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Il principio di legalità nell’art 42-bis T.U.E.

5. L’istituto sanante nel nuovo art 42 – bis del Testo Unico Espropri.

5.1 Il principio di legalità nell’art 42-bis T.U.E.

Rispetto alla scelta legislativa operata con l’art. 42–bis, potrebbero permanere delle perplessità rispetto alla compatibilità costituzionale di una previsione normativa che, analogamente a quanto aveva fatto l’art. 43 T.U.E. muovendo dal carattere illecito dell’agire della p.a. pretenderebbe, attraverso una valutazione ex

post dell’amministrazione, di paralizzare la posizione dominicale del privato, incisa

dall’illecita modificazione del bene, impedendone le garanzie procedimentali spettanti al proprietario legittimamente espropriato unitamente alla possibilità di riespansione del diritto.

Sul punto, sembra utile rinviare alle riflessioni già qui espresse a proposito dell’art. 43 T.U.E.

Potrebbe allora sembrare che il messaggio reiterato dal legislatore con l’art. 42–

bis ad operatori e pratici sia quello che le valutazioni in ordine alla convenienza

dell’opera progettata, alla congruità o meno delle sue caratteristiche strutturali, tipologiche e topografiche, al rispetto delle norme tecniche costruttive dell’opera, alla salvaguardia della incolumità pubblica, alla tutela delle bellezze naturali, artistiche e ambientali eventualmente esistenti possano essere liberamente tralasciate dalla p.a. che intende acquisire un’area per asservirla a scopi di pubblico interesse, una volta che l’indennizzo è parificato a quello previsto per l’ipotesi di espropriazione ritualmente conclusa.

Ora, permane l’interrogativo se sia possibile che la p.a. possa recuperare le fasi procedimentali che ontologicamente avrebbero dovuto precedere la realizzazione dell’opera attraverso un’attività di sanatoria che passa attraverso l’ammissione di un’attività illecita perpetrata in danno del privato e che, secondo l’art. 42–bis T.U.E. può addirittura coprire - come già aveva fatto l’art. 43 - le ipotesi di occupazione non precedute da dichiarazione di p.u. - o segnate da una dichiarazione di p.u. annullata ex tunc o dall’assenza dell’atto da cui sorge il vincolo preordinato

all’esproprio - depurando l’illecito al punto da fare nascere da questo un acquisto della proprietà legittimo.

L’art. 42–bis avrebbe così pericolosamente omesso di considerare che nei procedimenti disciplinati dall’intero Testo Unico la p.a. deve ispirarsi, secondo quanto sancisce l’art. 2, comma 2 dello stesso T.U.E. - che in parte qua mutua appunto i canoni scolpiti dall’art. 2 della legge n. 241/1990 - ai principi di economicità, efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.

Rimarrebbe, in definitiva, anche per l’art. 42–bis, il punctum crucis rappresentato dal potere di sanatoria che nelle intenzioni del legislatore sarebbe capace di purificare la condotta manipolativa della p.a., sia essa o meno assistita da dichiarazione di p.u. e che agli occhi della Corte costituzionale non sembra apparire risolutivo per riportare l’ordinamento interno sui binari di legalità fissati dalla Corte europea di Strasburgo, se è vero che Corte cost. n. 293/2010 non aveva mancato di affermare che ben avrebbe potuto il legislatore espungere del tutto la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del bene al privato, in analogia con altri ordinamenti europei.

L’equiparazione operata dall’art. 42–bis, nel senso che il provvedimento di acquisizione può essere utilmente sperimentato in entrambe le ipotesi, nasce dalla circostanza che secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato l’istituto dell’occupazione acquisitiva, per effetto della giurisprudenza CtEDU, non ha più campo nell’ordinamento interno, tanto da far sorgere l’obbligo dell’amministrazione alla restituzione del fondo176.

Tale prospettiva legislativa non è per converso in alcun modo condivisa dalla giurisprudenza di legittimità177 e, par di capire, dalla stessa Corte costituzionale, stando al tenore della sentenza n. 293/2010 appena evocata.

176 Cfr., da ultimo, Cons. Stato, 2 settembre 2011 n. 4970, in www.giustizia-amministrativa.it.

177 Anzi, colpisce la recente pronunzia resa dalle Sezioni Unite della Cassazione civile che sembra totalmente disinteressarsi dei “cataclismi” prodotti sull’istituto dell’occupazione acquisitiva di cui si discute a partire dall’anno 2000 per effetto delle pronunzie della Corte dei diritti umani, fino al punto da ignorarli completamente – v. Cass. S.U., n. 11963/2011: “. . . alla luce dei consolidati principi

vigenti in materia, l’affermata irreversibile (parziale) trasformazione del fondo abbia determinato l’acquisto della proprietà del bene (nei limiti della parte trasformata) da parte della Pubblica Amministrazione che aveva dato corso al processo espropriativo. Peraltro da detta premessa non discende automaticamente (come ha viceversa ritenuto il Tribunale Superiore delle Acque) il rigetto della domanda restitutoria a suo tempo formulata dalla ricorrente. Ed infatti la Falivene, invocando la restituzione del bene oggetto del procedimento espropriativo, ha sostanzialmente esercitato, nella sua qualità di danneggiato, la richiesta di reintegrazione in forma specifica del pregiudizio subito, con ciò esercitando il diritto riconosciuto dall’art. 2058 c.c., comma 1. È ben vero che in tali ipotesi (quelle cioè in cui, a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, sia intervenuta l’irreversibile trasformazione del fondo) l’eventuale domanda di risarcimento in forma specifica formulata dal proprietario del terreno interessato è ordinariamente destinata ad un esito negativo, dovendo trovare prioritario soddisfacimento l’interesse posto a base della realizzazione dell’opera pubblica.- Conf. Cass. n. 556 del 15 gennaio 2010. -”

E ciò sulla base di un ragionamento, non espresso, che porterebbe a ritenere ormai risolti i problemi di “legalità” ripetutamente posti dal giudice europeo per il solo fatto che il proprietario, illecitamente defraudato, gode del valore venale del bene.

La Corte costituzionale aveva, in passato, espressamente riconosciuto che la dichiarazione di pubblica utilità e la fissazione dei termini ivi previsti dall’art. 13 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 - ora profondamente modificato dall’art. 13 T.U.E. - costituiscono regole indefettibili per ogni forma di procedimento espropriativo.

Sarebbe quindi estremamente complicato giustificare l’equiparazione delle ipotesi dell’occupazione appropriativa ai fatti meramente usurpativi ai fini dell’operatività del meccanismo di acquisizione introdotto dall’art. 42–bis.

Sul punto, è sufficiente ricordare che Corte cost. n. 148/1999 ritenne inammissibile una delle ordinanze di rimessione relative all’art. 3, comma 65, legge n. 662/1996 sotto il profilo che la fattispecie sarebbe palesemente non inscrivibile tra le occupazioni appropriative, atteso il pacifico intervenuto annullamento in sede giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità poiché secondo un indirizzo giurisprudenziale (Cass., Sez. I, 16 luglio 1997, n. 6515), condiviso dalla Corte, le norme sul risarcimento in caso di occupazione appropriativa si applicano alle sole occupazioni illegittime dei suoli per causa di pubblica utilità, per cui in mancanza di valida dichiarazione di pubblica utilità (cui viene equiparata la dichiarazione annullata perché illegittima) si è al di fuori delle ipotesi contemplate per il risarcimento dalla norma denunciata.

Ciò la Consulta fece muovendo dal presupposto, ribadito nella successiva sentenza n. 24/2000, che la disciplina introdotta dall’art. 3, comma 65, legge n. 662/1996 era applicabile nei soli casi di “occupazioni illegittime dei suoli per causa

di pubblica utilità” e non estensibile all’ipotesi in cui fosse mancata una “valida

dichiarazione di pubblica utilità (cui viene equiparata la dichiarazione annullata perché illegittima)” per la quale non era revocabile in dubbio la possibilità del privato di azionare la tutela reale.

Ed allora, l’eliminazione della tutela dominicale reale anche per i fatti usurpativi potrebbe rappresentare un insostenibile sacrificio per il fondo

abusivamente utilizzato dalla p.a. se la stessa si disegna come modello di acquisizione del bene alla mano pubblica, addirittura realizzando l’effetto traslativo in maniera decisamente più cruenta rispetto alle ipotesi che la giurisprudenza di legittimità riconosceva essere capaci di determinare l’effetto estintivo acquisitivo in caso di assenza di valida dichiarazione di p.u. - rinunzia abdicativa del proprietario.

L’analisi dell’art. 42–bis non può tuttavia prescindere da una verifica che prenda a parametro della legittimità dell’operato legislativo non solo i canoni costituzionali, ma anche i precetti cui lo Stato italiano, aderendo alla Convenzione sui diritti dell’Uomo in qualità di membro della comunità internazionale, deve necessariamente uniformarsi a qualsiasi livello - giurisprudenziale o legislativo che dir si voglia - esso operi.

In effetti, la Corte di Strasburgo ha già ritenuto che spetta alla discrezionalità del legislatore nazionale il compito di indicare i connotati dell’utilità pubblica e dell’interesse generale, pur rilevando che la disciplina positiva deve essere provvista di base “ragionevole”.

Anzi, recentemente quel Giudice ha avuto modo di ribadire che le autorità nazionali sono, in linea di principio, meglio in grado del giudice internazionale di determinare quello che è di “pubblica utilità”, ricordando non solo che tale ultima espressione, contenuta nella seconda previsione enunciata dall’art. 1 del Prot. n. 1 alla CEDU “è una nozione di per sé molto ampia”, ma anche specificando che l’adozione di norme sulla privazione della proprietà implica ordinariamente l’esame di questioni politiche, economiche e sociali rispetto alle quali il legislatore dispone “di grande libertà” che la stessa Corte dei diritti dell’uomo è tenuta a rispettare salvo se le sue determinazioni si rivelino manifestamente prive di ragionevolezza.

Ma per verificare la “legalità convenzionale” dell’art. 42–bis bisogna individare con precisione il concetto di “legalità” focalizzato dalla Corte europea rispetto alle vicende delle espropriazioni indirette italiane.

Orbene, la giurisprudenza di Strasburgo ha professato un principio unico di legalità “europea”, nel quale fare convivere i paesi di common law con quelli di civil

law. In tale contesto il termine “previsto dalla legge” non si limita a rinviare al

diritto interno, ma riguarda anche la qualità della legge.

deve essere accessibile al cittadino, formulata con sufficiente precisione e di natura tale per cui quel cittadino, sulla base di appropriati consigli, sia in grado di prevedere in misura ragionevole le conseguenze che potrebbero derivare da un determinato atto178.

In questo senso, la giurisprudenza della Corte dei diritti umani ha riconosciuto la preminenza del diritto.

Se sono vere le superiori premesse, non potrebbe risultare peregrino che la c.d. “utilizzazione senza titolo” riprodotta dall’art. 42–bis intende cancellare i dubbi prospettati sotto il profilo del rispetto del principio di legalità, in quanto disciplina positivamente dettata che aggancia il trasferimento del bene ad un provvedimento amministrativo dell’amministrazione, sgravando il proprietario dall’azione individuale volta ad elidere la situazione illegale179.

E poco importa che tale disciplina sia foriera di questioni e problemi di non minore spessore di quelli suscitati dall’affaire occupazione appropriativa. Si tratta, infatti, di una disposizione precettiva avente il rango di legge ordinaria rispetto alla quale, all’atto della sua entrata in vigore, l’autorità giudiziaria chiamata ad applicarla potrà sperimentare i rimedi volti a valutarne la compatibilità costituzionale o comunque a sottoporre il tracciato normativo a quell’opera interpretativa che costituisce l’in sé dell’attività giurisdizionale e che, sola, consente di individuare il precetto che c’è in ogni norma.

Anche se rispetto a tale visione il contenuto discrezionale riservato all’amministrazione circa l’an e l’eccezionalità che al provvedimento si è inteso attribuire finirebbero col muoversi in controtendenza rispetto a tale esigenza di

178 V. § 66 sent. M

ALONE,: “The expressions in question were, however, also taken to include requirements over and above compliance

with the domestic law. Two of these requirements were explained in the following terms: “Firstly, the law must be adequately accessible: the citizen must be able to have an indication that is adequate in the circumstances of the legal rules applicable to a given case. Secondly, a norm cannot be regarded as ’law’unless it is formulated with sufficient precision to enable the citizen to regulate his conduct: he must be able—if need be with appropriate advice—to foresee, to a degree that is reasonable in the circumstances, the consequences which a given action may entail.” (Sunday Times judgment, p. 31, par. 49; Silver and Others judgment, p. 33, par. 87 and 88”.

179 V., infatti, di recente, ancora Corte dir. uomo, 27 maggio 2010, S

ARICA EDILAVER C.TURCHIA, in cui si insiste sui connotati dell’espropriazione di fatto e sulla circostanza che il proprietario è chiamato ad affrontare dei costi giudiziari per ottenere la tutela della proprietà: “. . . 43. Dans ce contexte, la Cour observe d’abord que la pratique de l’expropriation de fait permet à l’administration

d’occuper un bien immobilier et d’en transformer irréversiblement la destination, de telle sorte qu’il soit finalement considéré comme acquis au patrimoine public sans qu’il y ait eu le moindre acte formel et déclaratoire du transfert de propriété. En l’absence d’un tel acte, le seul élément qui permette de légitimer le transfert du bien occupé et de garantir rétroactivement une certaine sécurité juridique est le jugement du tribunal saisi qui ordonne le transfert de propriété après avoir constaté l’illégalité de l’occupation dénoncée et alloué aux demandeurs des dommages et intérêts, dits “ indemnité d’expropriation de fait “. Cette pratique a pour effet de contraindre les intéressés — qui demeurent formellement propriétaires de leurs biens sur le plan juridique — à ester en justice contre l’administration qui, jusqu’alors, n’a jamais eu à justifier son acte par un quelconque motif d’utilité publique puisque la réalité d’un tel motif ne peut faire l’objet que d’une appréciation a posteriori par les tribunaux. Autrement dit, le constat d’une expropriation de fait tend dans tous les cas à entériner juridiquement une situation irrégulière volontairement créée par l’administration et à permettre à celle–ci de tirer bénéfice de son comportement illegal”.

certezza, lasciando i proprietari in una situazione d’incertezza tutte le volte in cui l’amministrazione abbia ritenuto di non adottare simile provvedimento, facendo tornare lo spettro rappresentato dai problemi sorti in epoca antecedente alle sentenze del maggio 2000 rese dalla CtEDU.

Non è detto, allora, che il meccanismo “legalizzato” dal legislatore, riconnesso ad un atto amministrativo dal quale sia possibile, volta per volta, inferire l’esistenza di un interesse pubblico dell’opera realizzata, debba suscitare nei giudici europei la reazione che invece diede il là alle sentenze BELVEDERE ALBERGHIERA E CARBONARA E VENTURA.

Ciò è ancorpiù vero se si considera che i parametri certi che occorre utilizzare per valutare la conformità dell’art. 42–bis all’art. 1 del primo Protocollo alla CEDU sono, come si è visto, anche quelli dell’accessibilità e precisione delle norme di diritto interno.

Sotto tale profilo l’intervento legislativo apparirebbe dotato, come lo era l’art. 43, di una portata razionalizzante e per di più in linea con il principio della proporzionalità dell’ingerenza che la Corte di Strasburgo ha più volte richiamato proprio a proposito delle limitazione al diritto dominicale.

Questo, del resto, era stato il giudizio espresso dal Comitato dei Ministri nel febbraio 2007 sull’art. 43 T.U.E. con la Risoluzione più volte ricordata, cogliendo in tale disposizione uno sforzo costruttivo dell’ordinamento interno verso la soluzione definitiva del problema espropriazioni indirette, per di più approfondito con il riconoscimento del valore pieno del bene al momento dell’adozione del provvedimento e di un danno non patrimoniale che, al di là delle questioni che saranno esposte, rappresenta un ulteriore riconoscimento di una posta patrimoniale in favore del proprietario colpito da un atto originariamente illegale, in piena sintonia con le pronunzie della CtEDU.

E proprio le considerazioni appena sopra espresse a proposito della sentenza GUISO GALLISAY potrebbero inequivocabilmente dimostrare che l’attivazione di meccanismi di adeguamento del sistema interno alla CEDU siano visti con estremo favore e, potremmo dire, con comprensione, dalla Corte di Strasburgo.

Ciò per la consapevolezza, radicata nella giurisprudenza di Strasburgo, che sono lo Stato italiano e le sue Istituzioni a meglio potere ponderare le misure che

risultino, in relazione al quadro normativo interno, considerato nel suo complesso, rispondenti ai diritti di matrice CEDU.

È forse per tali ragioni che i giudici europei difficilmente potranno reiterare condanne a carico dell’Italia dopo la riedizione di una disposizione normativa che intende ispirarsi, comunque, a canoni di certezza e prevedibilità, pur con tutte le permanenti aporie già evidenziate. Non sarebbe allora possibile concludere, con assoluta certezza, che il meccanismo (re)introdotto dall’art. 42–bis ha caratteristiche “manifestamente illegali” rispetto al diritto interno, avendo l’ordinamento apprestato un sistema di tutela giurisdizionale in favore del proprietario defraudato.

E ciò anche perchè sarebbe difficile spiegare i giudizi positivi espressi dalla stessa Corte europea - Corte dir. Uomo 22 giugno 2006, UCCI C. ITALIA - e nella Risoluzione del febbraio 2007 del Comitato dei Ministri, a favore di Ad. Plen. n. 2/2005 e dell’art. 43 T.U.E.

Del resto, gli esiti imprevedibili ed arbitrari richiamati da Corte cost. n. 293/2010 erano stati dalla CtEDU - sent. SCIARROTTA C. ITALIA 12 gennaio 2006 - ipotizzati prioritariamente, quanto al 3º comma dell’art. 43 T.U.E., con esclusivo riferimento ai casi di assenza di dichiarazione di p.u. Il che lasciava ritenere che il giudizio finale sulla compatibilità dell’art. 43 T.U.E. con le norme della CEDU sarebbe stato ancora di là da venire - ed ormai divenuto impossibile per effetto della caducazione della stessa disposizione -.

Ed anche l’equiparazione fra condotte acquisitive ed usurpative potrebbe, in tale ottica, trovare giustificazione in relazione al sistema indennitario/risarcitorio previsto, destinato a coprire integralmente le voci di danno, pur sacrificando il diritto alla restituzione del bene garantito al proprietario “usurpato”.