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La vita di Don Pino raccoglie un messaggio di speranza molto forte, da gridare al mondo e non solo a quello cattolico.È interessante ricordarlo per capire la sua opera e il cambiamento della vita di chi è entrato in contatto con lui. Lo sono per esempio i così detti “figli del vento”, ossia quei ragazzi senza una guida, che vivevano la strada, ignari di un destino spesso crudele, usati, strumentalizzati ed infine inglobati dal sistema mafioso. Minori senza schemi, regole, senza compiti, padri e madri; erano i “figli del vento” caldo delle strade del Sud. Avevano sempre occhi tristi, smarriti, demotivati dal punto di vista scolastico, culturale e morale110. Non avevano tappe da vivere, obiettivi da

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raggiungere. Soli, indifesi e abbandonati dagli adulti, usati per i loro subdoli scopi. Alla ricerca di una “manciata di spiccioli” per sentirsi apprezzati. Sembravano forti, questi piccoli “boss in miniatura”. Erano invece fragili e alla ricerca di un affetto senza interessi. Vivevano modellati a chi li desiderava così, ma dentro avevano una energia che stentava a contenersi. Da sempre padre Puglisi e suor Carolina, religiosa e stretta collaboratrice del prete negli anni vissuti a Brancaccio, avevano ed hanno investito tutte le loro forze su di loro, per farne uomini liberi, leali, che potessero guardare al mondo a testa alta, senza temere nessuno; per il rispetto della loro dignità, personalità e libertà. Don Pino aveva per loro un grande sogno: “renderli liberi” come dice Gesù nel Vangelo: “la Verità vi farà liberi” (Gv 8, 28-32). Segno concreto di questo desiderio fu la nascita del “centro di accoglienza Padre Nostro”. Egli voleva offrire ai ragazzi una possibilità affinché non si sentissero soli, un punto di riferimento educativo e costruttivo all’insegna di una speranza “dobbiamo liberare la gente dall’ignoranza perché l’uomo che non sa, non conosce, non cresce e non dà un contributo costruttivo alla vita degli altri”111. Un luogo dove crescere sereni, un posto delimitato

da mura e costituito da regole. Una casa a disposizione di tutti, tutti coloro che sentissero il bisogno di far parte di un nucleo che li accogliesse. Il Centro Padre Nostro offriva ai ragazzi uno spazio strutturale in cui incontrarsi, togliendoli dalla strada e facendo loro svolgere attività che valorizzassero la creatività, lo stare insieme, il gioco sano eliminando così quei giochi aggressivi e violenti che erano soliti fare. Poneva accanto a loro degli educatori, le suore, i volontari laici che trasmettevano uno stile nuovo dei rapporti, basati sul rispetto dei regolamenti condivisi sull’accoglienza, sull’incoraggiamento di fronte ai piccoli sforzi di cambiamento; e un po’ di fermezza quando occorreva. Offriva anche la possibilità di una scuola serale per superare la piaga diffusa dell’analfabetismo.Divenne punto di riferimento per le

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forze sane esistenti nel quartiere, mettendo insieme un gruppo di famiglie che collaboravano con lui, facendo volontariato. Queste si impegnavano a portare avanti delle piccole battaglie a favore di Brancaccio rivendicando i giusti diritti. Nacque così il comitato inter- condominiale. Un insieme di volontari che lottava per i diritti dei cittadini di Brancaccio, un gruppo che non temeva di esporsi per le problematiche che la popolazione era costretta a subire per il comando della mafia sul territorio. Non temeva neanche di dichiarare la propria vicinanza a don Pino. Era una vera attività socio-civile per tutto il quartiere; si occupava di molte tematiche e delle attività più popolari. Vennero organizzate manifestazioni antimafia dopo la morte di Falcone e di Borsellino e altre attività ricreative e costruttive. Padre Puglisi promuoveva la vita. Dal comitato inter-condominiale, don Pino si sentiva sostenuto in tutta la sua opera. Questo gruppo di amici-volontari dava un aiuto anche al Centro, cercando di aiutare i ragazzi con la lettura o la scrittura. Era necessario partire dall’istruzione dei piccoli per sperare in un futuro migliore. Domenico, per esempio, era uno di quei “figli del vento”, uno di quei ragazzi abbandonati a se stessi; era stato mandato al centro Padre Nostro dal clan di cui faceva parte, per spiare il prete. Padre Puglisi decise di dargli fiducia; gli affidò l’impegno sportivo all’interno dell’oratorio e Domenico riuscì ad accompagnare e a indirizzare tanti ragazzi che di regole non ne avevano mai avute. Trasgredivano ogni legge sul campo, così come nella vita ma Domenico aveva molta pazienza. Furono organizzati dei tornei, un modo per guidare i ragazzi attraverso piccoli insegnamenti. Domenico, di giorno faceva il volontario al centro padre nostro e di sera si incontrava con il boss del quartiere a cui doveva riferire tutto ciò che avveniva al centro. Ad un certo punto, rimase affascinato dalla lealtà, generosità e trasparenza di padre Puglisi. Col tempo si lasciò conquistare da questa figura di consacrato e di educatore ed iniziò un conflitto dento di lui; si domandava da che parte cercare la verità. Domenico entrò in crisi. Solo

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dopo la morte di padre Puglisi decise di confessare alla polizia, raccontò tutto quello che sapeva e anche quello che aveva visto. Era un testimone credibile perché era un affiliato della mafia del quartiere. La sua famiglia non gradì questa sua collaborazione; decisero di non riconoscerlo più come figlio. Non solo Domenico entrò nei programmi protetti della giustizia ma fu costretto a lasciare Palermo e cambiare i connotati della carta d’identità, diventando un vero collaboratore di giustizia. Il suo è stato un grande atto di coraggio. Domenico ha interrotto ogni tipo di rapporto con la famiglia. Non gli è concesso di tornare a Palermo. Padre Puglisi andrebbe molto fiero di questo suo “figlio del vento”. Uno dei primi frutti del suo martirio, del sacrificio della sua vita. Oggi, Domenico racconta di leggere il Vangelo e di seguire gli insegnamenti ereditati da Don Pino. Ha il coraggio di parlare agli altri di legalità e di onestà. Padre Puglisi continua a vivere in tante storie più o meno conosciute. Per padre Puglisi era necessario formare prima l’uomo per poter farne un cristiano autentico. I ragazzi non dovevano essere portati subito ai sacramenti, ma dovevano rispondere alle sfide urgenti e prioritarie per la qualità della loro vita. Educare diventava così un modo concreto di preparare il terreno per accogliere Gesù Cristo. Intanto, era necessario rivelare il volto di Dio attraverso relazioni alternative per scoprire la propria dignità di figli di Dio senza essere schiavi di nessuno. Sperimentare la bellezza di sentirsi accolti e vivere in comunità. Era difficile parlare di cultura o istruzione a ragazzi costretti a vivere problemi più grandi di loro. Ma era soprattutto difficile spiegare loro l’importanza di una propria cultura, quando già a pochi anni si trovavano orfani di padre e con una madre non presente. Erano frenati dentro, paralizzati da un dramma che li travolgeva, fermi, inerti. Padre Puglisi, però, aveva deciso di lasciare un segno indelebile, come un testimone che passa di mano in mano, di generazione in generazione. Di lui, si son dette tante cose; ne hanno parlato i giornali, le tv, i libri ma non sempre è stato messo in risalto l’aspetto spirituale, pedagogico-

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educativo, soprattutto nei riguardi dei minori; per i quali ha dato la vita.

Promuoveva solidarietà, carità, umanità e legalità, il suo era la conseguenza di un amore più grande. Un uomo dal giornale in una mano e la Bibbia nell’altra. Era un prete aperto, libero, aggiornato sugli avvenimenti e la cultura corrente. Un uomo capace di tradurre la storia di Dio nella storia degli uomini112. L’amore come legge, simbolo della sua vita. Povero, onesto, leale, socievole, aperto ad ogni bisogno umano e spirituale. Desiderava un’umanità più giusta. Dalla libertà scaturiva il suo senso cristiano e sociale, ed è questa che desiderava per il suo popolo, per il suo paese, per i suoi bambini; dalla schiavitù della malavita, dai compromessi, dalla sottomissione. Un educatore, quindi, che aveva chiari i principi della pedagogia e della psicologia. La sua era una sorta di maieutica socratica: cercare di trarre il buono da ogni persona e fare in modo che l’altro arrivasse a cogliere il significato del valore educativo da assimilare. Era una guida. È stato un uomo vissuto come testimone e morto da uomo libero113. un uomo che ancora, in età adulta si stupiva dei piccoli gesti e cambiamenti che avvenivano intorno a lui, lenti ma necessari; si meravigliava del processo educativo che avveniva progressivamente nei ragazzi del quartiere che frequentavano il centro, dei “grazie” che avevano imparato a dire, delle strette di mano che avevano imparato a scambiarsi per ricostruire un rapporto. Le attività che padre Puglisi aveva organizzato per favorire la crescita umana spirituale e morale del quartiere erano diverse: dalle visite domiciliari ad anziani e malati con prestazioni socio-sanitarie al recupero, al dei minori dal punto di vista sociale scolastico, culturale, umano, etico e spirituale; dai contatti con le famiglie disagiate del quartiere ai minori detenuti. Voleva cambiare il quartiere che le era stato affidato per renderlo migliore, più gradevole. Ma non solo, per renderlo più sano di valori, cercando di spossessare alla criminalità

112 Ibidem. 113 Ibidem.

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organizzata quegli scantinati, quei covi dove avvenivano le peggiori barbarie, per modificare una mentalità ormai ferita; obiettivi per i quali Don Pino è morto.