parte della

regolamentazione successiva all’entrata in vigore della Costituzione (si pensi alla legge n. 47/48 e successivamente alla legge n. 416/81) si occupino unicamente della regolamentazione della stampa, i principi legati al diritto dell’informazione sono stati, in parte, estesi alla radiotelevisione o ad Internet, in via analogica o attraverso una interpretazione evolutiva.

Tuttavia, per effetto dell’evoluzione tecnologica e di mercato che ha investito il settore delle comunicazioni, il diritto dell’informazione deve essere indagato sotto una prospettiva diversa rispetto a quella adottata dai Costituenti nella redazione degli art. 15 e 21 della Costituzione. E’ opportuno, allora, ripercorrere seppur sinteticamente le linee di fondo che hanno caratterizzato l’evoluzione del sistema delle comunicazioni dall’entrata in vigore della Costituzione ad oggi. La prima fase, che è durata fino alla prima metà degli anni ‘70, vide il legislatore, la dottrina e la giurisprudenza impegnati ad innestare i principi costituzionali nel sistema normativo ereditato dal periodo fascista. Non è un caso che la prima sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale (sent. n. 1/56) riguardasse proprio la libertà di manifestazione del pensiero. La Corte in questa occasione dichiarò l’incostituzionalità dell’art. 113 r.d. 773/31 che sottoponeva a licenza dell’autorità locale di pubblica sicurezza la circolazione di scritti, disegni, stampati, la propaganda acustica e luminosa e le pubbliche affissioni di scritti e giornali sui murali.

Per ciò che concerne la stampa, il mercato pare essere stato in grado di assicurare il pluralismo sia interno che esterno di questo mezzo, ma allo stesso tempo al Costituente era ben presente la necessità di                                                                                                                

158COSTANZO P., Informazione nel diritto costituzionale, in Dig. Pubbl., VIII

regolamentare quello che allora era il principale watchdog of

democracies, sia per ciò che riguardava la trasparenza delle fonti di

informazione e quelle di finanziamento, sia dal punto di vista delle tutele.

La Corte costituzionale, basandosi proprio sull’art. 21 c.2 Cost., ritenne vietati tutti i provvedimenti che “rimessi alla discrezionalità dell’autorità amministrativa potrebbero eventualmente impedire la pubblicazione degli scritti destinati al pubblico, come i giornali e i periodici” (sent. n. 31/57). Non a caso, onde evitare forme di censura o atti discrezionali da parte dell’autorità amministrativa, la legge affidò non all’esecutivo ma all’autorità giudiziaria l’autorizzazione preventiva all’esercizio dell’attività di stampa, legata alla registrazione della stampa presso il tribunale competente (legge n. 47/48). Tale autorizzazione ha superato il vaglio della Corte costituzionale, in quanto lo scopo è quello di consentire una individuazione dei responsabili a garanzia dei diritti dei terzi e l’atto di iscrizione appare privo di natura discrezionale, dal momento in cui il compito del giudice sarà quello di accertare la regolarità dei documenti presentati (caratteri analoghi ha anche l’iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione c.d. ROC).

Altrettanto netto è il divieto di censura sulla stampa. Come già precedentemente osservato, per censura deve intendersi quell’istituto tipico del diritto pubblico, in virtù del quale i pubblici poteri sono abilitati ad esercitare un controllo di tipo preventivo, attraverso un provvedimento “contenente un giudizio sulla manifestazione del pensiero” (Corte cost. sent. n. 159/70). Non sono escluse, però, forme di controllo preventivo sui contenuti in ambito privatistico, ad esempio nell’ambito dell’impresa editoriale (c.d. censura interna).

L’orientamento garantista in materia di autorizzazione preventiva e censura è confermato a livello costituzionale dalla disciplina del sequestro degli stampati. Un armamentario di tutele riconosciuto parimenti solo alla libertà personale (art. 13 Cost.). Si tratta di un istituto ammesso solo se successivo alla pubblicazione e solo se accompagnato da precise garanzie (art. 21 c.3 Cost., che dispone una riserva di legge e di giurisdizione, e art. 21 c.4 Cost., intervento dell’autorità di pubblica sicurezza in casi eccezionali e con effetti provvisori).

Le leggi n. 47/48 e n.416/81 hanno, inoltre, recepito la necessità di regolamentare la stampa dal punto di vista della responsabilità degli editori e dei giornalisti, sottolineando così il ruolo fondamentale di servizio oggettivamente pubblico e di pubblico interesse della stampa nella nuova democrazia italiana.

A questo si sono affiancati una serie di criteri legati al concetto di libertà di informazione, quali l’obiettività (in particolare lo strumento della rettifica della verità il quale, come ha avuto modo di sottolineare la Corte costituzionale nella sent. n.133/74, oltre ad essere posto a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo è posto a tutela dell’interesse pubblico all’obiettività dell’informazione), l’imparzialità dei dati, la completezza, l’apertura alle diverse tendenze politico-culturali etc., che altro non sono che l’espressione del principio di pluralità delle fonti informative159.

Di particolare importanza il principio della trasparenza, già individuato dall’art. 21 c.5 Cost., in materia di fonti di finanziamento: ciò consente, da un lato, di conoscere gli assetti finanziari e proprietari delle imprese editoriali e le persone fisiche a cui queste imprese fanno

                                                                                                               

capo, dall’altro, assicura l’informazione plurale del cittadino ed il rispetto della disciplina anti-trust.

All’interno del settore editoriale da sempre esistono due tipi di editori: gli editori puri (ovvero quei soggetti che svolgono esclusivamente attività editoriale, senza collegamenti a gruppi finanziari o a partiti politici) e gli editori impuri (ovvero quelle imprese aventi quali azionisti gruppi finanziari o altri soggetti operanti in settori diversi da quello editoriale). Il sistema dell’editoria italiano ha visto la presenza di un numero limitato di imprese editrici di quotidiani e periodici gestite prevalentemente da editori impuri e ciò testimonierebbe l’interesse dell’editoria italiana, secondo alcuni, più che alle vendite a realizzare un condizionamento “ideologico” dell’opinione pubblica, da cui possono derivare incrementi nei profitti negli altri settori economici in cui tali editori sono attivi.

Quello che da un punto di vista normativo è possibile notare è un alto grado di frammentarietà e complessità a causa di una serie di stratificazioni successive. Questo settore, infatti, non ha avuto una regolamentazione organica fino agli anni ottanta, quando finalmente si è definita la struttura fondamentale della materia (l. n. 416/81). Anche l’ultimo intervento del legislatore in materia risulta essere caratterizzato da notevole frammentarietà (l. n. 198/2016)160, pur

avendo il merito di aver definito in modo più preciso il sistema dei

                                                                                                               

160 L. n. 198/2016 “Istituzione del Fondo per il pluralismo e l'innovazione

dell'informazione e deleghe al Governo per la ridefinizione della disciplina del sostegno pubblico per il settore dell'editoria e dell'emittenza radiofonica e televisiva locale, della disciplina di profili pensionistici dei giornalisti e della composizione e delle competenze del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti. Procedura per l'affidamento in concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale”. Consultabile alla pagina

contributi diretti all’editoria e di aver dettato in materia una delega attuata recentemente dal Governo (d.lgs. n.70/2017)161.

Per ciò che concerne più da vicino il sostegno economico, previsto anche in epoca fascista, abbiamo assistito ad un progressivo ridimensionamento delle forme di finanziamento diretto. A lungo si è assistito ad una distribuzione a “pioggia” degli incentivi in favore di quotidiani e periodici, ma la l. n. 416/81 e ancor più la legge n. 67/87 hanno invertito la tendenza conducendo ad un progressivo abbandono del sostegno diretto. Queste due leggi mirano a promuovere fenomeni specifici attraverso finanziamenti diretti, mirati ed eccezionali. Inoltre gli interventi normativi in materia degli ultimi anni hanno disposto dal 2019 la definitiva abrogazione anche dei contributi al prezzo della carta da quotidiani162.

La disciplina del sostegno pubblico all’editoria è stata rivista soprattutto alla luce delle regole europee in materia di concorrenza. Per evitare forme di distorsione della concorrenza in tale settore abbiamo assistito ad una tempestiva applicazione del divieto di aiuti di Stato. Tuttavia, nonostante l’impresa editoriale sia una impresa privata, l’Unione europea ha ammesso l’erogazione di risorse pubbliche a sostegno di questo particolare settore, sia per l’importante funzione sociale da essa svolta, sia per assicurare il pluralismo dell’informazione. Tali forme di sostegno vengono fatte rientrare nella c.d. “deroga culturale” che consente agli Stati di derogare al divieto generale di aiuti di Stato alle imprese (art. 107, par. 1, TFUE), in

                                                                                                               

161 D.lgs. n. 70/20017 “Ridefinizione della disciplina dei contributi diretti alle

imprese editrici di quotidiani e periodici, in attuazione dell'articolo 2, commi 1 e 2, della legge 26 ottobre 2016, n. 198”. Consultabile alla pagina

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/05/29/17G00083/sg

162 Con la legge n. 585/94 era stato soppresso l’Ente nazionale cellulosa e carta ma

la norma sui contributi al prezzo della carta da quotidiani sarà definitivamente abrogata solo dal 2019, in base a quanto disposto dal D.lgs. n. 70/2017).

ragione delle finalità culturali e di pluralismo dell’informazione perseguite163.

Il principio di trasparenza costituisce, inoltre, il presupposto per la realizzazione del valore stesso del pluralismo, sia esterno che interno: il nostro legislatore ha cercato di dare effettività a tale principio evitando la concentrazione delle testate nelle mani di pochi agenti, attraverso l’istituzione del Registro degli operatori delle comunicazioni (c.d. ROC) 164 ; con il sistema integrato delle

comunicazioni (c.d. SIC), il cui controllo è affidato all’Autorità garante per le comunicazioni (AGCOM); ed infine con il Testo unico dei servizi dei media audiovisivi e radiofonici (c.d. TUSMAR) ha posto un divieto di incroci proprietari tra stampa e televisione per i soggetti che esercitano l’attività televisiva in ambito nazionale (su

                                                                                                               

163 GARDINI G., Le regole dell’informazione. L’era della post-verità, Giappichelli,

Torino 2017.

164GARDINI G., Le regole dell’informazione. L’era della post-verità, Giappichelli,

Torino 2017.

Il ROC è un archivio organizzato per soggetti che risponde a finalità di garanzia della trasparenza e del pluralismo nelle diverse attività di comunicazione. Introdotto con la legge n. 416/81 con la denominazione Registro nazionale della stampa, tale strumento muta denominazione in Registro degli operatori di comunicazione con la legge n. 249/1997 che lo disciplina. Tale registro è tenuto dalla AGCOM o, per essa, dai Co.re.com e prevede l’iscrizione anche degli operatori della radiotelevisione, delle telecomunicazioni, e dopo la legge n. 62/2001 dell’editoria elettronica. Quest’ultimo mira a consentire la conoscibilità degli assetti editoriali ed eventuali mutamenti che possano comportare operazioni di concentrazione e dunque alla applicazione della disciplina antitrust.

Il rispetto degli obblighi di trasparenza comporta, oltre alla registrazione al ROC, il deposito annuale del bilancio (dove debbono essere evidenziati i proventi pubblicitari, i finanziatori e sottoscrittori a favore della testata o dell’impresa editoriale), la comunicazione di ogni modificazione che comporti un cambiamento superiore al 10% dell’assetto azionario o societario. Obblighi non dissimili sono previsti per le concessionarie pubblicitarie in virtù del grado di influenza che queste imprese possono esercitare sul settore dell’informazione.

E’ stato introdotto, inoltre, con la legge n. 416/81 (successivamente modificata con la legge n. 67/87) un sistema di limiti che opera solo per la stampa quotidiana e non per quella periodica, vietando a livello nazionale, locale e interregionale qualsiasi posizione che superi una certa percentuale della tiratura complessiva riferita a determinati lassi di tempo.

qualunque piattaforma) e che superino l’8% del SIC165 (art. 43 d.lgs

177/2005) .

L’editoria quotidiana e periodica ha goduto, almeno nell’epoca repubblicana, di salute relativamente buona in termini di pluralismo ed è riuscita a contenere le tendenze oligopolistiche. Il notevole numero di testate a diffusione nazionale, il grado relativamente ridotto di concentrazione del mercato testimoniano il buon funzionamento di questo settore che, è apparso stabile per decenni, fino almeno al cambio di millennio, quando ha fatto la sua entrata in scena la rivoluzione tecnologica.

L’era digitale ha cambiato radicalmente lo scenario sia a livello nazionale che internazionale: la crisi economica e la diffusione dei

media digitali hanno modificato profondamente l’equilibrio del

settore, determinando una riduzione delle testate sul territorio e ripercussioni sulla qualità dei contenuti informativi166. Essa ha portato

con sé l’esigenza di ripensare a quei delicati equilibri individuati con non poca fatica dal legislatore. Nonostante l’integrazione tra editoria tradizionale ed elettronica faccia sperare in una ripresa del settore, due                                                                                                                

165GARDINI G., Le regole dell’informazione. L’era della post-verità, Giappichelli,

Torino 2017.

Queste imprese non possono acquisire partecipazioni in imprese editrici di giornali quotidiani o partecipare alla costituzione di nuove imprese editrici di giornali quotidiani, con l’eccezione delle imprese editrici di giornali quotidiani diffusi esclusivamente in modalità elettronica. Il divieto si applica anche alle imprese controllate, controllanti o collegate (secondo le definizioni dell’art. 2359 c.c.). Il superamento di ciascuno di questi limiti porta all’intervento dell’AGCOM la quale ha il potere di annullare gli atti di acquisto, affitto, cessione di quote etc. e dispone l’eliminazione della posizione dominante raggiunta. Tuttavia continua a rimanere zona franca quella dei giornali periodici diversi dai quotidiani cui non si applicano i diversi limiti anticoncentrazione.

166Secondo la relazione dell’AGCOM del 2017, tra i mezzi utilizzati dagli italiani

per informarsi, i quotidiani occupano la terza posizione raggiungendo solo il 56% della popolazione, dopo la radiotelevisione ed Internet. Tra il 2010 e 2017 la diffusione di quotidiani si è ridotta del 43%. Al contempo la vendita delle copie digitali ha conosciuto un forte incremento contribuendo a rallentare la discesa dei ricavi di settore (tuttavia le copie digitali rappresentano solo il 12% delle copie vendute). Consultabile alla pagina

https://www.agcom.it/documents/10179/3058729/RELAZIONE+ANNUALE+201 7_documento+completo.pdf/2021e7ba-8250-4239-9a46-5d82fdbf702

sono gli elementi da mettere in evidenza: in primo luogo, la stampa si trova a dipendere sempre di più dalle entrate pubblicitarie167 (come è

stato fatto notare, “dal finanziare i giornali al condizionare i contenuti dell’informazione il passo è breve”)168, in secondo luogo, ha risentito

del repentino e rapido affermarsi degli altri media, primo fra tutti

Internet. Ecco che il ruolo strategico che l’editoria periodica aveva

nella formazione di un’opinione pubblica consapevole è andata via via riducendosi.

Per quanto riguarda invece la radio-televisione, inizialmente, il numero limitato di frequenze disponibili ha causato problemi di inquadramento del mezzo, ma ha dato modo alla giurisprudenza costituzionale di esprimersi diffusamente sui principi costituzionali sottesi al sistema dei mass media. Inizialmente il medium radiotelevisivo fu affidato al monopolio pubblico, al fine di garantire il pluralismo ed una corretta informazione. Ciò trovò conferma in una pronuncia della Corte costituzionale (sentenze n. 59/60), la quale affermò due principi che saranno poi tenuti fermi da tutta la giurisprudenza successiva: il riconoscimento dell’attività radiotelevisiva come servizio pubblico essenziale avente carattere di preminente interesse generale e la necessità di assicurare il rispetto del principio costituzionale del pluralismo informativo. Secondo la Corte costituzionale, la limitatezza delle frequenze sfruttabili per le trasmissioni radiotelevisive e la necessità di investimenti economici cospicui per l’istallazione e gestione degli impianti di trasmissione avrebbero determinato, una volta aperto il mercato agli operatori privati, la formazione di posizioni di oligopolio se non addirittura di monopolio privato, con conseguente riduzione delle possibilità di                                                                                                                

167 La legge n. 416/81 ha cercato di porre rimedio a questo problema, stabilendo un

divieto di esclusiva nella raccolta pubblicitaria sui quotidiani, quando la tiratura delle testate per cui è raccolta la pubblicità sia superiore al 30% di quella nazionale (art. 12).

168 ZACCARIA R., Diritto dell’informazione e della comunicazione, CEDAM,

accesso al mezzo radiotelevisivo da parte delle diverse istanze politiche, sociali, religiose, presenti nella società. Solo il mezzo radiotelevisivo pubblico avrebbe, infatti, potuto assicurare un tasso di aperture alle varie istanze provenienti dalla società e per questa via la libertà di manifestazione del pensiero.

Inoltre, con la sentenza n. 225/74169, la Corte invitò anche il legislatore

a garantire al meglio il pluralismo interno ed individuò alcuni principi per rendere il regime di monopolio pubblico compatibile con la Costituzione: la sottrazione agli organi di vertice della concessionaria del servizio pubblico all’influenza del potere esecutivo; l’imparzialità e completezza dell’informazione; la sottoposizione della concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo al controllo del Parlamento; la tutela dell’autonomia dei giornalisti preposti ai servizi di informazione; limiti quantitativi alla pubblicità onde evitare che la radiotelevisione, attraverso l’inaridimento di una fonte tradizionale di finanziamento della libera stampa, rechi pregiudizio ad una libertà che la Costituzione tutela in modo energico; disciplina dell’accesso alla radiotelevisione; garanzia del diritto di rettifica170.

La legge n.103/75 recepì questi principi avviando una riorganizzazione della concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo.

                                                                                                               

169Corte costituzionale sentenza n. 225/74 consultabile alla pagina

http://www.giurcost.org/decisioni/1974/0225s-74.html “lo Stato monopolista si trova istituzionalmente nelle condizioni di obiettività e imparzialità piùfavorevoli per conseguire il superamento delle difficoltà frapposte dalla naturale limitatezza del mezzo alla realizzazione del precetto costituzionale volto ad assicurare ai singoli la possibilità di diffondere il pensiero con qualsiasi mezzo (…) ” quindi su di esso “incombe l’obbligo di assicurare, in condizioni di imparzialità e obiettività, la possibilità potenziale di goderne (…) a chi sia interessato ad avvalersene per la diffusione del pensiero nei vari modi del suo manifestarsi”.

170DONATI F.; L’art. 21 della Costituzione settanta anni dopo, MediaLaws,

n.1/2018, consultabile alla pagina http://www.medialaws.eu/wp- content/uploads/2018/01/5.-Donati.pdf

Con le sentenze n. 226/74 e 225/74 la Corte costituzionale introdusse una eccezione al monopolio pubblico prevedendo che la ritrasmissione di programmi di emittenti estere ed i servizi radiotelevisivi via cavo potessero essere emessi anche da emittenti private, in quanto non vi sarebbe stato pericolo di formazione di monopoli o oligopoli .

Attraverso considerazioni analoghe, con la sent. n. 202/76 giunse ad affermare l’incostituzionalità della riserva allo Stato dell’attività radiotelevisiva a livello locale. Il monopolio di Stato non venne, invece, scalfito per quanto riguarda il settore delle telecomunicazioni171.

Nella seconda fase, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, iniziarono ad affermarsi sul mercato le televisioni commerciali e venne così superato il modello del monopolio pubblico, e affermato il modello misto pubblico-privato. La liberalizzazione delle frequenze locali per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 202/76 e la mancanza dell’introduzione di un regime autorizzatorio da parte del legislatore, condussero ad un “accaparramento” delle frequenze disponibili da parte di alcune emittenti private. Nel frattempo vennero affermandosi network nazionali composti da più emittenti regionali che trasmettevano lo stesso programma preregistrato in contemporanea eludendo così la riserva allo Stato di trasmettere su scala nazionale. Ecco che proprio in questa fase si pose la concreta esigenza di garantire il pluralismo informativo.

                                                                                                               

171In tale settore le principali problematiche ebbero ad oggetto l’istituto del fermo

postale, a lungo tempo esercitabile senza il controllo dell’autorità giudiziaria (Corte Costituzionale sent. n. 100/86) e le intercettazioni (telefoniche,

informatiche, telematiche) i cui limiti vennero individuati grazie all’intervento della Corte costituzionale ( sentt. nn. 34/73 e 120/75) e recepite dal legislatore con la legge n.98/74.

La Corte costituzionale mise in evidenza, da un lato, l’opportunità di difendere il pluralismo contro il proliferare di posizioni dominanti (affermando l’esigenza di una normativa anti-trust) dall’altro quello di garantire i valori del pluralismo, obiettività, completezza e imparzialità dell’informazione. E’ con la sentenza n. 826/88 che la Corte, per la prima volta, individuò una distinzione tra pluralismo interno (affidato al servizio pubblico radiotelevisivo chiamato a dar