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Obbedire o morire, principi di sopravvivenza

L’obbedienza è il primo comandamento al quale sottostare se si decide di entrare a far parte di una organizzazione criminale di stampo mafioso.

“Non si sgarra, né si scampana”76, è invece un tipico ordine. Chi decide

di “sgarrare le regole” sarà punito, in ogni caso. Ma quali sono le punizioni per coloro che commettono un passo falso, che “sgarrano o scampanano”? Il “regolamento della ndrangheta”, conosciuto ormai da oltre cento anni, senza che ci siano stati emendamenti, suddivide le colpe in due grandi gruppi: le “trascuranze” e gli “sbagli”. Le trascuranze sono le infrazioni di lieve entità che solitamente vengono punite con un richiamo o con una punizione minore. Gli sbagli, invece,

74 FIANDACAG., La mafia come ordinamento giuridico. Utilità e limiti di un paradigma, Foro it., 1995, pag. 27.

75 Op.cit. FALCONE G. PADOVANI M.

76 Il modo di dire tipico della ndangheta è citato come titolo del terzo capitolo in GRATTERI N., NICASO A., Dire e non dire, Mondadori, Milano, 2012, p. 35.

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comprendono le “tragedie”, le “infamità” e le “macchie d’onore”. Le tragedie sono quei comportamenti personali che hanno messo a repentaglio la sicurezza degli altri affiliati. Le infamità sottintendono il tradimento dei principi dell’associazione, le macchie d’onore, riguardano le azioni che vanno a ledere l’onore della famiglia. Anche il silenzio e l’obbedienza sono alla base dei regolamenti. Spesso parlare poco salva da molte circostanze. Parlare molto significa esprimere pareri, dare giudizi, avere pensieri propri, ma in un’organizzazione mafiosa, il libero pensiero è sinonimo di poco controllo, di non sottomissione e quindi di problematiche. Così il “picciotto” silenzioso, ma ubbidiente, rispetta i criteri di selezione di un buon servitore. L’infamia, per esempio, è sinonimo di “scatasciu”, che in dialetto calabrese significa “parlare più del necessario”, “andare oltre”. Scrive Nicola Adelfi sul quotidiano La Stampa (in un articolo che riporta il suo nome) di un professore di Palmi, che da anni cerca di penetrare in questo mondo sotterraneo e tenebroso. Spiega l’importanza del termine “scatasciatu” dicendo che è tale colui che cessa di avere “incasciu”, incastro, cioè non aderisce più alle leggi della comunità, si è arreso per paura o denaro ai carabinieri, decide di accettare le idee forestiere. È termine di grande ignominia, sottolinea. Quello degli ndranghetisti è un comportamento senza mezzi termini, di rigore, duro. Un muro di coscienze incastrate, rese compatte, impenetrabili dal cemento dell’omertà, dalla paura. Bisogna solo tacere e obbedire. I giudici del tribunale di Reggio Calabria in una sentenza del 1979 affermano che dove la mafia esiste, le vittime divengono reticenti e il meccanismo dei pubblici poteri lavora, in gran parte, a vuoto. L’omertà chiude la bocca ai testimoni, i giudici non trovano chi sostenga l’accusa, le prove a carico non hanno mai una specifica consistenza, gli indizi rimangono confusi e contraddittori77. Similmente a molte istituzioni religiose, la

77 Trib. Reggio Calabria, sez. penale, sentenza nel procedimento a carico di De Stefano Paolo, 4 gennaio 1979.

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gerarchia deve essere rispettata. Il boss, il capo, rappresenta la carica più alta e le sue parole sono come il Vangelo. Egli sa di essere un punto di riferimento per molti e quindi dispensa consigli, rimedi e soluzioni di ogni genere. Il concetto “mafioso” sembra una dottrina religiosa, un dogma che non si discute, qualcosa a cui credere ed in cui riporre fiducia. La violenza è il capitale iniziale degli ‘ndra. Se un boss non sa usare le armi non gode di nessuna credibilità. Il sangue chiama sempre altro sangue, nella logica degli ‘ndra è un precetto: “cu campa, campa, cu mori, mori”. Spesso però sono i ragazzini innocenti a scontarne la vita: Giuseppe Alfonso ha solo diciotto mesi quando viene ucciso in braccio al padre, un muratore amico dei Gioffrè, una delle famiglie coinvolte nella faida di Seminara. Domenica, di tre anni e le cuginette di nove, uccise a colpi di fucile. E così l’elenco di piccole vittime è disarmante: Rocco Corica, sette anni; Pasqualino Perre, undici anni; Salvatore Feusale, dieci anni; Marcella Tassone, undici anni, e, come loro, molti altri. È importante ricordarli e fare chiarezza. Bambini uccisi, da una fame di vendetta che aleggia tra le faide delle famiglie ndranghetiste; vittime innocenti di un sistema che coinvolge anche loro, che nella “migliore” delle ipotesi diventano schiavi di un sistema a cui sono soggiogati e nella peggiore delle ipotesi diventano carne da macello. Non ci sono limiti alla crudeltà. Ci sono sicari della andrangheta capaci di sciogliere corpi nell’acido, disossare cadaveri per darli in pasto ai maiali, renderli polvere in barili di nafta. Testimonianze tali da far inorridire gli stessi giudici, rendono chiara l’idea, che niente ferma coloro che devono esaudire i desideri che il boss ordina. Obbedir, per non far la stessa fine. Violenti con i violenti, e protettivi con i più deboli. Così appaiono i boss. Ma è una tattica. I più deboli spesso sono gli adolescenti, ma anche gli adulti senza una occupazione, senza speranze, senza certezze; sono le “prede” più ambite. Chi ha fame, la vera fame di alcuni paesi del Sud, è disposto a tutto. E dalla fame, si passa alla fama; un gioco di parole che fa presto a convertirsi. Ci si

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“associa” per la fame, ma si spera nella fama, di essere qualcuno che conta, qualcuno che tutti rispettano e, così, per aspirare all’onore si perde di vista la dignità e spesso si spira.

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Capitolo 3

MAFIA E CHIESA A CONFRONTO

Sommario: 3.1 Alle origini di mafia e Chiesa. 3.2 Mafia e Chiesa: due

istituti a confronto a partire dalla Bibbia. 3.3 Giustizia e carità camminano insieme. 3.3.1 Il concetto cristiano di giustizia.

3. 1 Alle origini di mafia e Chiesa.

Le organizzazioni di stampo mafioso esistono da più di duecento anni. L’esistenza del fenomeno mafioso è stata “accertata” in un documento del 1865. Nel primo volume di inchiesta “condizioni politiche e amministrative della Sicilia”, l’attenzione fu posta sulle radici storico- sociali della violenza diffusa della mafia, in cui essa veniva giustificata dalla salda rete di rapporti di cui godeva ai più svariati livelli. Ed è in questi anni che anche la Chiesa ha ceduto al fascino della “piovra”, rimanendo in silenzio. Non tutti gli uomini di Chiesa sono stati guidati dal Vangelo. Anzi, alcuni, sottomettendosi ad un sistema di omertà, pian piano hanno fatto spazio in paesi e città, ad una mentalità criminale. Si è parlato per molto tempo di “questione meridionale”, ma anche di “questione meridionale cattolica”. La questione meridionale nasce con l’unità d’Italia, anche se ricerche assicurano che il forte divario tra Nord e Sud è precedente al 1861. Lo squilibrio tra meridione e settentrione è sempre stato molto forte, ma dopo l’unità sembrava evidenziarsi ancor più l’arretratezza del sistema feudale diffuso al Sud e quello capitalistico e industrializzato del Nord. Il fenomeno religioso, invece, da sempre più radicato al Sud, per un insieme di concause sembrava ancor più farsi spazio in queste terre calde e sofferenti, accompagnato da una criminalità tipica dei paesi dove la povertà fa da padrona. Fu Luigi Sturzo a parlare per la prima volta di “questione meridionale” e “questione cattolica”, nel 1903: “ci si chiede come sia possibile che nelle quattro regioni più religiose, siano nati i quattro fenomeni criminali più feroci. Parliamo della Sicilia, della Calabria, della Puglia e della Campania. Esiste un rapporto tra queste due realtà?

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Queste sono le regioni d’Italia a più alta densità mafiosa ed anche quelle dove è maggiore la devozione e la partecipazione alla vita religiosa. È come se la criminalità nascesse in quelle regioni dove la religione cattolica si è sviluppata in modo più profondo tra i fedeli”.

Il teologo Augusto Cavadi interpreta questo fenomeno affermando che non possiamo cercare la causa, ma le cause, che si riscontrano nel carattere sociale, economico, politico e culturale. La cultura, soprattutto, è un intreccio di elementi di cui la teologia costituisce un segmento soltanto, e si può dire che la mafia ha aderito là a causa di una “religiosità mediterranea”; cioè una religiosità che ha adattato il Dio cattolico alle proprie esigenze. Il così detto “Dio dei mafiosi” che la Chiesa non ha avuto la forza e, talvolta il coraggio di scardinare. Le mafie così hanno plasmato un Cristo nuovo, a disposizione dei loro interessi, a somiglianza loro78. Tra 1881 e il 1894 in Sicilia si era

costituito un movimento di massa d’ispirazione democratica socialista con lo scopo di reclamare i diritti dei proletari; il primo vano tentativo di emancipazione delle classi più umili del tempo e il primo movimento organizzato contro la mafia. La Chiesa, che per ideali avrebbe dovuto sostenere questi partiti, rivoluzionari sì ma anche moralmente più vicini ad un’idea di uomo libero, rimase estranea a queste proteste e forse inconsapevole, ma neanche troppo, iniziò a preoccuparsi insieme alle mafie, degli sviluppi di quella che da lì a poco sarebbe stata riconosciuta come l’ideologia Marxista. Non ci fu nessuno schieramento da parte di essa, ma neanche nessun distacco. Il malessere generale così veniva sostituito da un benessere fittizio, quello della mafia. Il ‘benessere’ procurato dalla mafia aveva un unico obiettivo: il consenso sociale e la legittimazione tra il popolo. Si tratta degli anni delle assenze e delle indifferenze di una classe politica che ancora oggi pesano come macigni

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nelle regioni più arretrate e sottosviluppate della penisola e di una Chiesa silenziosa o accondiscendente.

Se esiste infatti una Chiesa che denuncia il malaffare senza guardare l’etichetta e proclama valori ben opposti a questi, ne esisteva, e purtroppo esiste anche ora una, che oltre a chiudere gli occhi, a volte si occupa di assecondare decisioni che non la riguardano. Gli anni successivi agli eventi sopra descritti, furono molto movimentati. Mafia, massoneria e comunismo segnarono quest’epoca e vennero associate come in un’unica famiglia. All’indomani della seconda guerra mondiale le cose non andarono meglio; spesso nelle famiglie del Sud “padrini” e “padri della Chiesa” si trovarono a condividere la stessa tavola. Lo sono un esempio la famiglia Vizzini con Giuseppe Vizzini, storico boss dell’onorata società di Villalba e i suoi due fratelli preti e i suoi due zii vescovi. Nessuno ebbe mai da ridire niente sui traffici e le condotte illecite familiari. Tutto questo era tipico delle numerose famiglie di tradizione mafiosa. Uomini e donne di Chiesa, insieme ad uomini e donne di mafia. Il motivo è facile da intuire: la mafia siciliana, a differenza della andrangheta, della camorra o della Sacra Corona in Puglia, è stata sempre parte della classe dirigente; avere un prete in famiglia significava avere più prestigio sociale79. Chiesa e mafia erano le maggiori autorità sociali presenti nel territorio, convivevano senza alcuna difficoltà. Nel secondo dopo guerra, la Chiesa, di nuovo inerte, stette a guardare l’uccisione di cinquanta dirigenti sindacali da parte della mafia, per il ripristino dell’ordine sociale80. Immobile, senza voce. Un accenno di qualcosa che stava cambiando, lo si ebbe solo nel 1948, quando 73 vescovi del meridione firmarono e promulgarono una lettera, intitolata “I problemi del Mezzogiorno”, affrontando “l’eccezionale gravità del momento”. La Chiesa (o meglio una parte) si riappropriava così della questione meridionale, definendo «i principi relativi alla

79 OGNIBENE S., L’eucarestia mafiosa, Navarra, Palermo, 2015.

80 SALES I., I preti e i mafiosi. Storia dei rapporti fra mafie e Chiesa cattolica, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2010, pag.213.

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primitiva destinazione dei beni della terra e ad una equa ripartizione tra gli uomini; alla natura, alle funzioni e ai limiti della proprietà privata; alla dignità e ai diritti del lavoro e ai rapporti fra quest’ultimo e il capitale»81. Ma non è la Chiesa italiana a prendere posizione sui risvolti dell’unità d’Italia, soltanto la Chiesa meridionale, composta da coloro che condividevano e vivevano i dolori di una terra ferita. È la posizione di una parte della Chiesa che, nella stessa lettera pastorale, necessita della presenza dello Stato per portare a compimento quei principi di giustizia e legalità calpestati della criminalità organizzata. Ma non bastava uno stato potente, serviva il messaggio autentico di un istituto giuridico molto imponente: quello della Chiesa di Roma. Gli anni ‘50 del 900 vengono segnati, ancora, da una repressione da parte della Chiesa del fenomeno socialista, chiudendo gli occhi dinnanzi all’imminente problema della criminalità organizzata; consapevole delle altre preoccupazioni del clero, la mafia fa così spazio a macchia d’olio nei territori meridionali. Il comunismo e il socialismo, divenuti i nemici da combattere della Chiesa, “consegnano” gli strumenti alla criminalità organizzata per un controllo subdolo e incisivo. È il 1963 quando la Democrazia Cristiana vince le elezioni regionali; qui è possibile scorgere l’anello di congiunzione tra mafia e “parrini”, individuabile in quella “balena bianca” che lega entrambe.

La parola mafia verrà pubblica per la prima volta in un documento pastorale, nel 1964. È invece il 1982, dopo il lungo periodo del cardinale Ruffini, troppo vicino agli interessi mafiosi, che viene nominato il cardinale Salvatore Pappalardo, testimone di una Chiesa diversa, vicina alle esigenze degli ultimi e soprattutto lontana dalla criminalità. È lui stesso a proclamare una rottura con questa, in una omelia contro la mafia “mentre Roma pensa al da farsi, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici! Ma questa volta non è Sagunto ma

81 Cfr. Episcopato dell’Italia Meridionale, I problemi del Mezzogiorno, 25 Gennaio 1948.

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Palermo. La povera Palermo!”. Netta sarà la rottura del clero siciliano sotto la guida di Pappalardo, dalla politica e dalle istituzioni corrotte. Bisognerà aspettare qualche anno più tardi per sentire ancora un grido forte scuotere gli animi dei fedeli. Sarà papa Giovanni Paolo II e per la prima volta la Chiesa sembrerà considerare e riconoscere la criminalità organizzata, come male della società, come elemento di divisione con il nord, ma ancor di più come ancora di ‘salvezza’ per i più giovani, che in presenza di carenze economiche, sociali e civili, si fanno preda dei facili e veloci guadagni82. Nel Maggio 1993, dopo la morte dei giudici Falcone e Borsellino e delle loro scorte ed anche dopo la morte del “giudice ragazzino” Rosario Livatino, Giovanni Paolo II trovandosi in Sicilia per una visita pastorale, al termine della celebrazione, dopo una riflessione sulla concordia che conduce alla pace, si lascia guidare dalle emozioni, esprimendo un grido di rabbia contro il sistema della criminalità organizzata: «Dio ha detto una volta: ‘Non uccidere’: non può un uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, la mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio!

Questo popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, una civiltà della morte. Qui ci vuole una civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!»83. Parole chiare e convinte, parole che destarono molta preoccupazione, soprattutto in quella parte di cattolici che non conoscevano il problema o comunque tacevano dinanzi allo stesso. Parole che videro anche la reazione della mafia siciliana: in particolare in una intercettazione del

82 Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Chiesa Italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà, 18 Ottobre 1989, pag. 4.

83 Omelia di Giovanni Paolo II, Concelebrazione eucaristica nella Valle dei Templi, Agrigento, 9 Maggio 1993, (http://w2.vatican.va/content/john-paul- ii/it/homilies/1993/documents/hf_jp-ii_hom_19930509_agrigento.html.)

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2006, pubblicata dal giornale Avvenire; chiara la forte avversione nei confronti di Papa Wojtyla.

Con Giovanni Paolo II inizia una sorta di rivoluzione; per molti, quel discorso fu la causa degli attentati nella capitale e della successiva uccisione di Padre Puglisi prima e di Padre Diana dopo. Il Papa continuò i suoi viaggi apostolici in Sicilia, lanciando messaggi espliciti, a volte accusando la Chiesa siciliana, perché per cambiare la mentalità dei siciliani era ed è necessario fondare «una civiltà dell’amore come antidoto alla mafia»84.

Un Papa coraggioso, che dette inizio al processo di beatificazione di Padre Puglisi, portato avanti da Papa Benedetto XVI e conclusosi con Papa Francesco, nel 2013. Si stava aprendo, così, un varco per la trattativa tra mafia, Chiesa e Stato. Da quegli anni fino ai giorni nostri le cose sono cambiate. La Chiesa ha finalmente preso consapevolezza del problema, muovendo passi nella giusta direzione. La beatificazione di Padre Puglisi ne è un esempio. Per Papa Benedetto XVI, i messaggi di giustizia non sono mai stati molto espliciti. La sua rigidità e la sua pacatezza, non lo hanno mai fatto comprendere fino in fondo sia dai fedeli che tanto meno dai destinatari del messaggio.

Nella sua fermezza e compostezza ha saputo però, anche lui, prendere una decisione trasparente e mirata, ha manifestato con certezza da che parte stare: la sua disapprovazione alla criminalità, riconoscendo che la mafia «è un triste fenomeno di violenza. Non si tratta solo del deprecabile numero dei delitti della camorra, ma anche del fatto che la violenza tende purtroppo a farsi mentalità diffusa, insinuandosi nelle pieghe del vivere sociale, nei quartieri storici del centro e nelle periferie nuove e anonime, col rischio di attrarre specialmente la gioventù, che cresce in ambienti nei quali prospera l’illegalità, il sommerso e la cultura dell’arrangiarsi. Quanto è importante allora intensificare gli

84 DELMONACOA., Il colore dell’inferno. Non farci entrare la tua anima…, Editore Guida, Napoli, 2013, pag. 143.

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sforzi per una seria strategia di prevenzione, che punti sulla scuola, sul lavoro e sull’aiutare i giovani a gestire il tempo libero. E’ necessario un intervento che coinvolga tutti nella lotta contro ogni forma di violenza, partendo dalla formazione delle coscienze e trasformando le mentalità, gli atteggiamenti, i comportamenti di tutti i giorni»85. Nel 2011, a Lamezia Terme, in Calabria, qualche anno dopo, rivolgendosi a laici e non, disse: «Se osserviamo questa bella regione, riconosciamo in essa una terra sismica non solo dal punto di vista geologico, ma anche da un punto di vista strutturale, comportamentale e sociale; una terra, cioè, dove i problemi si presentano in forme acute e destabilizzanti; una terra dove la disoccupazione è preoccupante, dove una criminalità spesso efferata, ferisce il tessuto sociale, una terra in cui si ha la continua sensazione di essere in emergenza. All’emergenza, voi calabresi avete saputo rispondere con una prontezza e una disponibilità sorprendenti, con una straordinaria capacità di adattamento al disagio. Sono certo che saprete superare le difficoltà di oggi per preparare un futuro migliore. Non cedete mai alla tentazione del pessimismo e del ripiegamento su voi stessi»86.

Due stili completamenti diversi di evangelizzazione, quello di Giovanni Paolo inteso ad una conversione, in grado di redimere ogni peccato anche il più atroce, costituita dal perdono; E quella di Benedetto, un pacato e incisivo modo di profetizzare agli uomini, giovani e anziani, ma senza smuovere le coscienze. È come se la speranza non dovesse mai mancare, perché mossa dalla fede, ma al contempo mai accompagnata da atti concreti della Chiesa – istituzione.

85 Omelia di Benedetto XVI, Concelebrazione eucaristica in Piazza del Plebiscito, Napoli, 21 Ottobre 2007,

https://w2.vatican.va/content/benedictxvi/it/homilies/2007/documents/hf_ben- xvi_hom_20071021_napoli.html.

86 Omelia di Benedetto XVI, Visita Pastorale a Lamezia Terme e Serra San Bruno, 9 ottobre 2011

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2011/documents/hf_ben- xvi_hom_20111009_lamezia-terme.html.

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Benedetto XVI ha comunque lasciato indicazioni precise alla Chiesa calabrese, prima di rinunciare al suo pontificato. In uno degli ultimi incontri con i Vescovi calabresi, che mostravano preoccupazione per la disoccupazione dei giovani e per la piaga della mafia, Papa Ratzinger li ha incoraggiati a ripartire dal Vangelo, aggiungendo:

«Come il maligno non dorme, noi siamo chiamati a non dormire con la nostra fede»87.

Una fede da mettere in pratica con azioni concrete.

Nel Marzo del 2013 il nuovo Papa incaricato, Papa Francesco, non tarda ad esprimere chiaramente la sua posizione contro la mafia, scontrandosi