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Il processo di Padre Puglisi e la requisitoria del pm

Nell’estratto del testo della sentenza della Corte di assise di Palermo105, si sintetizzano quelle che sono le dichiarazioni degli uccisori di Padre Puglisi. Quello che è importante individuare sono i motivi che hanno portato i boss a credere che, la testimonianza di vita di quel prete che attirava a sé i giovani del quartiere di Brancaccio, avrebbe potuto allontanare “prede facili” destinate ad un solo futuro, quello criminale. Sono Spatuzza Gaspare, Mangano Antonino, Giacalone Luigi e Lo Nigro Cosimo, i colpevoli dei reati ascritti per l’omicidio premeditato di Don Pino, con la condanna all’ergastolo e l’isolamento diurno per due anni. Il movente di questo fatto che ha avuto un forte eco fino ai giorni nostri, ha come luogo un territorio a prevalente “sovranità mafiosa”, nel quale una isola di “extra-territorialità” era costituita dalla parrocchia di don Pino Puglisi che, per adesioni e progettualità e per la vitalità manifestata, era diventata una enclave di valori cristiani, morali e civili che non lasciava indifferenti i ragazzi del quartiere. Una posizione divenuta troppo scomoda per i clan del quartiere, che decisero, in breve tempo, di eliminare il prestigioso e ingombrante capo spirituale per disperdere i frutti della sua opera e del suo apostolato e fare cadere nuovamente il quartiere nella conosciuta atmosfera di “vassallaggio” al potere mafioso. Ma analizzando bene tutta la vicenda, ciò che in realtà i clan temevano di più era il progetto che il parroco stava attuando; utilizzare le forze sane della società civile, favorendo un processo di avanzamento del fronte della legalità. I boss avevano intuito che il fronte doveva essere spezzato, colpendo al cuore del movimento,

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dove indiscusso e inviolato dilagava il potere dei fratelli Graviano, indicati come i colpevoli del delitto; controllori incontrastati del territorio e di parte dell’apparato militare della mafia106. Alle eloquenti deposizioni degli amici e collaboratori di padre Puglisi si affiancarono, esplicando altresì una funzione di riscontro, le indicazioni fornite da ex mafiosi e ex criminali che, scegliendo la via della collaborazione, fornirono importanti rivelazioni sulle condizioni di vita e le presenze mafiose nel quartiere di Brancaccio. E’ nel testo integrale della requisitoria del pubblico ministero Lorenzo Matassa, tenutasi il 23 febbraio 1998 davanti la Corte d’Assise di Palermo, che si raccontano e interpretano gli ultimi atti e giorni della vita di padre Puglisi, ricostruendo le deposizioni dei suoi uccisori. E’ doveroso fare chiarezza, non solo per una questione giuridica ma anche per una questione morale, perché vi sono assassini che trascendono coloro che li compiono; perché uccidendo un uomo calpestano un pensiero, una speranza, l’idea stessa di umanità. Questo è uno di quegli omicidi, caratterizzato dalla spietata morte di un uomo a causa del suo impegno evangelico e sociale. Diviene quindi necessario ricercare la verità come un veicolo di giustizia civile e divina, essa è l’essenza stessa della giustizia e il processo di Don Pino è stato un veicolo di verità per il quartiere di Brancaccio con la sua realtà di miseria, dolore e morte, dove unica maestra di vita (per i ragazzi cresciuti troppo in fretta) è la strada. Intere famiglie abbandonate a se stesse senza servizi, strutture sociali, centri di assistenza. Il quartiere di Brancaccio era (ed è) una frontiera scomoda per tutti, un territorio dimenticato, abbandonato al potere dei criminali e dei mafiosi. Ecco perché il quartiere di Brancaccio era divenuto per Padre Puglisi un vero e proprio progetto di vita, difficile e pericoloso. La chiesa di Brancaccio era la sua missione pastorale, ciò che credeva il Signore gli avesse affidato. Non sapeva, o forse non si

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immaginava, che sarebbe rimasto solo, solo nell’opera pastorale e solo nella morte, solo anche nel processo. Una solitudine data da uno Stato assente e una Chiesa distratta. La lotta alla mafia così come i processi relativi ad essa devono divenire atti corali, rivoluzioni silenziose. La giustizia non è soltanto verità ma anche partecipazione umana, è coinvolgimento, è impegno civile continuo e di tutti. Da parte di ciascuno e primi fra tutti coloro che hanno il dovere morale e giuridico della partecipazione perché sono i soli che possono dare voce a chi mai più potrà averla. Sembra paradossale. Vi è stato detto da parte del successore di don Pino Puglisi che la Chiesa non si occupa della responsabilità penale degli uomini ma del loro destino sovra-terreno. Niente di più errato, niente di più ingiusto per la memoria di don Pino Puglisi che ai cittadini di Brancaccio aveva cercato di dare il "pane quotidiano” e i beni primari come atto di carità e di giustizia. Sarebbe stato, pertanto, atto laico di carità costituirsi parte civile, nella memoria di don Pino Puglisi, perché la chiesa di Brancaccio avesse voce e vedesse riconosciuto - con atto di giustizia - quel denaro utile a continuare l’opera di risanamento pastorale così tragicamente interrotta dalla mafia. Ecco cosa sarebbe stata giustizia, veramente. Nonostante si sentisse solo, don Pino visse sempre sereno e positivo; aveva il sorriso di colui il quale aveva scelto e abbracciato la sua fede e con rassegnazione aveva accettato il destino con l’estremo sacrificio107. Nei giorni dopo la sua morte, tutti, in ogni luogo di ritrovo del quartiere, pronunciavano sommessamente e paurosamente una sola parola che riassumeva mandanti, movente e ogni altra circostanza del delitto; tutti pronunciavano un unico carnefice: la mafia. Era facile da supporre e desumere, avuto riguardo alla storia che da sempre ha contrapposto i valori cristiani del bene alla violenza e alla sopraffazione del male. Ma il bene, come in questo caso, a volte, soccombe. Il rischio di questa

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morte e di questa investigazione era quello che ci si potesse lentamente abbandonare alla deriva dell’indistinto scenario di un martirio cristiano. Il motivo si è manifestato chiaro nell’attività evangelica e pastorale e nella chiara contrapposizione di questa attività al regime di terrore e sopraffazione imposto dalla mafia. La chiesa di Brancaccio e la semplicità disarmante di don Pino Puglisi erano una “spina nel fianco” della mafia in quel territorio che vedeva già compromesso il suo primato. Il labirinto delle complicità e delle responsabilità è andato pian piano delineandosi, la nebbia dell’omertà si è diradata alla disponibilità di informazioni, denaro, armi e esplosivo. La mafia era pronta ad ogni operazione, anche la più crudele, come l’assassinio di bambini o di donne, pronta alla strage dei luoghi dell’arte e della storia del nostro paese. Ma improvvisamente, come un fiume Cosa Nostra è stata stravolta. Uno dopo l’altro i componenti del “gruppo di fuoco” venivano individuati e arrestati, alcuni dopo anni di latitanza. La sera del 15 settembre, quando il prete si apprestava ad entrare nel portone del suo appartamento, avvenne il fatto. Lo sparo fu diretto, silenzioso, tra le parole di Don Pino “me lo aspettavo” e un sorriso accecante. Non fu un caso, Don Pino è morto, sapendo di aver dato la vita completamente e intensamente per la sua missione. Le fu sottratto un borsello, è una strana assonanza con ciò che vi è scritto nel Vangelo secondo Giovanni dopo la crocifissione di Nostro Signore Gesù (Gv 19, 23-24): “Si son divisi tra loro le mie vesti”. Ma questo gli uccisori non potevano saperlo.