2.3 Le regole non scritte, i codici del rispetto, i rituali, le leggende, gl
2.3.4 Le poche regole scritte
I mafiosi sono ossessionati dalle regole. Le regole costituiscono i codici e i codici devono essere rispettati, sempre. “La ndrangheta62 è una sola” recita il primo comandamento di chi si affilia, chi tradisce brucerà come un santino”. In un rapporto63 inviato al giudice istruttore, per la prima
volta si fa riferimento ad un elenco di regole. Questo il testo delle regole a cui l’associato deve attenersi64: “l’associazione in parola è gerarchicamente costituita, essa si compone di tironi (in gergo uomini d’onore), di picciotti e di camorristi mafiosi”. Si fa ingresso nella società col grado di giovani di onore, che costituiscono il vivaio della Società medesima: gli stessi dopo un lasso di tempo, e quando abbiano dato prova di fedeltà e di capacità a delinquere, vengono promossi a picciotti e da picciotti a camorristi mafiosi. I giovani d’onore non sono ammessi a tutti i segreti della società, tanto che allorquando di cosa segreta si debba parlare fra i camorristi e i picciotti essi sono messi in disparte. Da picciotto si passa a camorrista o mediante al pagamento di un tanto congiunto alla prova di aver fatto delle braverie, o per titolo di merito, quando cioè si è stato più volte in carcere per la causa della Società o per altri reati comuni. L’accoglienza del criminoso sodalizio ha luogo previo pagamento di sette lire e talune volte anche gratuitamente quando si vede che un giovane è sveglio di mente e “rotto nel vizio”, cioè assiduo nel commettere vizi di ogni genere. Nell’entrare a far parte della Società, si fanno al malcapitato le seguenti ingiunzioni:
- “Rispettare i compagni come se stessi”
- “Difendere i compagni, ossia farne propria la loro causa”
62 GRATTERI N., NICASO A., Dire e non dire, Mondadori, Milano, 2012, pag.3. 63 ASRC, prefettura di Reggio Calabria, rapporto nn.1132-13515 dell’ispettore di pubblica sicurezza, 3 Febbraio 1890.
64 GRATTERI N., NICASO A., Dire e non dire, Mondadori, Milano, 2012, pagg. 40- 41.
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- “Esigere la camorra, ossia fare illecito lucro sugli altri guadagni, consegnando il ricatto integralmente ai capi”
- “Questi si denominano capo cammorrista, puntaiolo: ossia cassiere e contabile del provetto della camorra, capo dei picciotti”
I giovani di onore e i picciotti hanno il dovere di “addentrarsi nella tirata”, cioè saper dare colpi di coltello e sapersi parare quelli dell’avversario. Allorquando avviene una promozione, questa si solennizza con una “tavoliata”, consistente in un pranzo fra tutti o parte degli affiliati in una bettola o cantina, prescegliendo quelle più appartate per sottrarsi alle sorprese della pubblica forza.
Scopo della Società in oggetto è:
- “Il transigere ossia riscuotere il baratto sulle giuocate, cioè pretendere un tanto sulle vincite di coloro che tengono giuochi sulle pubbliche piazze, ed estorcere danaro ai timidi”;
- “La difesa reciproca degli affiliati e l’altrui offesa quando a uno di essi si arreca onta”
- “Pretendere e riscuotere da coloro che sono conosciuti per ladri una parte del lucro ricavato dai furti”;
- “Vivere a spese dei timidi e dei deboli, e segnatamente delle prostitute, imponendosi a essi colle intimidazioni e con la forza brutale”;
- “Adoperarsi con tutti i mezzi per procacciare i danari onde sovvenire non solo ai bisogni indispensabili della vita, ma anche a quelli meno necessari e prepotenza”.
All’uopo, per turno picciotti e camorristi montano di giornata nell’intento di vagare per le case degli affiliati, onde sapere quale provento avessero raccolto, e quali propositi avessero in animo per ben corrispondere ai bisogni e agli intenti della Società. In conseguenza delle presupposte cose se uno degli affiliati riceve offese ne riferisce il capo: se essa emana da un socio, la vertenza viene risolta dal capo; e se,
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invece emanata da un estraneo, il capo convoca la Società, la quale, veduto da che parte sta il torto, determina sul da farsi. A tale uopo i congregati, giuocano al tocco per vedere chi debba mandare a effetto il deliberato. Quando un picciotto e un camorrista s’imbatte in persona da lui conosciuta come dedita ai furti, gli chiede conto e pretende una parte di ciò che ha ricavato dalla sua criminosa tendenza; e ove abbia risposta negativa non si perita a perseguirlo per impadronirsi di quel che possiede. Avvenendo che un sorteggiato cioè colui designato dalla sorte a commettere un fatto, si ricusi, allora viene dalla Società causato, cioè sottoposto a giudizio per vagliare i motivi che lo determinarono al rifiuto, e a seconda dei casi, se ne determina la espulsione o altro ben più grave provvedimento. Non meno grave provvedimento, cioè viene di fatto e lesioni personali si deliberano contro colui che cada in sospetto di slealtà o di spionaggio a danno della Società. Le riunioni si tengono per lo più in luoghi remoti per evitare sorprese della forza pubblica, come il vallone di Santa lucia, dietro il camposanto in San Giorgio, sopra il mulino nella contrada Calamizzi. Per lo più si va armati di armi corte. Il provento della criminosa associazione viene in gran parte speso in bagordi e stravizi nelle cantine e nelle bettole che meno si prestano alla sorveglianza degli agenti di pubblica sicurezza. Infine, colle intimidazioni e mostrandosi gli affini in gruppi di due, tre o di maggior numero nei pubblici ritrovi riescono a estorcere danaro o a imporre agli altri la loro volontà, pronti sempre a giuocare di mano o di coltello quando trovassero opposizione. Le regole sono fatte per essere rispettate, sempre. Angelo Cortese, in un interrogatorio del giugno 2008, racconta che i gradi della andrangheta sono i seguenti: inizialmente, il giovane d’onore, il picciotto e il camorrista che appartengono alla n’ndrangheta cosiddetta minore. Poi viene riconosciuto il grado di “sgarro” e viene attribuita a seguire la “Santa” nelle sue suddivisioni di Mazzini, Garibaldi, La Marmora. Successivamente si diventa “Vangelo” con i sotto gradi dei tre Magi
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Melchiorre, Gaspare e Baldassarre. Ci sono poi ulteriori gradi, perché la andrangheta è fatta a compartimenti. “La forza è là, la mamma è là” dicono i boss più potenti, che vivono là insieme alle famiglie e i clan più violenti. Altra regola di base ci dice che tutto passa, tranne la andrangheta, con le sue regole e con i giuramenti, uguali da più di cento vent’anni, perché come recita un famoso comandamento: “E’ sempre stato così e sempre sarà così”. La famiglia è sacra e inviolabile, chi disonora la famiglia deve essere punito con la vita” dichiara Giuseppina Pesce, collaboratrice di giustizia65, al processo All inside. La famiglia è di tipo patriarcale, dove il più grande decide quello che è il da farsi, non si discute per l’onore, il valore e la dignità. Il capo della famiglia o rappresentante è il capo dell’unità di base dell’organizzazione mafiosa e controlla una frazione di territorio, mentre gli affari che non rientrano nel territorio della famiglia sono attribuiti alla competenza di un’autorità superiore, il rappresentante provinciale, nominato dai capi delle famiglie della provincia. Questo vale per tutte le province con l’eccezione di Palermo, ove più famiglie contigue su uno stesso territorio sono controllate da un capo mandamento. Si tratta di un vero e proprio organo di governo dell’organizzazione; è la commissione regionale, composta da tutti i responsabili provinciali di Cosa Nostra. Si parla di regole, perfino quando si siede a tavola: “a tavola tutto si divide e tutto si discute”. Per servire si parte dal capotavola e si versa da bere solo con la mano destra, mai con la sinistra. La tavola diviene un luogo sacro e le riunioni per cibarsi un rito; costruiscono quei legami e quei rapporti saldi, dai quali poi è difficile allontanarsi. Onore e rispetto sono due facce della stessa medaglia. Gli andranghetisti pensano di essere gli unici capaci di amministrare la vera giustizia, il giusto e lo sbagliato, ma la legge è la giustizia di pochi, solo con la forza si ottiene ciò che si vuole. Le donne possono portare e togliere l’onore, ma è l’uomo e solo l’uomo che può vendicarsi, con la sua violenza. “Ho
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sempre rispettato le leggi giuste” diceva Mommo Piromalli, il potente boss di Gioia di Tauro, convinto di essere un uomo di pace. Le leggi a cui si riferisce non erano quelle dello Stato, ma quelle della ndrangheta, organizzazione criminale profondamente radicata nella società, con una forza così penetrante da destare scompiglio in qualsiasi settore in cui si imperni. I boss credono che rispettare le leggi del clan significhi rispettare le vere regole. Per questi non esiste altro codice che quello mafioso, non esiste altra Costituzione che quella dettata dalla nascita del potente organo di controllo criminale.