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Quando la mafia controlla il sistema

Oggi la reputazione criminale di certe famiglie mafiose è talmente diffusa che assoggettamento e omertà si manifestano senza che ci sia necessità di uccidere o minacciare nessuno. In una sentenza della corte di Cassazione51, i giudici della suprema Corte parlano di “forza intimidatrice” indicando una forma di sottomissione espressa dal vincolo associativo dalla quale derivano assoggettamento ed omertà, diretta tanto a minacciare la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, diretta a minacciare le essenziali condizioni economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti. Ferma restando una riserva di violenza nel patrimonio associativo, tale forza può venire acquisita con la creazione di una struttura organizzativa che, in virtù di contiguità politiche ed elettorali, con l’uso di prevaricazioni e con una sistematica attività corruttiva, esercita condizionamenti diffusi nell’assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori di attività di enti pubblici o di aziende parimenti pubbliche, tanto da determinare un sostanziale annullamento della concorrenza o di nuove iniziative da parte di chi non aderisca o non sia contiguo al sodalizio. I clan, infatti, vivono sempre più in un contesto corruttivo che lega innumerevoli interessi, alimentato dal sostegno di soggetti estranei

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all’organizzazione. È come se, in vista dell’influenza che questa società segreta esercita sulle coscienze dei non associati, i componenti di essa mirino a commettere reati, quasi sicuri dell’impunità. Ed è così che si impone l’omertà. Per la quale le forze dell’ordine si trovano disorientate nel praticare le prime indagini e le autorità, confuse nel valutare il fine della repressione del delitto avvenuto. L’associato, pertanto, trae profitto da questa soggezione morale degli intimiditi, padroneggia nelle città, nelle imprese di lavoro, negli affari; truffa, compromette sistemi. Si appropria indebitamente di ciò che è più conveniente. Poco prima della sua morte, Paolo Borsellino sottolineò un aspetto importante della lotta alla mafia, quello della partecipazione. Egli la descrive infatti come il primo problema da risolvere in una terra disgraziata e affascinante come la Sicilia. L’opera del magistrato e di tutti coloro che hanno contribuito al progetto antimafia degli anni ‘90, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, “le più adatte a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà” che fa rifiutare lo sgradevole odore del compromesso morale, dell’indifferenza, della perseverazione e quindi della complicità. Ed è in questo caso specifico, ma lo si può scorgere anche in molte altre testimonianze, che è necessario parlare di partecipazione attiva, di coinvolgimento delle famiglie nella scuola, nella società, negli ambienti in cui si riuniscono le persone, come nella Chiesa; è qui, che si deve sentire “la bellezza del fresco profumo della libertà, di cui parla Borsellino. Le mafie sono come un enorme cumulo di macerie, di rifiuti ammassati. Ci si sente impotenti dinanzi a loro; inibiscono le forze, bloccano il coraggio di reagire. Esiste un rimedio: il rispetto del bene comune, tutto ciò che serve per rafforzare la convivenza civile. Un po’ come ci ricorda Piero Calamandrei in un discorso ai giovani sulla Costituzione nel 1955, dove racconta la storiella di due emigrati, due contadini che decisero di attraversare l’oceano su un piroscafo

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malmesso. Questi, preoccupati della bufera in corso, si apprestano a chiedere aiuto a un marinaio, che serenamente dorme nella stiva, compiaciuto del fatto che il piroscafo non sia di sua proprietà e che quindi non verrà privato di un bene cosi grande; ignaro del fatto, che a perdere sarà lui stesso, non l’imbarcazione ma la vita. Accade sempre più spesso. Ci si preoccupa di alcune questioni, solo quando scalfiscono le nostre vite profondamente; non si ricerca il bene comune; spesso non rientra nei nostri interessi52.

È una questione di responsabilità, sembra che niente ci appartenga fino a quando non ci coinvolga da vicino; fino a quando, come in questo caso, la mafia ci rende prigionieri, sottomessi, costretti. Siamo legati ormai a una visione della mafia stereotipata, siamo ormai abituati a vederla come una piovra invincibile dotata di rapporti privilegiati con le istituzioni e capace continuamente di adattarsi. Quasi raramente ci si sofferma a riflettere su quei “picciotti” costretti a vivere senza ricchezze; che rischiano ogni giorno la propria vita a causa degli ordini dei capi. Non ci si domanda il perché di una scelta tanto difficile. Il timore è quello di cadere in una eccessiva semplificazione, tipica delle fiction e dei film che narrano questo tema in modo distorto rispetto a quello reale. Essenziale è, tuttavia, conoscere la mafia di ieri per comprendere quella di oggi, ed è essenziale raccontarla, parlarne, discuterne per far capire alle persone come le mafie, da più di un secolo, abbiano depredato regioni come la Calabria, la Sicilia, la Campania per continuare a governare su una terra ormai ferita e che fatica ad alzare la testa. Le mafie sono sistemi di potere che vivono di collusioni e si nutrono di silenzio. I boss mirano al consenso della cittadinanza, utilizzano ricorrenze religiose, manifestazioni sportive, per ottenere

52 Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l'altro sul ponte; il primo accortosi del mare in tempesta, corse impaurito dal marinaio e gli domandò: “siamo in pericolo?” e questo rispose: “se continua questo mare il bastimento tra mezz'ora affonderà”; allora il contadino corse nella stiva a svegliare il compagno dicendogli:” Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento fra mezz'ora affonderà” e quello rispose: “cosa mi importa, non è mica mio”.

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approvazione, fornendo un’ immagine di loro vicina alle esigenze della gente e dei giovani in particolare. Quando si parla di sottomissione, il pensiero comune non tiene conto dei danni sociali della realtà mafiosa, gli sfregi all’ambiente e al territorio. Da un rapporto del 2016 di Legambiente53 emerge che si contano circa 80 reati al giorno per un fatturato criminale di 22 miliardi, in cui ha contribuito in maniera eclatante il settore dell’agroalimentare. La Puglia è in testa alla classifica regionale dell’illecito, a seguire il Lazio nel centro Italia e la Liguria al nord. La corruzione è un fenomeno sempre più dilagante nel paese, è l’altra faccia delle ecomafie. Dal 2010 ad oggi Legambiente ha contato 302 inchieste sulla corruzione in materia ambientale. Molto preoccupanti sono anche i reati legati al traffico illecito di rifiuti, al racket degli animali, alla filiera dell’agro alimentare. È quando le mafie iniziano a divenire agenzie alternative di collocamento, che non si può più far finta di non vedere; non si possono sottovalutare le mancanze e le inadempienze di uno stato, la mancanza di occupazione; perché è questo che provoca il diffondersi di una così letale piovra sociale. Già nell’anno 1949 Calogero Vizzini, considerato da molti il capo di Cosa Nostra, dichiarava in un’intervista a Indro Montanelli un suo pensiero, brutale ma veritiero. Sostenne infatti che in ogni società c’è una categoria di persone che aggiusta le situazioni, quando si fanno complicate. In genere sono i funzionari dello stato. Là dove lo stato non c’è o non ha la forza sufficiente, si fanno giustizia i privati. Il giorno del suo funerale, sul santino in ricordo del boss, furono scritte le seguenti partole: “la sua non fu delinquenza, ma rispetto della legge, difesa di ogni diritto, grandezza d’animo. Fu amore”. Esistono ideali deviati di giustizia, ma è questo quello che caratterizza la criminalità organizzata. Deviare concetti semplici: giustizia, morale, religione, famiglia, lavoro. Il lavoro offerto dai mafiosi, vale la pena ribadirlo, è un vincolo e un vicolo cieco, da cui non si esce; un ricatto, una condizione di

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assoggettamento sociale ed economico. E quindi non è mai un’alternativa. Le mafie riciclano, investono, entrano con troppa facilità nell’economia legale. Attualmente, però, è la corruzione la più grande piaga della nostra società. Piercamillo Davigo, presidente dell’associazione nazionale Magistrati, è uno dei componenti del pool di mani pulite. In un suo famoso libro54 spiega con molta efficacia quali sono i meccanismi della corruzione e le difficoltà che si incontrano per sradicarla. La corruzione presenta due caratteristiche fondamentali: è diffusiva e seriale. Si definisce diffusiva, perché i corrotti, corruttori e intermediari, per assicurarsi la realizzazione dei fatti illeciti ed evitare di essere scoperti, coinvolgono altre persone creando una fitta rete di interrelazione illecite, fino al punto in cui saranno le persone oneste ad essere escluse dagli ambienti prevalentemente corrotti. È allo stesso modo seriale, in quanto coloro che sono dediti agli atti illeciti tentano di commetterli ogni volta che ne hanno occasione con la sicurezza di non essere puniti, e quindi recidivi. Si parla di corruzione, di un fenomeno che ormai è sotto gli occhi di tutti, ma molti sembrano volerli chiudere. Le istituzioni sembrano non considerarlo un problema diffuso e infiltrante; sembra che il silenzio degli onesti e dei disonesti li proteggerà sempre. Nell’800 il sociologo Leopoldo Franchetti, afferma che “il mafioso è un uomo che sa far rispettare i suoi diritti, astrazione fatta di mezzi che adopera a questo fine”. Non si tratta di criminalità comune, ma di un’élite della criminalità. Non si parla di brigantaggio, né tanto meno di malandrinaggio, inteso come insieme di reati volgari e comuni, ma di un’unica struttura con gerarchie precise e organismi diversi, tenuta insieme da una rigida disciplina. I boss si presentano violenti con i violenti e protettivi con i più deboli. Credono di possedere il senso del giusto, dell’onore, dell’audacia virile. È bene anche distinguere il passaggio dalla vecchia alla nuova mafia, la vecchia rispettava donne e bambini, la nuova non rispetta nessuno. Ha ucciso,

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quando si è reso necessario bambini, donne, disabili. È silente, agisce sul libero mercato di beni e servizi illegali. Quando il boss comanda, si deve agire, perché il vincolo associativo non può essere sciolto; anzi sì, ma il prezzo da pagare sarebbe troppo alto. Solo con la morte dell’affiliato, con il tradimento o per decisione dei capi, il vincolo può considerarsi sciolto. Quindi o si uccide o si viene uccisi. Allora, nella logica mafiosa, la giustizia la si ritrova solo nella vendetta. Farsi giustizia da sé è una virtù, nel senso che i romani davano a questo termine; è sinonimo di coraggio. Anche colui che tace è virtuoso, al pari del vendicatore. È l’onore, l’unità di misura del valore dei boss. Con l’onore delle azioni, si accresce il prestigio sociale. Se si afferma che la lotta alla mafia è una priorità, dobbiamo fornire a inquirenti e investigatori gli strumenti per combatterla e convincersi che il contrasto delle organizzazioni mafiose porta benefici per tutti. Servono fatti e non solo parole. Per combattere le mafie bisogna accettare il fatto che, negli anni, esse sono state utilizzate anche dal potere politico. Nella storia ci sono state continue ed esasperanti trattative con lo Stato che, quando poteva sferrare il colpo decisivo, si è tirato indietro, distratto da altre emergenze. Se si riuscisse ad accettare questa amara realtà e trovare la forza di reagire, forse si potrebbe chiudere il cerchio. Ma ci vuole molto coraggio, coerenza e determinazione. Come è avvenuto al tempo del terrorismo e ancora prima del brigantaggio, questa guerra può essere combattuta.

2.3 Le regole non scritte, i codici del rispetto, i rituali, le leggende,