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Introduzione alla sentenza S CORDINO C I TALIA

Appena un mese dopo la pubblicazione della Risoluzione del Comitato dei Ministri, la Corte dei diritti umani fu chiamata a quantificare l’equa soddisfazione nell’ambito di un procedimento che nel maggio 2005 aveva già visto l’adozione di una sentenza di condanna dell’Italia per una vicenda inquadrabile nell’occupazione acquisitiva - Corte dir. uomo 17 maggio 2005, SCORDINO C. ITALIA - Corte dir. uomo, 6 marzo 2007, SCORDINO C. ITALIA (ric. 43662/98) -.

La sentenza, consente di focalizzare alcuni punti fermi nella giurisprudenza di Strasburgo che possono così sintetizzarsi: a) natura strutturale della violazione riferibile all’Italia per avere perpetuato il sistema dell’espropriazione indiretta; b) obblighi dello Stato di adottare misure individuali e generali per elidere gli effetti della violazione strutturale ed individuazione concreta degli strumenti suggeriti all’Italia; c) conseguenze patrimoniali della violazione reiterata del diritto di proprietà e riconoscibilità di un pregiudizio da mancata protezione del diritto di proprietà non ottenibile innanzi alle giurisdizioni nazionali170.

Per quel che qui importa, è utile esaminare brevemente alcuni passaggi motivazionali della decisione. Colpisce, anzitutto, il riferimento duplice (§ 11 e 15 sent.) operato alle defaillance structurelle prodotte dall’ordinamento giuridico per effetto dell’occupazione illegittima, ormai apprezzato come fenomeno che colpiva la “categoria” di persone private arbitrariamente del diritto dominicale per effetto dell’agire illecito della pubblica amministrazione.

La Corte, infatti, benché fosse stata investita della decisione degli aspetti patrimoniali che riguardano il danneggiato e lo Stato danneggiante si poneva, dichiaratamente, in una prospettiva “collettiva”, di categoria171, guardando al pregiudizio subìto non tanto e solo dal proprietario che ha promosso il ricorso, ma anche da tutti quei proprietari che già si trovavano nella stessa posizione dei ricorrenti o che, comunque, potevano in futuro trovarsi in situazioni analoghe.

170 La sentenza segue una precedente decisione, resa il 17 maggio 2005 e divenuta definitiva il 12 ottobre successivo, con la quale la Corte dei diritti umani aveva riconosciuto la violazione dell’art. 1 Prot. n. 1 alla CEDU a carico dell’Italia accogliendo il ricorso promosso da alcuni proprietari i quali, colpiti da una condotta di irreversibile trasformazione di alcune aree, si erano visti riconoscere il risarcimento del danno in misura pari a poco più di 264.000.000 delle vecchie lire - oltre accessori - dopo che, nel corso del procedimento, era entrato in vigore il comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge n.359/1992 - ritenuto applicabile alla fattispecie e capace, come è noto, di ridurre in maniera drastica il risarcimento del danno spettante per i casi di c.d. occupazione acquisitiva -.

171 V. § 14 sent.: “...la Corte ha costatato nella specie deriva da una situazione che riguarda un grande numero di persone, cioè la

categoria dei privati interessati dall’occupazione senza titolo di un terreno, e che sono suscettibili di perdere il loro bene mediante una decisione giudiziaria che ratifica il comportamento illegale delle autorità ai sensi dell’espropriazione indiretta.”

È stata la Corte a ricordare — § 11 — che ai sensi dell’articolo 46 le Alte Parti contraenti si impegnano ad uniformarsi alle sentenze definitive emesse dalla Corte nelle controversie in cui sono parte in causa, con la sorveglianza del Comitato dei Ministri sull’esecuzione di tali sentenze.

Ed è stato ancora quel giudice a ricordare che “...quando la Corte accerta una

violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme accordate a titolo di equa soddisfazione di cui all’articolo 41, ma anche di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o, eventualmente, individuali da integrare nel suo ordinamento giuridico interno allo scopo di mettere fine alla violazione accertata dalla Corte e di annullarne le conseguenze per quanto possibile”.

Nella scelta di tali misure, prosegue la Corte, “... lo Stato convenuto rimane

libero, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, di scegliere i mezzi per assolvere al suo obbligo giuridico relativamente all’articolo 46 della Convenzione, purché tali mezzi siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte”.

Il carattere sistemico delle violazioni italiane si coglie, nitidamente, non solo nel punto 11 della sentenza ma, soprattutto, quando essa prendeva atto di un fenomeno su larga scala, caratterizzato da numerosissime sentenze della Corte europea che già si sono occupate del medesimo problema.

Anzi, tale circostanza veniva indicata come potenzialmente capace di aggravare la responsabilità dello Stato proprio in ragione della minaccia all’effettività della tutela della CEDU nel suo complesso che la reiterazione di simili comportamenti mette seriamente a repentaglio - v. in particolare § 14 sent. - in fondo svilendo il ruolo riservato al giudice europeo.

Il discorso poteva comprendersi nel suo pieno significato solo soffermandosi sulla (drammatica) situazione in cui versava la Corte europea, sommersa dai ricorsi proposti nei confronti dell’Italia. La medesima particolare attenzione per gli aspetti generali del fenomeno si coglieva allorché la Corte si prendeva cura di precisare quale tipo di misure, di ordine generale, lo Stato fosse tenuto ad adottare per eliminare le conseguenze dannose della violazione accertata ai sensi dell’art. 46 CEDU.

E benché la Corte sia ben consapevole che alla stessa non spettava di individuare le appropriate misure di riparazione affinché lo Stato convenuto ottemperasse ai suoi obblighi relativamente all’articolo 46 della Convenzione, era lo stesso giudice a riconoscere che “in considerazione della situazione di carattere

strutturale da lei accertata, ... si impongono indubbiamente misure generali a livello nazionale, misure che devono tener conto dell’alto numero di persone coinvolte”.

Tali misure dovevano “ ... essere tali da rimediare alla falla strutturale da cui

deriva l’accertamento della violazione da parte della Corte, in modo che il sistema messo in piedi dalla Convenzione non sia compromesso da un elevato numero di ricorsi derivanti dalla stessa causa” . Le stesse, aggiunge la Corte, “... devono perciò includere un meccanismo che offra alle parti lese un risarcimento per la violazione della Convenzione accertata nella presente sentenza relativamente ai ricorrenti. In proposito, la Corte vuole facilitare la soppressione rapida e efficace di un malfunzionamento constatato nel sistema nazionale di protezione dei diritti dell’uomo. Una volta identificata tale mancanza, spetta alle autorità nazionali, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, prendere, retroattivamente se necessario le misure di riforma necessarie conformemente al principio di sussidiarietà della Convenzione, affinché la Corte non abbia a reiterare la sua constatazione di violazione in una lunga serie di casi comparabili”.

Era a questo punto che la Corte, nella prospettiva di “aiutare” lo Stato convenuto ad ottemperare ai suoi obblighi ai sensi dell’articolo 46, si sforzava di “...

indicare il tipo di misure che lo Stato italiano potrebbe prendere per mettere fine alla situazione strutturale constatata nella fattispecie”.

In termini molto nitidi la Corte chiariva che “...lo Stato dovrebbe, prima di

tutto, prendere misure che abbiano l’obiettivo di evitare qualsiasi occupazione non a norma di terreni, sia che si tratti di occupazione sine titulo fin dall’inizio, ovvero che si tratti di occupazione inizialmente autorizzata e diventata successivamente sine titulo”.

Secondo la Corte la posizione del proprietario rispetto ai fatti di occupazione usurpativa o acquisitiva è assolutamente sovrapponibile, meritando il proprietario piena tutela in entrambi i casi e dunque imponendo di autorizzare l’occupazione di

un terreno soltanto quando è accertato che il progetto e le decisioni di esproprio sono stati approvati nel rispetto delle norme fissate e che essi sono dotati di una linea finanziaria che possa garantire un indennizzo rapido e adeguato dell’interessato. Inoltre, lo Stato convenuto era “tenuto” a scoraggiare le pratiche non conformi alle norme degli espropri in buona e dovuta forma, adottando misure dissuasive e cercando di individuare le responsabilità degli autori di tali pratiche.

Ma il punto più qualificante delle misure consigliate dalla Corte di Strasburgo era certamente rappresentato dall’invito all’Italia a che essa si prodigasse, nei casi di occupazione alla quale non era seguita l’adozione del decreto di espropriazione, per eliminare gli ostacoli che impediscono sistematicamente la restituzione dell’area al privato.

In tutti i casi in cui un terreno è già stato oggetto di occupazione sine titulo ed è stato trasformato senza il decreto di esproprio, lo Stato convenuto avrebbe dovuto sopprimere gli ostacoli giuridici che impediscono la restituzione del terreno sistematicamente e per principio.

Solo quando la restituzione di un terreno risulta impossibile per motivi plausibili in concreto, lo Stato convenuto avrebbe dovuto garantire il pagamento di una somma corrispondente al valore che avrebbe la restituzione in natura. Solo in via residuale, pertanto, lo Stato avrebbe dovuto prendere misure di bilancio adeguate al fine di concedere il risarcimento per le perdite subite e che non sarebbero compensate dalla restituzione in natura o dal pagamento sostitutivo.

Il principio della restituito in integrum affermato in maniera vigorosa dalla Corte dei diritti dell’uomo per le ipotesi di riconosciuta violazione di un diritto garantito dalla CEDU, ormai divenuto liet motiv della più recente giurisprudenza di Strasburgo, veniva così riaffermato172.

Si trattava del primo affondo versus la giurisprudenza della Corte di Cassazione che, continuando a ritenere la piena legittimità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con le regole costituzionali, si era limitata, con la ricordata ordinanza n.

172 V. di recente Corte dir. uomo, Grande Camera, 29 marzo 2006, S

CORDINO C.ITALIA, p. 247: Gli Stati contraenti parti in una causa sono in linea di principio liberi di scegliere i mezzi da utilizzare per conformarsi ad una sentenza della Corte che abbia accertato una violazione. Tale potere di apprezzamento delle modalità di esecuzione di una sentenza traduce la libertà di scelta associata all’obbligo primordiale imposto dalla Convenzione agli Stati contraenti: assicurare il rispetto dei diritti e delle libertà garantiti (art. 1). Se la natura della violazione permette una restitutio in integrum, spetta allo Stato convenuto attuarla, poiché la Corte non ha né la competenza né la possibilità pratica di realizzarla essa stessa. Se, invece, il diritto nazionale non permette o permette solo in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze della violazione, l’art. 41 abilita la Corte ad accordare, se del caso, alla parte danneggiata la soddisfazione che le sembra appropriata.

11887/2006, a sollevare questione di costituzionalità della norma sull’ammontare del risarcimento spettante al proprietario, ma non certo a porre in discussione la “bontà” delle coordinate di fondo dell’istituto dell’occupazione acquisitiva – tra le quali, come è noto, campeggia l’effetto estintivo/acquisitivo in ragione della pregressa sussistenza della dichiarazione di pubblica utilità.

E che il bersaglio fosse (anche) la giurisprudenza italiana si coglieva, in modo ancor più netto, nei punti 27 e 29 della motivazione, allorché si accusavano le giurisdizioni nazionali di avere adottato, nei confronti dell’istituto dell’espropriazione indiretta, un comportamento quasi “notarile”, volto a prendere atto della situazione illegale che si stava perpetuando a carico del proprietario ed a certificare il passaggio della proprietà dal dominus all’occupante abusivo, per di più offrendo un ristoro del danno ben inferiore alla riparazione integrale del pregiudizio subito.

Ed ancor più grave era poi il rimprovero alle Corti interne di avere esse stesse contribuito a perpetuare una situazione d’illegalità, in tal modo venendo meno all’obbligo di regolarizzare la situazione denunziata dal proprietario.

Ora, il richiamo della Corte ai principi che erano già stati espressi nella sentenza sull’an del 17 maggio 2005 intendeva volutamente approfondire lo iato fra giudice sovranazionale e giurisdizioni interne, chiamando addirittura in reità il giudice domestico per non avere fatto ciò che, invece, rientrava nelle sue prerogative.

Le considerazioni appena espresse consentono, così, di spiegare la presa di posizione del giudice europeo sulla necessità di garantire al proprietario la restituzione del fondo piena in caso di aggressione illecita della proprietà.

Solo l’accertamento “in concreto” di un ostacolo che renda impossibile la restituzione può giustificare, agli occhi della Corte, la surrogazione del diritto dominicale con l’integrale risarcimento del danno pari al valore venale del bene.

Ciò che confortava l’intendimento di chi profilava l’incompatibilità della tutela apprestata a Strasburgo con quanto fin qui ritenuto dalla Corte di Cassazione che, in tema di occupazione acquisitiva, aveva fatto derivare l’acquisto della proprietà come conseguenza dell’irreversibile trasformazione del suolo.

I principi professati dalla Corte risultavano, così, distonici rispetto al diritto vivente, alla stregua del quale, almeno per i fatti di occupazione acquisitiva,

l’obbligo della restitutio in integrum si attua imponendo all’autore del danno di rimettere il patrimonio del danneggiato nello stato in cui si sarebbe venuto a trovare qualora il fatto colposo non si fosse verificato e dunque escludendo il diritto alla restituzione.