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La testimonianza di Suor Carolina Iavazzo114, collaboratrice di Don Pino al centro Padre Nostro, è un tassello fondamentale, per conoscere l’essenza di questo servizio gratuito e per meglio comprendere il percorso educativo iniziato con la rivoluzione pacifica di Don Pino. Suor Carolina, che per tre anni condivise gli spazi dell’oratorio, dedicati all’accoglienza dei ragazzi di Brancaccio accanto al sacerdote, afferma di essere stata testimone di tanta storia vissuta accanto a lui. Sono state raccolte parole forti, che narrano la sua vicinanza ad un uomo coraggioso, che non si è mai opposto al suo destino, credendo in qualcosa di più profondo. L’intervista ha inizio con queste parole: “La mafia cresce dove c’è ignoranza e quando c’è ignoranza c’è sottomissione”. Brancaccio è un quartiere Siciliano ad alta densità mafiosa, degradato da ogni punto di vista, carente in strutture scolastiche e sanitarie, spazi da gioco inesistenti. Per i bambini e per gli adolescenti la vita si svolge in strada, con tutte le conseguenze negative che questo comporta. Gli adulti vivono in una mentalità mafiosa e chi non è direttamente implicato in attività mafiose si trova spesso sottoposto ad un regime di sottomissione e omertà per difendere la propria famiglia o i propri averi. La mafia può contare sull’ignoranza e la mentalità chiusa delle persone da arruolare. I ragazzi sono allettati dai soldi facili, dal sentirsi qualcuno, secondo il modello dei boss; non hanno scopi. Le famiglie sono disgregate al loro interno, padri latitanti, in carcere, coinvolti in attività mafiose, madri deboli, succubi dei mariti, assenti a livello educativo con i propri figli, che sognano un futuro

114 IAVAZZOSUORCAROLINA, intervista a Suor Carolina Iavazzo ai giovani di un camposcuola con progetto antimafia, Luglio 2018.

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diverso. Era il 29 Giugno 1993, racconta la suora, quando i boss decisero di intraprendere una vendetta trasversale, appiccando fuoco alle porte delle case di amici, stretti collaboratori di Don Pino, da sempre attivi nell’aiuto alla parrocchia. Nell’omelia della Messa, successiva a questi fatti, Don Puglisi iniziò ad urlare contro i boss mafiosi del quartiere, certo che non ci fossero dubbi sui colpevoli di questi fatti minacciosi: “Siete come bestie, come animali, colpite alle spalle, non discutete intorno ad un tavolo”, gridava. Iniziò, allora a preoccuparsi per la sua vita e gli chiesi se non avesse avuto paura delle conseguenze: “Suor Carolina, più che uccidermi non possono farmi altro”, rispose. Capii troppo tardi cosa volesse dire; parlava del suo corpo, non della sua anima. La sua sete di giustizia e di Vangelo, di ideali di libertà, di liberare i ragazzi dalla mafia, quelli non avrebbe potuto ucciderli nessuno. Dopo la sua morte, nacque a Brancaccio una scuola media. Gli scantinati del terrore, luoghi bui e sotterranei, dove si compivano le peggiori barbarie, vennero affidati alla parrocchia. “Non basta non fare il male ma cercare una strada verso il bene”: questo era solito ripetere il sacerdote. Ho appreso nella mia vita che esistono tre strade, quella bianca del bene, quella nera del male. Poi la grigia, che è la peggiore. Rappresenta la mediocrità, quella che non esprime un credo. Nella vita, come ha fatto don Pino, è importante lasciare messaggi e incidere la storia. E’ fondamentale essere protagonisti, non spettatori. “Era il 15 Settembre 1993 quando padre Puglisi fu ucciso. Sentii suonare al campanello. Era un ragazzo del centro. Mi disse: “E’ morto padre Puglisi”. Mi sentii morire anche io. Non riuscivo a stare in piedi. Sentii un senso di vuoto dentro me, di disperazione. Come se avessi perso d’improvviso la speranza. Mi domandai anche dove fosse Dio. Mi risposi poco tempo dopo, quando ripensai alle sue parole: “più che uccidermi, che possono farmi?”. Questo voleva dire.”115. Tutti sono

prossimi alla morte, ma chi muore per un ideale, lascia un segno

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indelebile. Lui sarebbe stato lì per sempre; per indicare la strada, per spingere a portare avanti quel sogno, per dire che niente è perduto. “Non lasciate il mio corpo troppo solo”, aveva detto. “Voleva ricordarci di non abbandonare quello che lui aveva costruito, di continuare il cammino di speranza”116. Nelle parole dei due killer, ma soprattutto nei

loro pensieri, rimarrà sempre il ricordo di un uomo che ha guardato la mafia negli occhi e l’ha sfidata. Nelle loro dichiarazioni dissero di averlo seguito e ucciso con un colpo alla testa, dichiarando che fosse una rapina; Padre Puglisi li guardò negli occhi dicendo “me lo aspettavo” e sorrise. È un’immagine significativa: padre Puglisi rimane fermo, non fugge davanti ai suoi ideali, al suo credo, al suo Vangelo. Li stava aspettando e sapeva quale sarebbe stato il suo disegno divino, la sua missione. “È stato difficile andare avanti dopo la sua morte, non avevo capito la pericolosità di questo quartiere ma soprattutto la “potenza del motore” a cui aveva dato avvio Don Pino con il suo metodo educativo. Fu l’anno più difficile della mia vita. Erano anni di fuoco, gli anni caldi di Palermo. Mi sentivo disperata e fallita. L’eredità di Don Pino è stata raccolta soltanto da chi ha creduto fino in fondo, a lui ed alla sua fede. C’è chi ancora ha deciso di crederci, di credere in quel progetto rivoluzionario di Don Pino”. Il Comitato Intercondominiale lavora oggi come allora, cercando di portare avanti una missione. “Anche io ho iniziato a intravedere di nuovo una luce, quando ho capito che questa eredità che mi aveva lasciato dovevo accettarla, senza beneficio di inventario. Totalmente, interamente. Potevo farcela, con la forza di Dio. Tornando indietro di qualche anno, rispetto a quel 15 Settembre, non avrei mai immaginato di poter vivere quella situazione ma dopo anni ho capito l’importanza di quel dono e di quegli anni che hanno dato un senso mirato alla mia vocazione. Seppur con le dovute sofferenze, questo dolore mi ha poi aiutato a scegliere nuovamente una strada complessa, in Calabria, fatta ancora di

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compromessi con una terra similmente ferita dalla mafia. La Locride è una realtà altrettanto difficile; il percorso che abbiamo intrapreso insieme a Don Giancarlo Bregantini è quello di far conoscere ai giovani vie alternative alla strada, alla sottomissione al male, alla piaga mafiosa. La strada della ricerca della legalità, della giustizia, della educazione ai valori è sempre la via migliore per arrivare a rapportarsi con i ragazzi e per arrivare al loro cuore. Cerchiamo di condurre con loro un percorso che conduca alla legalità già dalle piccole scelte quotidiane. Da essere leali con i propri compagni di giochi, a rispettare l’ambiente e le cose che mettiamo loro a disposizione, a rispettare piccole fondamentali regole di convivenza. È una mentalità a volte ristretta e ignorante che porta a commettere crimini sotto le direttive di un sistema criminale pungente. Di conseguenza, i ragazzi acquisiscono questa mentalità, perché la vivono nelle mura di casa, perché subiscono il disagio di una famiglia sofferente; resa tale da un padre in carcere e una madre sottopagata o peggio. È più facile delinquere, guadagnare con poche azioni, anche a costo della dignità o della vita. È qui che ci facciamo strada noi, con la nostra opera. Una opera di conversione per coloro che sono già schiavi di un sistema troppo opprimente o di accompagnamento verso il giusto cammino per chi ancora può scegliere da che parte stare. Così ai ragazzi più talentuosi si permette di diventare educatori-volontari, gli altri si guidano verso quello che possono arrivare a fare. C’è posto per tutti, ci sono cose da fare e da imparare per tutti. I ragazzi devono entrare nella logica del dono. Non si può solo ricevere, bisogna anche saper donarsi nella vita; non solo donare il tempo, ma se stessi. Don Pino raccontava sempre la parabola del seminatore. Solo chi semina un seme di speranza, di legalità, di giustizia, di amore, raccoglierà frutti buoni. Abbiamo cercato di portare lo stesso seme anche un po’ più distante rispetto a Brancaccio, lavorando nella Locride con i giovani più bisognosi, non di denaro ma di affetto, di educazione, di giustizia. Altri “ragazzi del vento”, tentati

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da una delinquenza diffusa e proficua. Dovevo portare il suo messaggio anche fuori, era quella la mia eredità; non permettere che la sua missione svanisse di lì a poco. È anche questo un territorio sofferente, sottomesso alle piaghe di una criminalità organizzata che soffoca, togliendo aria pulita alle giovani generazioni, lacerata da faide familiari. Ci sono fenomeni che favoriscono la malavita: mancanza di lavoro, l’abbandono da parte dello Stato, la povertà, l’ignoranza culturale. Le ferite così si trasformano in armi, per difendersi. Anche in Calabria, il messaggio di don Pino ha messo le basi per un futuro improntato alla legalità, alla verità e al rispetto; cerchiamo di accompagnare i giovani che hanno lasciato la scuola per riaccompagnarli verso un’istruzione o un avviamento al lavoro. La strada è nemica degli animi perduti, devia quel poco di ingenuità che resta ai giovani e apre le porte alle tentazioni pericolose. Si è dato vita ad un centro di aggregazione per giovani, un posto per incontrarsi. Il centro offre di impegnarsi a dare senso al loro tempo libero con attività e corsi improntati alla ricerca del cammino di ognuno: corsi di lavorazione del legno, ceramica, cuoio, cera, e con il ricavato acquistiamo altri sussidi per loro. Oltre a dedicarsi ai giovani, ci occupiamo anche delle famiglie più sofferenti; è dalle loro lacune che nascono i problemi relazionali dei ragazzi. Ci sono storie di disagio, di emarginazione, di disoccupazione. Sono il frutto di una società che miete vittime, creando differenze di ceti, di stati sociali, di ingiustizie, di falsi moralismi e false religioni. I “figli del vento” sono stati cari a don Pino, li ha amati, ne ha fatto soggetti di cura a di attenzione per liberarli dalla malavita, dalla mafia, dalle prepotenze e dall’ignoranza. Non tutti sapranno raccogliere i suoi frutti, ma è l’aria di cambiamento che porta a nuove terre. Forse qualcosa don Pino era riuscito a muovere, forse oggi qualche coscienza farà più fatica ad andare avanti. Non si poteva restare a guardare, era importante attivarsi per contribuire alla crescita della civiltà del paese, dei ragazzi e dei bambini”117. Il 29

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Gennaio 1993, fu un giorno importante per il Centro ma soprattutto per il quartiere. Quel giorno, doveva essere un nuovo inizio, e così fu.

4.6 Intervista a Suor Carolina Iavazzo118.