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La sentenza S CORDINO e la riforma del sistema indennitario.

Possiamo a questo punto tornare alla giurisprudenza di Strasburgo sull’indennizzo espropriativo spettante al proprietario. Nella sentenza del 29 marzo 2006 SCORDINO C. ITALIA del 29 marzo 2006 la Grande Sezione ha ribadito, nella sostanza, le conclusioni espresse già all’unanimità dai giudici della Camera che aveva adottato la precedente pronunzia del Luglio 2004 resa fra le stesse parti, fornendo un’interpretazione autentica dei principi espressi in passato in ordine alla misura che l’indennizzo spettante al proprietario attinto da un’espropriazione legittima deve avere per essere in linea con l’art. I Prot. n. 1 alla CEDU.

È stato così ribadito che se il principio del ristoro pieno del valore del bene può subire delle limitazioni nei casi di espropriazione, ciò risulta tollerato quando si adottano misure di riforma economica o misure tendenti a conseguire una maggior

giustizia sociale o quando sono operati cambiamenti fondamentali del sistema quali la transizione dalla monarchia alla repubblica o in caso di adozione di leggi nell’eccezionale contesto della riunificazione della Germania.

Facendo applicazione di tali principi la Corte ha stigmatizzato come nel caso concreto, nel quale si faceva questione di un’espropriazione non agganciata a particolari processi economici e/o politici, la quantificazione dell’indennizzo in misura pari a circa il 50 per cento del valore venale - per di più destinato alla falcidia dell’ulteriore 20% per effetto del carico tributario - aveva prodotto un peso eccessivo e sproporzionato che non poteva essere in alcun modo giustificato in nome del pubblico interesse sotteso alla procedura ablatoria. Doveva pertanto conseguirne che la mancanza di un legittimo scopo di pubblica utilità non poteva giustificare un ristoro inferiore al valore di mercato210.

Da qui la conclusione che il proprietario era stato sottoposto ad un carico sproporzionato, ottenendo per un’espropriazione che non era rivolta al perseguimento di obiettivi di pubblica utilità un importo di gran lunga inferiore al valore del bene. Emergeva, così, la preoccupazione principale della Corte di Strasburgo orientata ad impedire, nell’ordinamento italiano, l’introduzione in modo indiscriminato di una disciplina fortemente riduttiva dell’indennizzo senza per nulla agganciare tale sistema alla particolare tipologia di esproprio che, sola, avrebbe potuto giustificare lo scostamento dal valore commerciale del bene.

Questa prospettiva di sistema era evidentemente correlata alle numerose cause che pendevano innanzi alla Corte di Strasburgo sullo stesso tema. È per tale ragione che la CEDU esplicita la sua convinzione circa il carattere strutturale della violazione connessa all’introduzione dell’art. 5–bis l. n. 359/1992211.

L’affondo più duro mosso al giudice nazionale si consumava nel punto 230 della sentenza SCORDINO, allorché la Corte affermava che “l’esistenza e la natura

sistemica di tale problema non sono state riconosciute dalle autorità giudiziarie italiane”. L’attenuante che il giudice di Strasburgo riconosceva alla Corte

210 Secondo il giudice di Strasburgo l’applicazione dei criteri contenuti nell’art. 5–bis l. n. 359/1992 rendeva irrilevante, ai fini dell’indennizzo, la tipologia dei lavori di pubblica utilità cui era preordinato l’esproprio. Anzi, era emerso inconfutabilmente che l’espropriazione in oggetto non era stata compiuta “nel quadro di un processo di riforma economica, sociale o politica.

211

La Corte, inserendosi in un filone giurisprudenziale in cui era stato delineato il ruolo delle c.d. causa pilota - sent. BRONIOWSKI

C.POLONIA29,SEJDOVIC C.ITALIA EHUTTEN–CZAPSKA C.POLONIA - riconosce che la violazione del diritto del ricorrente traeva origina da un problema diffuso causato da una disfunzione dell’ordinamento italiano che ha colpito e potrebbe continuare a colpire in futuro, un gran numero di persone”— p. 229 —.

costituzionale, per avere nelle sue pronunzie (n. 223/1983; n. 283 e n. 442 del 1993) comunque individuato un problema strutturale di fondo cui avrebbe dovuto provvedere il legislatore, non arrivava ad essere una circostanza esimente di responsabilità.

Andare alla ricerca delle ragioni che hanno condotto il legislatore del 2007 a riempire, in tutta fretta, un vuoto normativo che avrebbe determinato la reviviscenza del criterio del valore venale in materia d’indennizzo di immobili edificabili impone di individuare con compiutezza i suggerimenti che, nemmeno scopertamente, erano giunti dalle istanze sovranazionali e nazionali al fine di eliminare la frattura strutturale emersa fra il sistema di tutela interna offerto al proprietario espropriato e quello garantito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. In questa prospettiva, utile sembra un’analisi che proceda, in modo concomitante, all’esame delle indicazioni fornite dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo e da Corte cost. n. 348/2007, anche al fine di constatare che la disarmonia di fondo che aveva caratterizzato la fase iniziale del rapporto fra tali organi giurisdizionali si è tramutata, da ultimo, in sostanziale armonia, confermando riflessioni in altra parte del volume proposte.

Va dunque rammentato che tra le misure di ordine generale che, secondo la Corte di Strasburgo, lo Stato avrebbe dovuto adottare per eliminare la violazione all’art. I Prot. n. 1 prodotta dall’art. 5–bis l. n. 359/1992 - ed anche dall’art. 37 T.U.E. - la Corte europea, con un occhio alle decine di cause che sono già state proposte per i medesimi motivi nei confronti dell’Italia, propose un coacervo di misure riparatorie proprio in ragione del carattere strutturale della violazione, del gran numero di persone coinvolte e dell’esistenza stessa del sistema introdotto dalla Convenzione che sarebbe risultato compromesso da un gran numero di ricorsi originati dalla stessa causa.

Quel Giudice, mosso dal desiderio di “agevolare la rapida ed effettiva

eliminazione della disfunzione constatata nel sistema nazionale di tutela dei diritti umani” consigliò alle autorità nazionali di assumere tali misure riparatorie in modo

da eliminare il contenzioso pendente e potenziale: misure legislative, amministrative e di bilancio che avrebbero dovuto garantire il diritto del proprietario ad un indennizzo “che abbia un rapporto ragionevole con il valore dei

beni espropriati” e che fosse “effettivamente e rapidamente tutelato”.

Esaminando ora i suggerimenti indirizzati al legislatore dalla Corte costituzionale all’atto di dichiarare l’incostituzionalità del criterio indennitario di cui all’art. 5–bis l. n. 39/1992 - e dell’art. 37 T.U.E. - il giudice costituzionale ha sottolineato alcuni passaggi delle sentenze di Strasburgo per consigliare al legislatore un’accorta modifica dei criteri indennitari in materia di aree edificabili, in modo da tenere in considerazione la portata sociale delle finalità pubbliche che si vogliono perseguire.

La Consulta ha tenuto infatti a riaffermare che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato. Ciò perché livelli troppo elevati di spesa per l’espropriazione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse potrebbero pregiudicare la tutela effettiva di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (salute, istruzione, casa, tra gli altri) e potrebbero rappresentare un freno eccessivo alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per un più efficiente esercizio dell’iniziativa economica privata.

Se nemmeno può tralasciarsi di considerare il rilievo che nell’ordinamento costituzionale ha la funzione sociale della proprietà, prosegue la Corte, ne dovrebbe derivare una legislazione che, pur ineludibilmente garantendo al proprietario che subisce un’espropriazione isolata un ristoro - sempre agganciato al valore di mercato del bene quale emerge dal suo potenziale sfruttamento non in astratto, ma secondo le norme ed i vincoli degli strumenti urbanistici vigenti nei diversi territori - più consistente rispetto a quello di chi è interessato da piani di esproprio volti a rendere possibili interventi programmati di riforma economica o migliori condizioni di giustizia sociale preveda soluzioni diverse - pur agganciate al parametro del valore venale - per i procedimenti ablatori finalizzati ad attuare importanti bisogni collettivi.

È questa la soluzione che avrebbe dovuto traghettare il sistema interno verso quel giusto mezzo capace al contempo di rispondere ai richiami di Strasburgo e di porsi come misura costituzionalmente corretta. Del resto, prosegue la Corte, ricordando la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, criteri di calcolo fissi e indifferenziati rischiano di trattare allo stesso modo situazioni diverse rispetto alle

quali, invece, “il bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto riguardo

alla portata sociale delle finalità pubbliche che si vogliono perseguire, pur sempre definite e classificate dalla legge in via generale.”